Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 29-01-2013) 14-02-2013, n. 7374

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. N.M., per il tramite del suo difensore avvocato Andrea Vernazza, impugna la Sentenza con la quale la Corte di Appello di Genova, confermando la decisione resa in primo grado dal Tribunale di Savona in primo grado, lo ha condannato alla pena di giustizia perchè ritenuto colpevole del reato ascritto, ricondotto all’egida dell’art. 337 c.p.p..

2. Per quanto accertato in giudizio, con valutazione doppiamente conforme in entrambi i gradi, il N. ha minacciato gli agenti della Polizia municipale di Loano per opporsi agli stessi nel mentre compivano un atto del loro ufficio. Più precisamente, per quanto emerso dalle deposizioni testimoniali rese dagli agenti di polizia municipale presenti al momento del fatto (uno dei quali destinatario diretto della minaccia), il ricorrente, mentre era in corso la verbalizzazione di una infrazione al codice della strada poco prima rilevata a carico dello stesso, apostrofava l’agente V. V. che stava provvedendo alla verbalizzazione profferendo la frase "se mi fa la multa certificherò che lei è ubriaco in servizio".

3. Tre i motivi di ricorso posti a fondamento del gravame che occupa.

3.1. Con il primo la difesa, dopo aver premesso in fatto che la contravvenzione elevata atteneva all’uso del telefonino mentre si trovava a bordo della propria autovettura, fermo ed incolonnato in fila e precisato che tale utilizzo del telefono era motivato dalla necessità di dover rispondere ad una chiamata proveniente dall’ospedale presso il quale il ricorrente presta attività lavorativa in qualità di ginecologo, denunzia la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione su quattro diversi punti segnalati con l’appello. In particolare, la Corte distrettuale non avrebbe motivato in ordine al rilievo in forza al quale l’agente V., destinatario della asserita minaccia, è stato sentito quale teste e non come imputato in un procedimento connesso, ruolo allo stesso ascrivibile in forza della denunzia ai danni dello stesso presentata dal N., con tutte le conseguenze in punto alla valutazione delle relative dichiarazioni ex art. 192 c.p.p.. Ancora, la motivazione sarebbe carente in ordine alla rilevata inidoneità della minaccia profferita; in relazione alla formulata richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con la escussione della collega del N., dottoressa M., con la quale lo stesso colloquiava per ragioni di servizio all’atto della rilevata infrazione; in punto all’elemento soggettivo che nella specie andava riscontrato nei termini, imposta dal reato contestato, del dolo specifico.

3.2 Con il secondo motivo lamenta violazione di legge avuto riguardo alla erronea interpretazione del disposto di cui all’art. 393 bis c.p., laddove la Corte distrettuale finisce con l’affermare che la condotta dell’agente municipale sostanziatasi nel rifiuto di verbalizzare le ragioni giustificative della condotta esposte dal contravventore non costituiva atto arbitrario scriminante rispetto alla contestata condotta ex art. 337 c.p.p., costituendo siffatto contegno, piuttosto, un gratuito pregiudizio arrecato al contravventore direttamente incidente anche sulle possibilità di difendersi in via amministrativa.

3.3 Con il terzo motivo la difesa lamenta infine violazione di legge avuto riguardo all’art. 337 c.p.. Sul piano della condotta giacchè, lungi dal voler intimidire l’agente, la frase contestata rassegnava solo l’intenzione di voler agire giudizialmente a tutela del proprio diritto, iniziativa poi concretata; su piano soggettivo, giacchè il N. non intendeva ostacolare l’azione del pubblico ufficiale bensì esercitare una legittima autotutela pretendendo che venissero riportare in seno al verbale le giustificazioni addotte. Ritenuto in diritto.

