Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-07-2012, n. 13396

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Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 17 e il 18 ottobre 1975 S.A. ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Salerno P. A. e Sa.Gi. esponendo che con scrittura privata del 30 settembre 1973 le era stato promesso in vendita dalla prima un terreno subordinatamente alla condizione della rinuncia al diritto di prelazione da parte dei coltivatori diretti proprietari di terreni confinanti, che la P. aveva successivamente alienato il fondo al Sa., asserito proprietario confinante prelazionario, che, nella dedotta carenza del requisiti soggettivi e oggettivi per il valido esercizio del diritto di prelazione da parte dell’acquirente, ella aveva diritto di ottenere o l’annullamento del predetto contratto in surroga della P., per errore essenziale sulle qualità del S., ex art. 2900 c.c., ovvero la declaratoria di inefficacia dello stesso, in quanto stipulato in frode ai suoi diritti, ex art. 2901 c.c. e che all’accoglimento di tali domande doveva conseguire il risorgere del diritto alla esecuzione in forma specifica del preliminare, ex art. 2932 cod. civ..

Costituitisi in giudizio, i convenuti hanno resistito alla pretesa attrice.

Con sentenza del 25 febbraio 1978 il Tribunale di Salerno ha ritenuto che la P. si fosse correttamente avvalsa del diritto di recedere dal preliminare, conseguentemente condannandola a pagare la sola differenza ancora dovuta sulla somma contrattualmente convenuta per l’esercizio dello ius poenitendi e rigettando ogni altra domanda.

Proposto gravame, in via principale da parte della S., e, in via incidentale, da parte della P. e del Sa., la Corte d’appello di Salerno, con sentenza 2 giugno 1982, in parziale riforma della impugnata pronuncia, ha rigettato integralmente le domande proposte dall’attrice, ritenendo che il contratto fosse divenuto inefficace, a seguito del mancato avveramento della condizione sospensiva della rinuncia al diritto di prelazione da parte dei confinanti.

Con sentenza del 17 gennaio 1987 n. 373 la Corte di cassazione ha cassato tale pronuncia, con rinvio alla Corte d’appello di Napoli.

Ha rilevato il Supremo Collegio che il giudice di merito aveva omesso di accertare se effettivamente il Sa. e gli altri dieci confinanti fossero titolari del diritto di prelazione e se gli stessi lo avessero correttamente esercitato.

Il giudice di rinvio, innanzi al quale la causa è stata riassunta, con sentenza 23 settembre 1993, in riforma della decisione di primo grado, ha accolto integralmente le domande della S. e, dichiarato inefficace nei confronti della stessa la vendita conclusa tra la P. e il Sa., trasferendole, ex art. 2932 cod. civ., la proprietà del fondo, subordinatamente al pagamento del prezzo.

Anche questa pronuncia è stata, tuttavia, cassata dal Supremo Collegio con la sentenza 1 dicembre 1994 n. 10300.

Ha precisato la Corte con tale pronunzia che il suo precedente arresto aveva vincolato il giudice di rinvio al rispetto del principio per cui, al fine di ritenere esercitato il diritto di prelazione, non è sufficiente che il confinante abbia manifestato l’intenzione di acquistare il fondo, ma è necessario che abbia adempiuto a tutti gli oneri previsti della L. n. 590 del 1965, art. 8, e dell’omologo articolo della L. n. 817 del 1971, in tale prospettiva impartendogli la direttiva di indagare sulle situazioni giuridiche dei dieci confinanti, in relazione alla loro condizione di prelazionisti, ossia di accertare se alcuno di essi avesse posto in essere una condotta tale da determinare l’avveramento della condizione sospensiva e, in caso di esito negativo di tale scrutinio, di esaminare la particolare posizione del Sa., laddove il giudice di rinvio aveva completamente trascurato la prima di dette indagini.

La Corte ha ritenuto inoltre erronea la statuizione dei giudici di merito secondo cui la facoltà di recesso, così come è preclusa dalla proposizione di una domanda di risoluzione per inadempimento, lo è da quella di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Precisato quindi che al promittente venditore, convenuto con domanda ex art. 2932 cod. civ., è consentito opporre la facoltà di recesso, ha statuito che nella fattispecie andava accertato se tale facoltà era stata esercitata e correttamente esercitata.

L’ulteriore giudizio di rinvio che seguito a tale decisione si è concluso con sentenza della Corte d’appello di Napoli 17 marzo 1998, con cui è stata integralmente confermata la sentenza di primo grado, rigettando sia l’appello principale che quello incidentale.

