Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-01-2013) 20-02-2013, n. 8371 Bancarotta fraudolenta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

– che con l’impugnata sentenza fu confermata la condanna di B. D. alla pena di anni tre e mesi tre di reclusione per il reato di bancarotta fraudolenta, documentale e patrimoniale, in relazione al fallimento, dichiarato il 26 novembre 1996, della s.a.s. XXX, di cui il B. figurava quale socio accomandatario;
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, con atto a propria firma, l’imputato, denunciando:
1) violazione dell’art. 62 c.p.p., art. 63 c.p.p., comma 2, artt. 192 e 195 c.p.p. per essere state ritenute utilizzabili, a sostegno del confermato giudizio di colpevolezza, le dichiarazioni rese dall’imputato al curatore fallimentare nonchè quelle rese al medesimo curatore dal socio accomandante C.L., il quale sarebbe stato da considerare fin dall’inizio come persona sottoposta a indagini, per cui le sue dichiarazioni sarebbero state da assumere previa formulazione degli avvisi di legge e, per poter acquisire compiuta valenza probatoria, avrebbero dovuto essere corroborate da adeguati riscontri esterni;
2) violazione dell’art. 2 c.p. e dell’art. 192 c.p.p., in relazione all’art. 533 c.p.p., e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), sull’assunto che, alla stregua delle modifiche introdotte alla legge fallimentare dal D.Lgs. n. 5 del 2006, sarebbero state da ritenere mancanti le condizioni previste per la dichiarazione di fallimento e, quindi, per la configurabilità dei reati addebitati al ricorrente;
3) violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p. in relazione alla L. Fall., artt. 216 e 223, unitamente a vizio di motivazione, per essere stata ritenuta la penale responsabilità del ricorrente soltanto sulla base della qualifica, da lui solo formalmente rivestita, di socio accomandatario della società fallita, in assenza di qualsivoglia elemento positivamente dimostrativo di detta responsabilità, tale non potendosi, in particolare, ritenere quello costituito dall’avere egli accettato di assumere dietro compenso la suindicata carica sociale, tanto più in quanto era risultato che non erano state da lui apposte le firme di traenza sugli assegni tratti sul conto corrente della società, mediante i quali sarebbero state effettuate le operazioni distratti ve di cui all’imputazione;
4) falsa applicazione dell’art. 110 c.p. e L. Fall., artt. 216 e 223, unitamente a vizio di motivazione, per avere la corte di merito attribuito anche al ricorrente un ruolo effettivamente gestionale nell’ambito dell’impresa fallita sulla sola base – si afferma – di congetture, non essendo stata acquisita alcuna prova che il ricorrente avesse avuto conoscenza o sospetto della condotta, da altri posta in essere, costituita dalle operazioni distrattive e dall’occultamento o distruzione delle scritture contabili;
5) violazione e falsa applicazione dell’art. 133 c.p. in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. e), sull’assunto che la modestia del fatto e il comportamento processuale dell’imputato, improntato alla massima collaborazione, avrebbero dovuto comportare la concessione delle attenuanti generiche e la determinazione della pena in misura corrispondente al minimo edittale;
6) violazione dell’art. 129 c.p.p., sull’assunto che, dovendosi tutt’al più qualificare come bancarotta semplice la condotta attribuita al ricorrente, il reato sarebbe stato da ritenere estinto per prescrizione.

