T.A.R. Campania Napoli Sez. V, Sent., 20-01-2011, n. 391

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Premette F.S. – già dipendente della ex U.S.L. n. 41, con la qualifica di Infermiere Professionale, transitato all’Azienda Ospedaliera (A.O.) X, con sede in Napoli, alla X – di essere stato sospeso dal servizio ai sensi dell’art. 91 del D.P.R. n. 3/1957 con decorrenza dal 25.3.1992 in ragione della misura cautelare disposta a suo carico dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Lucca poiché indiziato di reato nell’ambito di indagini svolte dalla locale Autorità Giudiziaria.
Aggiunge che, con sentenza n. 19 del 25.1.1993 del predetto Tribunale, confermata con sentenza n. 128 del 18.1.1994 della Corte di Appello di Firenze, era stato riconosciuto colpevole del reato previsto dagli artt. 73 D.P.R. n. 309/1990 e 110 cod. pen. (detenzione di sostanze stupefacenti) con condanna a sei anni di reclusione, alla multa di lire 40 milioni ed alla interdizione perpetua dai pubblici uffici ma che, rimesso in stato di libertà per buona condotta in data 14.3.1997, doverosamente comunicato all’Ufficio Personale dell’A.O. X, l’esito delle citate sentenza (trasmettendone copia autentica), con raccomandata del 22.3.1997, aveva chiesto di essere riammesso in servizio.
Aggiunge, ancora, che, per il notevole danno economico che stava subendo, per sé e la propria famiglia, per la circostanza che, dal mese di aprile 1997, l’Amministrazione aveva sospesa il pagamento delle retribuzione mensile dovutagli, in data 14.5.1998, aveva notificato un atto con cui aveva diffidato il Direttore Generale dell’A.O. X a riammetterlo in servizio con efficacia dal mese di aprile 1997 ed a corrispondergli gli assegni familiari e la retribuzione a lui spettanti.
Tanto premesso e preso atto che, con la determinazione n. 475 dell’11.6.1998 in epigrafe, il Direttore Generale dell’A.O. X, in esecuzione delle predette sentenze di condanna (tra l’altro) all’interdizione perpetua dai Pubblici Uffici, aveva dichiarata, a decorrere dall’1.1.1995, la sua decadenza dall’impiego, F.S., con il ricorso in esame – notificato il 22.7.1998 e depositato il giorno 27 successivo – ha impugnato, innanzi a questo Tribunale, la predetta determinazione.
Ha chiesto, altresì, l’accertamento del suo diritto alla riammissione in servizio con effetto dal 25.3.1997, previa dichiarazione di cessazione della sospensione cautelare disposta in data 25.3.1992 ed alla corresponsione della retribuzione dovuta per legge a far data dal 25.3.1997, con la conseguente condanna dell’intimata Azienda al pagamento delle relative somme.
A sostegno del gravame l’interessato ha dedotto le seguenti censure.
1) Violazione della L. n. 241/1990, in particolare artt. 7 e 10, per violazione del principio del giusto procedimento e di trasparenza dell’attività amministrativa, essendogli stata preclusa la partecipazione al procedimento fin dall’inizio per non avere ricevuto alcuna previa comunicazione dell’avvio del procedimento contenente l’indicazione del nominativo del responsabile del procedimento e dell’ufficio competente per l’istruttoria.
2) Violazione dell’art. 3 L. n. 241/1990 per omessa motivazione. Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, non risultando esplicitata la motivazione dell’impugnato provvedimento ed indicato in virtù di quale disposizione legislativa o norma sarebbe stato applicato nei suoi confronti l’istituto della decadenza dall’impiego.