Nuovamente impugnata tale pronuncia con ricorso per cassazione, questa Corte, con sentenza 14 novembre 2000 n. 14730 ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’appello di Potenza.

In tale pronuncia, per quanto qui interessa, il Supremo Collegio ha ritenuto preclusa, perchè implicitamente risolta in senso positivo, con statuizione ormai coperta da giudicato, l’eccezione, formulata dal Sa., in ordine al difetto di legittimazione della S. a proporre domanda di esecuzione in forma specifica in ragione dell’intervenuta vendita del bene oggetto del preliminare.

Ha affermato, altresì, la S.C. che del pari non poteva più essere oggetto di discussione la possibilità, per la P., sia di esercitare il diritto di recedere dal contratto, sia di agire in giudizio, chiedendo l’accertamento del mancato avveramento della condizione sospensiva cui era sottoposta l’efficacia del contratto, essendole stata riconosciuta la facoltà di percorrere entrambe le vie nelle precedenti pronunce ed ha negato, infine, che nella fattispecie il diritto di recesso potesse ritenersi validamente esercitato, mancando la forma scritta ad substantiam.

Con sentenza 26 aprile 2007, il giudice di rinvio, non definitivamente pronunziando, ha rigettato le domande oggetto di azione surrogatoria e revocatoria, ha dichiarato assorbito l’esame della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto preliminare e, ritenuta la P. inadempiente alle obbligazioni ivi assunte, per l’accertata insussistenza delle condizioni necessarie al valido esercizio della prelazione agraria da parte del Sa., ha disposto con separata ordinanza la rimessione della causa sul ruolo al fine di accertare, a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, l’entità dei danni derivati dalla privazione del godimento del fondo.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione S. A., affidando le sue doglianze a otto motivi.

Hanno resistito con controricorso Me., C., M., A., e B.F., eredi di P.A., nonchè Sa.Gi., i quali hanno altresì proposto ricorso incidentale, a fronte del quale S.A. ha a sua volta notificato controricorso.

Con sentenza 11 maggio 2009 n. 10744, questa Corte ha rigettato sia il ricorso principale che quello incidentale, mentre – espletata una ulteriore fase istruttoria – il giudice del rinvio con sentenza definitiva 26 ottobre 2010 in parziale accoglimento dell’appello avverso la sentenza di primo grado ha condannato Bo.Me., B. C., B.M., B.A. e B.F., in base alle rispettive quote ereditarie, al pagamento, in favore di S. A., a titolo di risarcimento dei danni, della somma di Euro 35.279,27, oltre rivalutazione monetaria secondo indici Istat e interessi legali sulle somme annualmente rivalutate dal 31 dicembre 1973 al soddisfo, ponendo a carico dei soccombenti B. in solido le spese di lite in favore dell’appellante, compensate le spese sostenute da Sa.Gi..

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, hanno proposto ricorso per cassazione Bo.Me., B.C., B. M., B.A. e B.F. affidato a 7 motivi e illustrato da memoria.

Resiste con controricorso, anch’esso illustrato da memoria, S. A.. Non ha svolto attività difensiva in questa sede Sa.

G..

Motivi della decisione

1. Come riferito in parte espositiva, con sentenza non definitiva 26 aprile 2007, il giudice di rinvio ha:

– rigettato le domande oggetto di azione surrogatoria e revocatoria;

– dichiarato assorbito l’esame della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto preliminare;

– ritenuto la P. inadempiente alle obbligazioni assunte con il preliminare 30 settembre 1973, per la accertata insussistenza delle condizioni necessarie al valido esercizio della prelazione agraria da parte del Sa.;

– disposto – con separata ordinanza – la rimessione della causa sul ruolo al fine di accertare, a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio, l’entità dei danni derivati alla S. dalla privazione del godimento del fondo.

Passata in cosa giudicata tale pronunzia (a seguito della sentenza 11 maggio 2009, n. 10744 di questa Corte con cui sono stati rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale avverso la sentenza non definitiva 26 aprile 2007) il giudice di rinvio ha pronunziato la sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione con la quale i ricorrenti B. sono stati condannati al pagamento, in favore di S.A., della somma di Euro 35.279,27, oltre rivalutazione monetaria secondo indici Istat e interessi legali sulle somme annualmente rivalutate dal 31 dicembre 1973 al soddisfo.