4. Il ricorso è infondato e merita la reiezione per le ragioni precisate da qui a poco.

5. Non sussiste il lamentato difetto di motivazione segnalato con il primo motivo. Corrisponde al vero che la decisione impugnata non fa cenno espresso alle considerazioni mosse con l’appello in ordine alla assunzione quale teste dell’agente V. senza le formalità di cui all’art. 197 bis c.p.p., comma 2, oltre che sulla richiesta di rinnovazione dibattimentale legata alla escussione della collega del ricorrente, M.B.. Ciò malgrado non si tratta di omissioni che inficiano il portato complessivo della motivazione in contestazione laddove, come nella specie, le questioni pretermesse siano prive, già nella formulazione del gravame di secondo grado, dei necessari requisiti della specificità e della decisività dei rispettivi rilievi.

Giova evidenziare infatti come in entrambi i casi le contestazioni in oggetto, lungi dal costituire specifici motivi di appello, sono state rappresentate solo incidentalmente all’interno dei motivi (pagine 4 e 5 dell’appello); per quel che più interessa, sono state rassegnate all’attenzione del Giudice dell’appello senza alcuna specifica indicazione della incisività delle stesse rispetto alla decisione da assumere. Decisività che assume particolare rilievo se si considera che – quanto al primo punto (prescindendo del tutto dalla mancata allegazione di una formale denunzia resa ai danni del V. giacchè quella allegata all’appello, per come controllato da questa Corte in ragione dell’addotto error in procedendo, era una mera velina priva di formale attestazione del relativo deposito e dunque di data, così da non consentire di affermare che all’epoca della deposizione il teste era anche indagato per reato connesso, ciò peraltro in coerenza con la mancata segnalazione del dato in primo grado al momento della escussione), pur a voler espungere siffatta dichiarazione dagli atti utilizzabili per la decisione a mente del combinato disposto di cui all’art. 197, comma 3, art. 371, comma 2, lett. b, art. 61 e art. 64 c.p.p., comma 3 bis, perchè il V. venne escusso non quale teste assistito e senza l’avvertimento di cui all’art. 64 citato codice, comma 2 lett. c) (cfr Cassazione penale SS.UU nr 12067/09), in ogni caso l’assunto accusatorio trovava comunque fondamento sulla deposizione dell’altro agente presente ai fatti, conforme a quella del V., pacificamente richiamata a sostegno del decidere da entrambi i giudici del merito e sulla quale, neppure in questo grado di giudizio, nulla ha mai osservato la difesa;

– quanto al secondo punto, la richiesta di rinnovazione tramite la assunzione di una nuova prova rispetto a quelle acquisite in primo grado presuppone una specifica indicazione della assoluta rilevanza della prova nuova, tale da poter inficiare in radice la possibilità per il Giudice dell’appello di decidere allo stato degli atti, indicazione nella specie assolutamente pretermessa anche con il presente ricorso.

Le ulteriori doglianze ascritte con riferimento alla completezza della motivazione, cadute sulla affermata pretermissione degli elementi legati alla idoneità della minaccia ed alla presenza del dolo, sono contraddetti dal tenore della motivazione in contestazione che da adeguato, seppur sintetico, riscontro dei passaggi argomentativi seguiti per pervenire alla decisione adottata anche con riferimento ai tratti della condotta contestata sopra indicati. Nella specie, peraltro, la motivazione in esame va letta e valutata integrandone il portato alla luce della decisione di primo grado, trattandosi di doppia valutazione conforme; nè pare superfluo evidenziare che i rilievi in questione, genericamente addotti senza esplicitarne il contenuto in precedenza evidenziato in sede di appello, si concretano nelle medesime lagnanze poste a fondamento dell’ultimo motivo di ricorso laddove i profili assertivamente pretermessi trovano ragione di contestazione sotto il diverso versante della violazione di legge.

6. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso, legato al mancato riconoscimento da parte del Giudice di appello, della ipotizzata applicabilità alla specie dell’art. 393 bis c.p..