3) Invalidità per inesatta e falsa applicazione dell’istituto della decadenza dall’impiego. Violazione di legge (art. 127 D.P.R. n. 3/1957; art. 15 L. n. 55/1999; L. n. 19/1990. Violazione dell’art. 56 del C.C.N.L. per i dipendenti della Sanità Pubblica). Eccesso di potere. Al riguardo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 9 della L. n. 19/1990 che avrebbe abrogato l’istituto della destituzione di diritto (permanendo una tale sanzione unicamente per gli amministratori rivestenti cariche pubbliche elettive), nonché dell’art. 56 del C.C.N.L. per il personale della Sanità pubblica che avrebbe disapplicato tutte le norme previgenti incompatibili con quelle del contratto in quanto tali da consentire la destituzione di diritto, invocando l’applicazione degli artt. 29 e 30 del C.C.N.L. Sanità che, in linea con l’art. 59 del D.L. vo n. 29/1993, prevederebbe il procedimento disciplinare obbligatorio ed il relativo codice da applicarsi in ciascuno dei casi espressamente previsti.
4) Invalidità per omissione del procedimento disciplinare. Violazione dell’art. 59 D.L. vo n. 29/1993. Violazione degli artt. 29 e 30 del C.C.N.L. per i dipendenti della Sanità Pubblica. Eccesso di potere. Al riguardo parte ricorrente assume l’illegittimità dell’impugnato provvedimento di decadenza per essere stato disposto senza che preventivamente fosse stato iniziato e concluso il procedimento disciplinare previsto obbligatoriamente dalla rubricata normativa, non avendo l’intimata Azienda "dalla data di conoscenza della sentenza" avviato il predetto procedimento con la contestazione degli addebiti entro i termini rigorosamente previsti dalla normativa, decorrenti dalla conoscenza da parte dell’A.O. X delle sentenze penali pronunciate nei confronti del F..
5) Violazione dei principi di legalità, di imparzialità e di buona amministrazione. Violazione degli artt. 24, 97, 113 Cost., essendo stati violati tutti i principi fondamentali dell’attività amministrativa, non essendo state osservate, nel caso di specie le norme indicate nei motivi precedenti e valutati i diritti del ricorrente che ne subirebbe un danno notevole e rilevante.
6) Violazione dell’art. 9 L. n. 19/1990, invocando la revoca di diritto della sospensione cautelare per decorso del termine quinquennale previsto dalla rubricata norma,con conseguente diritto alla riammissione un servizio e pagamento del trattamento economico dovuto per legge.
L’intimata Azienda Ospedaliera si è costituita chiedendo il rigetto del ricorso, sì come in fondato.
Con ordinanza n. 316 del 25 agosto 1998 la Sezione aveva riservato positiva valutazione all’istanza cautelare e con la successiva ordinanza n. 71 del 28 gennaio 2010 aveva disposto incombenti istruttori.
Alla pubblica udienza del 2 dicembre 2010 il ricorso è stato ritenuto in decisione.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato.
2. La Sezione con ordinanza n. 71 del 28 gennaio 2010 disponeva incombenti istruttori da porsi a carico della medesima A.O. X, nella persona del Dirigente l’Ufficio Affari Generali e Personale.
In particolare, con tale ordinanza, considerato che, nel disporsi con la impugnata determinazione la decadenza dall’impiego del F. a decorrere dall’1.1.1995, si prendeva atto che "l’istante risulta essere stato sospeso dal servizio ed a tutt’oggi non è stato riammesso in attività" e vista l’ordinanza cautelare n. 316 del 25 agosto 1998, di sospensione dell’efficacia della predetta determinazione, riteneva necessario, ai fini del decidere, conoscere se, a seguito ed in esecuzione della predetta ordinanza, l’A.O. X avesse disposto la riassunzione in servizio del dipendente ed, in caso di mancata riammissione, documentate controdeduzioni in merito, alla luce dei motivi di gravame, nonché degli atti e dei documenti contenuti nel fascicolo personale del dipendente in base ai quali era stato emanato l’atto impugnato.