Quei giudici sono pervenuti a una tale conclusione osservando:

nell’elaborato peritale il danno patito dalla S. per il mancato godimento del fondo è stato valutato, per un arco di 20 anni, in Euro 1.334.583,00, atteso che la stessa era priva di una organizzazione imprenditoriale agricola idonea a ridurre i costi di produzione, perciò considerando gli oneri derivanti dal ricorso alla manodopera di terzi;

– nella determinazione del danno deve aversi riguardo, quale parametro massimo di riferimento, al valore del fondo, determinato in Euro 1.127.382,49;

– al fine di determinare l’effettivo pregiudizio derivato alla parte adempiente occorre considerare come la S. non abbia dovuto corrispondere il relativo prezzo, pari a L. 115 milioni, da versarsi entro il 31 dicembre 1973 e come la stessa – per pacifica ammissione delle parti abbia già ricevuto dalla P., in conseguenza del recesso, non esercitato nelle forme dovute, un importo superiore alla caparra per complessive L. 5 milioni ovvero L. 15 milioni in luogo di L. 10 milioni ricevuti dalla promittente venditrice al momento della conclusione del contratto preliminare;

– pertanto nella quantificazione del danno va decurtato dal valore di bene assunto come misura massima del risarcimento dovuto in via equitativa per il pagamento godimento del fondo la somma di L. 120 milioni già sostanzialmente attribuita alla S. per effetto della mancata corresponsione del prezzo e dell’illegittimo esercizio del diritto di recesso effettuato dalla P.;

– ne consegue, ha concluso la propria indagine la sentenza impugnata, che devalutato secondo Indici Istat il danno per il mancato reddito ritraibile dallo sfruttamento del fondo alla stessa epoca in cui avrebbe dovuto essere conclusa la compravendita in modo tale da avere parametri di riferimento temporalmente omogenei, il nocumento subito dalla S. va determinato in Euro 35.279,27 (Euro 1.127.482,49 al giugno 2004 = Euro 97.254,10 al 31 dicembre 1973 – Euro 61.974,83) oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme annualmente rivalutate dal momento dell’inadempimento al soddisfo, trattandosi di debito di valore.

2. I ricorrenti censurano tale ultima pronunzia denunziando:

– violazione e falsa applicazione dell’art. 278 c.p.c., dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4 e dell’art. 2909 cod. civ. Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si osserva, in particolare, che la pronunzia sull’an, pur coperta da giudicato, non osta che in sede di liquidazione venga negato fondamento alla domanda risarcitoria, a seguito della constatazione che il danno non si sia in concreto verificato, mentre nella specie i giudici del merito hanno assunto l’esistenza di un giudicato sull’esistenza, in concreto, di un danno (primo motivo);

– violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226 violazione dei principi di diritto in materia di danno da inadempimento definitivo di contratto preliminare di compravendita. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione. Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (secondo e terzo motivo);

– omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione. Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (quarto motivo);

– violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 c.c., dell’art. 2056 c.c., comma 2 e dell’art. 2691 cod. civ. Violazione dei principi di diritto in materia di determinazione del danno risarcibile. Contraddittorietà e insufficienza della motivazione su fatti controversia e decisivi per il giudizio. Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 (quinto motivo);

– violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 1224 cod. civ. Violazione dei principi di diritto in materia di determinazione del danno risarcibile anche con riferimento al danno da svalutazione monetaria e al computo e alla decorrenza degli interessi.

Impugnazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (sesto motivo).

– violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. Impugnazione di sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, atteso che nel costituirsi in giudizio con la comparsa 6 giugno 2007 essi concludenti hanno eccepito e invocato a ogni effetto il beneficio di inventario con il quale avevano accettato l’eredità della madre P.A., indicando gli estremi dell’atto pubblico di riferimento, ribadendo tale eccezione in conclusione alla medesima comparsa (puntualmente riportata in ricorso), mentre i giudici a quibus nella pronuncia di condanna nei loro confronti non hanno limitato intra vires la loro obbligazione (settimo motivo).

3. Il ricorso è fondato, e meritevole di accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

3. 1. In primis si osserva che il settimo motivo è manifestamente fondato.

