Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-07-2012, n. 13376

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Svolgimento del processo

L’avv. P.T. – proponendo opposizione ex art. 615 cod. proc. civ. al precetto notificatogli il 24.03.2004 dal Condominio (OMISSIS) (di seguito, brevemente, il Condominio) – deduceva che la sentenza del Tribunale di Monza n. 3524/2002 posta a fondamento dell’intimato precetto era da considerarsi inesistente ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 2, in quanto emessa sulla base della sentenza della Corte di appello di Milano n. 2269/1999 (pronunciata in altro giudizio tra le medesime parti, avente ad oggetto opposizione a decreto ingiuntivo di pagamento di prestazioni professionali), che era stata cassata da questa Corte con sentenza n. 632/2002.

Resisteva il Condominio opposto, che deduceva l’inoperatività nella specie dell’effetto espansivo della cassazione della sentenza resa in altro giudizio.

L’adito Tribunale di Milano rigettava l’opposizione con sentenza in data 01.03 2005, confermata dalla Corte di appello di Milano che, con sentenza in data 11.03.2008, rigettava l’appello del P., condannandolo al pagamento delle spese processuali.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’avv. P., svolgendo due motivi.

Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte intimata.

Motivi della decisione

1. Per la comprensione dei motivi di ricorso e delle ragioni della decisione è opportuno richiamare l’iter dell’altro giudizio intercorso tra le parti, avente ad oggetto opposizione a decreto ingiuntivo emesso per il pagamento di corrispettivi professionali ad istanza dell’avv. P. nei confronti del Condominio, quale risulta dalla sentenza qui impugnata. In particolare si deve evidenziare, quanto alla domanda riconvenzionale (che qui rileva) formulata dall’opposto – ingiungente per aggiornamento degli onorari di cui al decreto e per ulteriori corrispettivi: che in primo grado, con la sentenza del Tribunale di Milano del 25 luglio 1997 (di rigetto dell’opposizione), la domanda riconvenzionale venne accolta, con la condanna del Condominio al pagamento dell’ulteriore somma di L. 42.805.165; in secondo grado, con sentenza n. 2269 del 1999 della Corte di appello di Milano, la stessa domanda venne accolta per la minor somma di L. 5.020.195, rigettata per il resto; che, infine, in sede di legittimità, con sentenza n. 632/2003 questa Corte ebbe a cassare la sentenza della Corte di appello di Milano limitatamente al capo relativo, per l’appunto, all’accoglimento della domanda riconvenzionale, in considerazione della sua inammissibilità.

Ciò premesso, si osserva che la sentenza impugnata ha rigettato la tesi di parte opponente intesa a far valere l’effetto espansivo della sentenza di cassazione n. 632/2003, sulla base di una duplice ratio decidendi e, precisamente: sia in considerazione dell’inapplicabilità del disposto dell’art. 336 cod. proc. civ., comma 2 con riguardo a sentenza emessa in altro giudizio, qual è quella del Tribunale di Monza n. 3524/2002 posta a fondamento del precetto opposto, per essere la norma invocata riferibile alle sentenze pronunciate nello stesso procedimento che abbiano il loro necessario presupposto logico giuridico nella sentenza riformata o cassata; sia indipendentemente da ciò, perchè – avuto riguardo al contenuto della cit. sentenza del Tribunale di Monza e al tenore della sentenza n. 632/2003 di questa Corte – doveva escludersi che la prima fosse travolta dalla decisione di legittimità. Ciò in considerazione del fatto che la cassazione della sentenza della Corte di appello di Milano n. 2269/1999 aveva riguardato la sola statuizione di condanna del Condominio al pagamento delle prestazioni antecedenti al decreto richieste in via riconvenzionale, mentre la sentenza del Tribunale di Milano (di restituzione delle maggiori somme versate dal Condominio in forza della decisione di primo grado emessa nell’altro giudizio) si fondava sul capo della sentenza della Corte di appello di Milano n. 2269/1999 che non era stato travolto dalla sentenza di Cassazione (a nulla rilevando che la domanda di pagamento della somma di L. 37.144.268 fosse stata rigettata nel merito dalla Corte di appello e ritenuta inammissibile dalla Cassazione, perchè, comunque, allo stato, la stessa somma non era dovuta dal Condominio).