In esecuzione del predetto incombente istruttorio in data 30 luglio 2010 risulta depositata in giudizio, unitamente alla documentazione richiesta, la nota prot. n. 13481 del 29 luglio 2010, a firma del Direttore del Servizio, nella quale si rappresenta che: "Risulta dagli atti la circostanza che l’A.O. X non ha disposto la riammissione in servizio del ricorrente, in esecuzione dell’ordinanza cautelare n. 316/98 che aveva sospeso l’efficacia del provvedimento impugnato, poiché tale provvedimento di decadenza dall’impiego deve ritenersi, viceversa, allo stato, pienamente legittimo ed efficace, rilevato che, in accoglimento del ricorso in appello a suo tempo proposto dalla resistente Azienda (ric. n. 10063/98 r.g.), il Consiglio di Stato ha riformato la richiamata ordinanza del T.A.R. Campania, respingendo, con ord. V sez. n. 2422/98, l’istanza di sospensiva proposta in primo grado nei confronti del provvedimento in argomento".
3. L’esito della disposta istruttoria avvalora l’infondatezza della seconda, della terza e della quarta censura che, afferendo ad un’unica linea logicoargomentativa, possono trattarsi congiuntamente.
4. Nella terza censura parte ricorrente, invocando il principio di tassatività delle sanzioni disciplinari, richiama l’art. 9 della L. n. 19/1990, che avrebbe abrogato l’istituto della destituzione di diritto (con normativa confermata dal C.C.N.L. della Sanità che all’art. 56 avrebbe disapplicato tutte le norme contrattuali previgenti compatibili con la destituzione di diritto), invocando la tempestiva attivazione dell’obbligatorio procedimento disciplinare previsto dagli artt. 29 e 30 del suddetto contratto, in linea con l’art. 59 del D.L. vo n. 29/1993.
5. La censura è infondata.
6. Deve, al riguardo, rilevarsi come secondo consolidata orientamento giurisprudenziale, peraltro successivo alla L. n. 19/1990, l’Azienda Ospedaliera resistente non poteva che prendere atto degli effetti automatici e preclusivi della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici comminata dal giudice penale con la conseguente impossibilità giuridica della permanenza del F. negli organici della predetta Azienda.
Secondo la giurisprudenza appena richiamata: " Non occorre l’instaurazione del procedimento disciplinare per l’irrogazione della sanzione della destituzione del pubblico dipendente, condannato dal giudice penale, nel caso in cui alla condanna segua l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, operante indipendentemente dai contrari provvedimenti dell’amministrazione " (C.di S., sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 6669 e C. di S., sez. VI, 28 settembre 2001, n. 51639); " Il provvedimento con cui il Capo della Polizia decreta la decadenza dal servizio di un dipendente della Polizia di Stato, in seguito al passaggio in giudicato di sentenza penale di condanna a cinque anni di reclusione, in applicazione dell’art. 28, comma 2, cod. pen., secondo cui l’interdizione perpetua dai pubblici uffici priva il condannato di ogni pubblico ufficio e della qualità di pubblico ufficiale, non è sanzione disciplinare espulsiva avente carattere automatico, ma costituisce semplice (e necessitata) presa d’atto della intervenuta applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici: da ciò discende la inapplicabilità, alla fattispecie in questione, dell’art. 9, L. n. 19 del 1990 " (T.A.R. Veneto, sez. I, 1 ottobre 2002, n. 5936).
7. Nota il Collegio come l’allontanamento del dipendente dai pubblici uffici, rappresenta null’altro che una conseguenza inevitabile della sanzione accessoria dell’interdizione disposta dal giudice penale in sede di condanna, senza che l’allontanamento in parola debba trovare fondamento in una specifica disposizione che lo contempli, per modo che, a tale riguardo, alcun rilievo può avere la previsione – invocata da parte ricorrente – di cui all’art. 9 della L. n. 19/l990, che abroga ogni contraria disposizione di legge che prevedesse la destituzione di diritto del pubblico dipendente a seguito di condanna penale.
Ne consegue anche l’infondatezza della seconda censura nella quale il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990 per omessa individuazione nell’impugnato provvedimento della norma che legittimerebbe la disposta decadenza.