Infatti:

– è certo, oltre ogni ragionevole dubbio, che gli odierni ricorrenti B. avevano, nel corso del giudizio di merito – nel costituirsi in giudizio con la comparsa 6 giugno 2007 – eccepito il beneficio di inventario con il quale avevano accettato l’eredità con beneficio di inventario;

– i giudici a quibus, per contro, non hanno limitato intra vires la condanna pronunciata nei loro confronti, senza in alcun modo indicare le ragioni della loro conclusione così incorrendo nel vizio di omessa pronunzia (cui, pertanto, dovrà ovviare il giudice del rinvio).

3. 2. Con la sentenza non definitiva n. 146, del 2007, coperta da giudicato e il cui diretto esame – per l’effetto – è possibile da parte di questa Corte di legittimità, la Corte di appello di Potenza in punto danni ha statuito:

– il danno dalla stessa S. dedotto fin dall’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, è stato quello derivatole dalla privazione del godimento del fondo, nonchè dall’essere stata "costretta ad approntare con indebito smobilizzo il denaro destinato al pagamento del prezzo della vendita non portata a termine";

– di tale seconda voce di danno nessuna prova è stata offerta dalla S., nel mentre è da ritenere in re ipsa il danno derivatole dalla privazione del godimento del fondo;

– non potendo essere peraltro quest’ultimo parametro all’utile gestione dell’impresa agricola (e ciò in mancanza della previa dimostrazione dell’esistenza in capo all’appellante sia della capacità per l’esercizio professionale dell’attività di imprenditore agricolo, sia della titolarità di una azienda agricola, quest’ ultima non risolvendosi esclusivamente nella disponibilità di una superficie di terreno, ma richiedendo la disponibilità anche di ulteriori strumenti), la Corte ritiene necessario un ulteriore accertamento da parte del consulente tecnico d’ufficio.

Pacifico quanto precede è di palmare evidenza – come puntualmente eccepito dalla difesa dei ricorrenti, specie con il quinto motivo – che il danno per la privazione del godimento del fondo non poteva, giammai, parametrarsi – all’utile che la promittente acquirente avrebbe in ipotesi potuto trarre (nell’arco di venti e più anni) sfruttando direttamente il fondo gestendovi una impresa agricola.

E’ stato, infatti, espressamente escluso, nella sentenza non definitiva – sul punto coperta da giudicato rilevabile anche ex officio da questa Corte – che il danno in questione possa essere parametrato all’utile di gestione dell’impresa agricola eventualmente esercitatile (e ciò – sottolinea la sentenza non definitiva – in mancanza della previa dimostrazione dell’esistenza in capo all’appellante sia della capacità per l’esercizio professionale dell’attività di imprenditore agricolo, sia della titolarità di una azienda agricola).

Affermando, come ha affermato la sentenza definitiva, sulle base di quanto singolarmente opinato dal consulente tecnico d’ufficio, che il danno andasse liquidato tenendo presente gli utili derivanti dallo sfruttamento agrario del fondo, dedotti gli oneri derivanti dal ricorso alla manodopera di terzi, è palese che la sentenza definitiva si è posta in contrasto con la precedente non definitiva, avendo quest’ultima espressamente escluso (come già riferito sopra) che il danno potesse in qualche modo ragguagliarsi all’utile di gestione dell’impresa agricola eventualmente esercitatile sul fondo.

Non può dubitarsi – infatti – contrariamente a quanto del tutto apoditticamente e senza alcuna dimostrazione assume la sentenza impugnata – che costituisce esercizio di impresa agricola non solo quella svolta dal coltivatore diretto del fondo (cioè da colui che coltiva il fondo col lavoro proprio e della propria famiglia) ma anche quella svolta dall’imprenditore (agricolo) che si avvalga dell’attività lavorativa di terzi (siano essi salariati o, piuttosto, contoterzisti).

3.3. Precisato quanto sopra e ribadito – pertanto, come già, del resto, statuito dalla sentenza non definitiva della corte di appello di Potenza – che al fine della corretta quantificazione del danno spettante alla S. deve totalmente prescindersi da quello che sarebbe stato, nel corso di un ventennio, l’utile di impresa che un imprenditore agricolo avrebbe potuto trarre dallo sfruttamento agricolo del terreno, si osserva che questa Corte regolatrice è fermissima – a quel che risulti – nell’affermare che il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza, tra il valore commerciale del bene, da determinarsi con riferimento al momento della proposizione della domanda, ed il prezzo pattuito, anch’esso rivalutato alla stessa data: oltre al riconoscimento, sulla differenza così determinata degli effetti della svalutazione monetaria intervenuta nelle more del giudizio (in termini, ad esempio, Cass. 28 luglio 2010, n. 17688. Sempre nella stessa ottica, oltre Cass. 30 gennaio 2007, n. 1956).