L’intero assunto difensivo (in forza al quale la condotta minacciosa riscontrata sarebbe stata reazione consequenziale all’arbitrario rifiuto da parte dell’agente V. di procedere alla verbalizzazione delle dichiarazione attestanti le ragioni specifiche addotte dal N. in ordine all’utilizzo del telefono posto a fondamento della rilevata infrazione) non ha trovato conforto alcuno nella istruttoria espletata, essendo rimasto indimostrato. Ne da conto, tanto sinteticamente quanto inequivocabilmente e radicalmente, la Corte distrettuale nel tratto iniziale della motivazione in contestazione (" le argomentazioni addotte in atto di gravame si rivelano mere e pure allegazioni difensive prive di qualsivolglia elemento di riscontro e supporto") senza che le ulteriori osservazioni rese in sentenza, volte comunque, malgrado siffatto vulnus assorbente in fatto, a valutare in diritto la correttezza delle prospettazioni difensive, siano tali da mutare il relativo quadro probatorio di riferimento: trattasi infatti di mere considerazioni ultronee che, a prescindere dalla coerenza logica e in diritto che le connota, non mutano i termini della questione in ordine alla mancanza di riscontri processuali in sè dell’elemento in fatto che le presuppone, id est l’arbitrarietà del contegno del pubblico ufficiale per la mancata integrale verbalizzazione delle dichiarazioni rese nell’occasione dall’imputato.

7. Altrettanto manifestamente infondato deve ritenersi l’ultimo motivo di ricorso. Evidenzia la difesa che la frase contestata non era connotata da un intrinseco contenuto minaccioso, preannunziando, esclusivamente, l’intento del N. di esperire una azione giudiziale legittima, in effetti poi posta in essere . Quanto all’elemento soggettivo mancherebbe il dolo specifico giacchè il ricorrente non voleva impedire all’agente di polizia municipale di svolgere il suo servizio bensì esercitare una legittima autotutela pretendendo che venissero riportate a verbale le giustificazioni addotte per la infrazione riscontrata.

Il fatto, cristallizzato in processo in termini conformi al tenore della contestazione, non lascia margini di incertezza sulla correttezza della decisione assunta dai giudici del merito. Va ribadito che nella specie non è mai stata in dubbio, neppure su impulso della difesa, la contemporaneità tra la condotta oppositiva e l’agire d’ufficio del pubblico ufficiale: diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore generale nel motivare le conclusioni formulate in udienza, siffatto dubbio non può trarsi dalla mera utilizzazione, dal parte del Giudice distrettuale, nel descrivere i fatti, del termine "rilevare" riferito all’infrazione ; termine che attiene alla constatazione della condotta e non al completamento dell’azione amministrativa che nella specie afferiva alla verbalizzazione nel corso della quale venne profferita la frase minacciosa.

Ciò precisato, è poi di tutta evidenza (tanto da giustificare la sinteticità sul punto della motivazione sottesa al provvedimento impugnato), che nella specie risultano integrati gli estremi tipici del reato contestato avuto riguardo sia ai tratti oggettivi della relativa condotta delittuosa sia all’elemento soggettivo che la deve connotare nell’ottica tipica del dolo specifico. Alla luce del tenore oggettivo della condotta contestata (concretatosi nella frase "se mi fa la multa certificherò che lè è ubriaco in servizio), trovano conferma gli elementi costitutivi della fattispecie in disamina: e così la idoneità offensiva della minaccia, volta a coartare psicologicamente il pubblico ufficiale nel compimento dell’atto d’ufficio, trova immediato riscontro nella natura della prospettata denunzia, qualificata sia in termini oggettivi (l’ingiusta affermazione di uno stato di ebrezza non corrispondente al vero riferito all’agente di polizia municipale) che in termini soggettivi (legati alla natura professionale del N., da questi immediatamente esplicitata una volte entrato in contatto con gli agenti della PM, di particolare rilievo nell’ottica della preannunziata attestazione); ed ancora il dolo, da identificare nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio in atto, siccome emergente con nettezza dalla correlazione della minaccia alla multa che stava per essere elevata.

Di qui la manifesta infondatezza anche dell’ultimo motivo di ricorso, articolato sul versante della erronea applicazione della norma sostanziale posta a fondamento della condanna. Alla reiezione del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2013

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