8. Infondata è anche la quarta censura in cui è stata dedotta la violazione dell’art. 59 D.L. vo n. 29/1993 e, relativamente ai dipendenti della Sanità Pubblica, degli artt. 29 e 30 del C.C.N.L., per essere stato disposto l’impugnato provvedimento di decadenza senza che preventivamente fosse stato iniziato e concluso il procedimento disciplinare obbligatoriamente previsto dalla rubricata normativa.
In contrario basterà rilevare che nella recente sentenza n. 7734 del 2.11.2010 del Consiglio di Stato, Sez. IV, si è affermato che l’amministrazione, in presenza di una sentenza penale di condanna con irrogazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, non può far altro che disporre la cessazione dal servizio del dipendente pubblico condannato, con un provvedimento che non ha carattere né costitutivo, né discrezionale, ma che è vincolato ed è dichiarativo di uno status conseguente al giudizio penale definitivo nei confronti del dipendente (Cfr. anche Sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 6669).
Invero, come riconosciuto anche dalla difesa di parte ricorrente, il contraddittorio procedimentale con l’interessato si impone qualora l’Amministrazione procedente, nel corretto esercizio della propria potestà discrezionale debba valutare l’eventuale applicazione della misura più appropriata alla gravità del fatto ed, in concreto, alla responsabilità dell’incolpato, alla pericolosità sociale del condannato ed al recupero morale dell’interessato; esigenze, queste, che non si rinvengono nel caso di specie laddove la sanzione della destituzione consegue automaticamente alla pena accessoria alla sentenza di condanna penale dell’interdizione perpetua dai pubblici.
9. Ne deriva la fondatezza anche della prima censura, nella quale stata dedotta la violazione dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241 per non essere stata preclusa all’interessato la garanzia del giusto procedimento di legge, attraverso l’invio della comunicazione di avvio del procedimento.
Invero l’esito ineluttabile e necessitato della sanzione espulsiva, quale conseguenza dell’interdizione perpetua del dipendente da tutti i pubblici uffici, rendeva del tutto inutile e pletorica la sua partecipazione al procedimento, atteso che il "contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", con la conseguente irrilevanza del vizio lamentato dall’interessato giusta la previsione di cui all’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990.
10. Inammissibile è, invece, il quinto motivo di violazione dei principi di legalità, di imparzialità, di buona amministrazione e di tutti i principi fondamentali dell’attività amministrativa, nonché degli artt. 24, 97, 113 Cost., trattandosi di una critica che appare generica ed indistinta non indicandosi gli specifici profili della lamentata violazione, ed, inoltre, testualmente, ripetitiva dei precedenti motivi di gravame.
11. Infondata è, infine, l’ultima censura nella quale parte ricorrente invoca la riammissione in servizio in virtù della revoca di diritto della sospensione cautelare per decorso del termine quinquennale previsto dall’art. 9 L. n. 19/1990 alla data del 25.3.1997, con il conseguente diritto alla retribuzione a decorrere da tale data.
Tuttavia, come riconosciuto dal medesimo ricorrente, l’assunto presuppone l’illegittimità ed il conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento di decadenza, mentre, nel caso di specie, da quanto si è andato esponendo, si è appalesata la piena legittimità e doverosità del provvedimento di decadenza, la qual cosa traendo seco la legittimità anche della disposta sospensione cautelare dal servizio, quale anticipazione dell’allontanamento dal servizio, poi, definitivamente confermata dal provvedimento di decadenza.
12. In definitiva il ricorso è infondato e, quindi, deve essere respinto.
13. Sussistono, comunque, giusti motivi per compensare fra le parti le spese giudiziali.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Quinta Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe (n. 8005/1998 R.G.) proposto da F.S., lo respinge.
Compensa fra le parti le spese, le competenze e gli onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 2 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Vincenzo Cernese, Presidente FF, Estensore
Gabriele Nunziata, Consigliere
Sergio Zeuli, Primo Referendario

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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