In altri termini, ove il promittente venditore di un bene immobile, prima della stipula del definitivo, si spogli della proprietà del bene promesso in vendita attraverso un atto opponibile al promissario acquirente perchè trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, il promissario acquirente ha diritto non solo alla restituzione delle somme versate a titolo di acconto, ma anche al risarcimento del lucro cessante consistente nella differenza tra il prezzo d’acquisto pattuito al momento della stipula del preliminare ed il maggior valore commerciale acquisito dall’immobile al momento in cui l’inadempimento del promittente venditore è diventato definitivo (momento da identificarsi nella trascrizione dell’atto di vendita a terzi dell’immobile già promesso in vendita) (Cass. 10 ottobre 2008, n. 25016).

3.4. Sempre con riguardo al quantum del risarcimento, come puntualmente eccepito dai ricorrenti con il terzo motivo la sentenza impugnata è incorsa – ancora -in palese violazione di legge allorchè ha quantificato il danno procedendo, da un lato, all’accertamento del valore del terreno nell’anno 2004 e poi devalutando tale valore al momento in cui doveva essere stipulato il contratto definitivo.

Come assolutamente incontroverso, infatti, presso una consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, da cui totalmente e senza alcuna motivazione ancora una volta prescinde la sentenza impugnata, deve ribadirsi, ulteriormente, che gli immobili si rivalutano con un ritmo più elevato, o comunque diverso, rispetto a quello di svalutazione della moneta secondo gli indici calcolati dall’ISTAT. Il riferimento a tale indice – pertanto – è inidoneo per una rivalutazione (o, come si è verificato nella specie devalutazione) equa, certo essendo, da un lato, che il valore degli immobili non si rivalutata automaticamente al mutare del valore della moneta (in questo senso, ad esempio, Cass. 1 agosto 2006, n. 17487; Cass. 6 giugno 2007, n. 13242, tra le tantissime).

E’ di palmare evidenza che i giudici del merito, nell’accertare se, in concreto, la promittente acquirente avesse – o meno – subito un danno risarcibile a causa dell’inadempimento della promittente venditrice (e quale ne fosse la misura) facendo applicazione dei criteri indicati sopra avrebbero dovuto sollecitare il Consulente tecnico non perchè accertasse quale era il valore del fondo, oggetto del preliminare, a distanza di 31 anni dai fatti e, in particolare al momento in cui è stata espletata la consulenza, e poi devalutare tale valore, ma – unicamente – verificare quale era il valore di tale cespite alla data in cui è stato trascritto l’atto con cui la P. aveva trasferito il fondo, già promesso alla S., al terzo Sa.Gi..

4. All’accoglimento dei motivi indicati sopra (settimo, secondo, terzo, e quarto) segue, da un lato, la cassazione della sentenza impugnata, dall’altro l’assorbimento dei restanti motivi, da ultimo la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di Appello di Salerno perchè proceda a un nuovo esame della controversia, in applicazione del seguente principio di diritto: ove il promittente venditore di un bene immobile, prima della stipula del definitivo, si spogli della proprietà del bene promesso in vendita attraverso un atto opponibile al promissario acquirente perchè trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre, il promissario acquirente ha diritto non solo alla restituzione delle somme versate a titolo di acconto, ma anche al risarcimento del lucro cessante consistente nella differenza (soggetta a rivalutazione trattandosi di debito di valore) tra il prezzo d’acquisto pattuito al momento della stipula del preliminare ed il maggior valore commerciale acquisito dall’immobile al momento in cui l’inadempimento del promittente venditore è diventato definitivo (momento da identificarsi nella trascrizione dell’atto di vendita a terzi dell’immobile già promesso in vendita), valore da accertare mediante analisi diretta dei valori di mercato di quel determinato immobile all’epoca del trasferimen. Il giudice di rinvio provvederà, altresì, a pronunciare su tutte le domande e eccezioni sottoposte al suo esame e, quindi, anche quella relativa alla invocata responsabilità intra vires degli eredi di P.A. in quanto eredi accettanti con beneficio di inventario, nonchè sulle spese di lite di tutti i gradi del giudizio ivi comprese quelle di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Salerno, anche quanto alle spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della sezione terza civile della Corte di Cassazione, il 20 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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