1.1. Avverso detta decisione il ricorrente svolge due motivi e segnatamente:

1.1.1. con il primo motivo violazione e falsa applicazione dei principi di diritto dei principi di diritto in tema di estensione degli effetti della riforma o della cassazione ai provvedimenti e agli atti dipendenti della sentenza (riformata o cassata) con riguardo all’art. 336 c.p.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., nn.3 e 4), articolando a tal riguardo il seguente quesito dica la S.C. se la norma di cui all’art. 336 c.p.c., comma 2 trovi applicazione esclusivamente nel rapporto tra sentenze definitive e sentenze non definitive o se la cassazione della sentenza (o dei capi di essa) estenda invece i suoi effetti a tutti i provvedimenti ed atti da essa dipendenti, senza esclusioni;

1.1.2. con il secondo motivo denuncia omessa pronuncia su circostanze dedotte dal ricorrente circa punti decisivi della controversia prospettati dallo stesso, in violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in violazione della norma di cui all’art. 112 cod. proc. civ., articolando a tal riguardo il seguente quesito di diritto dica se la Corte di appello di Milano potesse "disconoscere" una sua precedente pronuncia passata in giudicato e con quali effetti.

2. Il ricorso, avuto riguardo alla data della pronuncia della sentenza impugnata è soggetto alla disciplina di cui all’art. 360 cod. proc. civ. e segg. come risultanti per effetto del cit. D.Lgs. n. 40 del 2006. Si applica, in particolare, l’art. 366 bis cod. proc. civ., poichè la norma, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 resta applicabile, in virtù dell’art. 27, comma 2 del medesimo decreto, ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che possa rilevare la sua abrogazione, a far tempo dal 4 luglio 2009, ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) in virtù della disciplina transitoria dell’art. 58 di quest’ultima.

I criteri elaborati per la valutazione della rilevanza dei quesiti vanno, dunque, applicati anche dopo la formale abrogazione della norma, nonostante i motivi che l’avrebbero determinata, attesa l’univoca volontà del legislatore di assicurare ultra-attività alla medesima (per tutte, v. espressamente Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194). In particolare questa Corte ha ribadito anche di recente (sentenza 7 marzo 2012, n. 3530) che ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il quesito inerente ad una censura in diritto – dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compito dal giudice di merito e la regola applicabile.

Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così come illustrata nello svolgimento del motivo. In altri termini il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere (tanto che la carenza di uno solo di tali elementi comporta l’inammissibilità del ricorso: Cass. 30 settembre 2008, n. 24339) sia la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; sia la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; sia ancora la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

2.1. Ciò premesso, si osserva che i quesiti articolati da parte ricorrente non rispondono ai canoni sopra precisati, difettando entrambi del requisito essenziale della specifica, diretta ed autosufficiente formulazione di un interpello alla Corte di cassazione sull’errore di diritto asseritamente commesso dai giudici del merito e sulla corretta applicazione della norma quale proposta nella specie dalla ricorrente. Il ricorrente si limita a rivolgere un interpello a questa Corte, senza alcuna elaborazione personale, in termini incomprensibili ad una lettura autonoma dall’esposizione dei motivi (peraltro anch’essa svolta, senza la necessaria chiarezza) e, quanto al secondo quesito, anche privi di correlazione con la stessa natura della censura, intesa a far valere una presunta violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

2.2. Pur risultando assorbenti le considerazioni che precedono, è il caso di osservare che le censure di parte ricorrente – incentrate sull’asserito "effetto espansivo" ex art. 336 c.p.c., comma 2 in forza del quale la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2269/1999 avrebbe cessato di esistere – non impingono la seconda ratio decidendi, basata sul rilievo della parziale cassazione della sentenza in questione, limitata al solo capo della pronuncia di condanna al pagamento di L. 5.020.195 e sulla ulteriore considerazione dell’inesistenza, allo stato, di un titolo da opporre alla pretesa restitutoria; a tal fine non rilevando richiami a produzioni documentali che sarebbero state (inammissibilmente) effettuate con la conclusionale nel giudizio di appello. Tanto comporta un’ulteriore ragione di inammissibilità, dal momento che – secondo principio assolutamente pacifico presso la giurisprudenza di questa Corte regolatrice – ove una sentenza (o un capo di questa) si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronunzia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo stesso dell’impugnazione.

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di legittimità non avendo parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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