Motivi della decisione

– che il ricorso non appare meritevole di accoglimento, in quanto:
a) con riguardo al primo motivo, lo stesso mostra di ignorare del tutto il consolidato orientamento di questa Corte, quale espresso, da ultimo, da Cass. 5, 18 aprile – 24 settembre 2008 n. 36593, Mangano ed altri, RV 242020, secondo cui: "Le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63 c.p.p., comma 2, che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito in qualità d’imputato, in quanto il curatore non rientra in queste categorie e la sua attività non può farsi rientrare nella previsione di cui all’art. 220 norme coor. c.p.p., che concerne le attività ispettive e di vigilanza" (nello stesso senso, in precedenza: Cass. 5, 15 ottobre – 19 novembre 2001 n. 41134, Lottini ed altro, RV 220257; Cass. 5, 4 ottobre – 2 dicembre 2004 n. 46795, Pacella, RV 230520); principio, quello anzidetto, che, all’evidenza, per identità di "ratio", non può non trovare applicazione anche con riguardo alle dichiarazioni rese al curatore da soggetti diversi dal fallito (quali, nella specie, il C.), non suscettibili, d’altra parte, neppure di entrare nell’ambito delle previsioni di cui all’art. 192 c.p.p., nella parte in cui questo richiede, per le prove dichiarative provenienti da coimputati o soggetti assimilati, la presenza dei c.d. "riscontri esterni", dal momento che tale disposizione normativa presuppone, chiaramente, l’effettiva e non soltanto potenziale assunzione, da parte del dichiarante, di detta qualità;
b) con riguardo al secondo motivo, lo stesso si pone in dichiarato contrasto con il principio già affermato dalle S.U. di questa Corte 28 febbraio – 15 maggio 2008 n. 19601, Niccoli, RV 239398, secondo cui: "Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 216 e segg. non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate al R.D. n. 267 del 1942, art. 1, D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p. sui procedimenti penali in corso"; principio, questo, poi condiviso da altre successive pronunce (in particolare:
Cass. 5, 8 gennaio – 2 marzo 2009 n. 9279, Carottini, RV 243160;
Cass. 5, 8 maggio – 16 ottobre 2009 n. 40404, Melucci, RV 245427), e dal quale il collegio non vede ragione alcuna per discostarsi, non risultando proposto alcun argomento nuovo e decisivo che possa indurre a rimetterlo in discussioni, tale non potendosi ritenere quello contenuto nel ricorso e basato sull’assunto della sua "dubbia costituzionalità" perchè in non meglio precisato contrasto "con i principi CEDU, con le norme UE e con i principi espressi nel progetto di costituzione dell’UE";
c) con riguardo al terzo ed al quarto motivo (da esaminarsi congiuntamente, attesa la sostanziale sovrapponibilità dei rispettivi contenuti), gli stessi, per un verso, relativamente alla bancarotta documentale), dimenticano il principio più volte affermato da questa Corte e richiamato anche nell’impugnata sentenza secondo cui per detta ipotesi di reato (nella specie configurata sulla base del rilievo che la società "non si era mai dotata di alcuna scrittura contabile o libro sociale obbligatorio", secondo la non contestata affermazione contenuta nell’impugnata sentenza), ben può ritenersi la responsabilità’ del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetto "testa di legno"), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le prescritte scritture contabili (ved., in tal senso, fra le più recenti, Cass. 5, 19 febbraio – 21 ottobre 2010 n. 19049, Succi ed altri, RV 247251); per altro verso, relativamente alla bancarotta patrimoniale per distrazione (nella specie costituita essenzialmente, secondo la parimenti incontestata ricostruzione in fatto dei giudici di merito, da esborsi di somme mediante impiego di assegni tratti sul conto corrente della società), si risolvono in una generica e sterile contestazione della valutazione più che ragionevole (e pertanto insindacabile, in questa sede) operata dalla corte territoriale, secondo cui, a parte quanto riferito dal C. circa la non totale assenza di un diretto coinvolgimento del ricorrente nella gestione della società fallita, appariva in concreto impensabile che lo stesso ricorrente, dedito per sua stessa ammissione all’attività costituita dall’assumere, dietro retribuzione, la carica di legale rappresentate, a vario titolo, di società rivelatesi quasi tutte destinate al fallimento, non si fosse reso conto, nel consegnare a tale F.G. (indicato come effettivo "dominus" della società, unitamente a tale P.R.), interi blocchetti di moduli per assegno ricevuti dalla banca presso la quale era aperto il conto corrente della società, che detti moduli sarebbero stati presumibilmente adoperati a fini distrattivi, avuto anche riguardo alla totale assenza (come si è già ricordato) di scritture contabili dalle quali la destinazione delle somme potesse in qualche modo apparire giustificata; il che rende, all’evidenza (come ben osservato nell’impugnata sentenza) del tutto irrilevante che gli assegni in questione fossero poi stati emessi con la firma apocrifa del ricorrente; ciò anche alla luce del principio affermato (in linea con altre precedenti pronunce di analogo orientamento), da Cass. 5, 26 gennaio – 27 febbraio 2006 n. 7208, Filippi ed altro, RV 233637, secondo cui, nel caso di "soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possono scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale";
d) con riguardo al quinto motivo, le proposte doglianze in tema di trattamento sanzionatorio, per un verso, si basano su valutazioni puramente soggettive e di merito; per altro verso passano sotto silenzio il più che valido riferimento che la corte territoriale, a giustificazione del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche e della ritenuta congruità della pena (peraltro determinata in misura assai prossima al minimo edittale), ha operato al fatto costituito dalla presenza, a carico dell’imputato, di "numerosissimi precedenti penali, anche specifici";
e) con riguardo al sesto motivo, posta l’assoluta apoditticità e genericità dell’assunto secondo il quale sarebbe, nella specie, configurabile il solo reato di bancarotta semplice, ne deriva la evidente infondatezza della doglianza circa la mancata declaratoria di estinzione di detto reato per prescrizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2013

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