Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30-01-2013) 03-05-2013, n. 19228

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Svolgimento del processo

Con sentenza pronunciata il 11.3.2011 la corte di appello di Napoli confermava la sentenza con cui il Tribunale di Nola, in data 3.7.2009, aveva condannato, tra gli altri, C.F. e D.C.A., imputati il D. dei reati di cui all’art. 110 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7 (capi f;

h; i; j; k; p); artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capo I); artt. 110 e 56 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capo q); la C.F. del reato di cui all’art. 110 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capo p), alle pene ritenute di giustizia, mentre in relazione alla posizione di C.A., imputato dei reati di cui all’art. 110 c.p., art. 629, commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 91, art. 7, (capi f; h; i; j; k; o; p); artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, L. n. 497 del 1974, artt. 10, 12 e 14, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capi e ed l); artt. 110 e 56 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capi b; g; n; q); artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 2, L. n. 110 del 1975, art. 3, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capo d); artt. 110 e 81 c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 635 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7, (capo c), rideterminava la pena in suo favore nella misura di anni 15 di reclusione ed Euro 3600,00 di multa. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso i menzionati imputati, il C.A. personalmente, la C.F. ed il D. a mezzo del loro difensore di fiducia, articolando distinti motivi di impugnazione.

Iniziando dalla posizione del C., con il primo motivo il ricorrente eccepisce i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione alla L. n. 203 del 1991, art. 7, in quanto la corte territoriale, una volta intervenuta l’assoluzione dell’imputato dal reato associativo confermata in appello, avrebbe dovuto escludere la sussistenza della circostanza aggravante ad effetto speciale in relazione ai reati contestati nei capi b); f), h), i), j), k), l), n), p) e q), dell’imputazione conformemente a quanto dalla stessa corte deciso in ordine ai reati contestati nei capi c) ed e). Con il secondo motivo l’imputato lamenta i medesimi vizi in relazione alla non corretta applicazione in suo favore della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, in quanto la corte territoriale, riconoscendo il contributo collaborativo del ricorrente, non ha escluso il riconoscimento della suddetta circostanza attenuante, non tenendone, tuttavia, conto nella determinazione del trattamento sanzionatorio. Con riferimento alla posizione del D. il ricorrente eccepisce i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in quanto la corte territoriale, con riferimento alla complessa vicenda estorsiva in danno di A.F., caratterizzata da una reiterazione di condotte illecite, di cui ai capi f), h), i), j), k) dell’imputazione, non svolge alcuna autonoma valutazione in ordine all’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, limitandosi a fare rinvio alle valutazioni espresse sul punto dal tribunale di Nola, senza fornire adeguata risposta alle doglianze prospettate dalla difesa nei motivi di appello, in cui si evidenziava come il D. si fosse limitato a svolgere il ruolo di autista, accompagnando il C. presso l’abitazione dell’ A., attendendolo nell’autovettura; con particolare riferimento alla estorsione di cui al capo k), rileva il ricorrente che la corte territoriale omette di motivare sulle ragioni che consentono di attribuire al C.A. la pretesa estorsiva formulata all’ A. telefonicamente il 15.4.2006, giorno precedente alla Pasqua, nonchè sulla rilevanza del contributo fornito dal D., il quale si era limitato ad accompagnare in automobile, in due occasioni, la persona offesa dal C. e sulla richiesta derubricazione del reato di estorsione in quello di cui all’art. 640 c.p., senza tenere conto poi del fatto che altro soggetto imputato di concorso nel medesimo reato, S. A., al pari del D. non presente quando la persona offesa consegnò il denaro al C., è stato assolto. Allo stesso modo, in relazione all’estorsione in danno di An.Ni., lamenta l’imputato che la corte territoriale si limita a trascrivere il contenuto della sentenza di primo grado, senza fornire risposta alle doglianze difensive avanzate con i motivi di appello, in relazione alla stessa configurabilità dell’ipotesi estorsiva ed al contributo causale fornito dal ricorrente. Identiche doglianze vengono formulate anche in ordine alla estorsione in danno di B.S..

Con riferimento alla posizione della C.F., che avrebbe fatto da tramite tra il fratello C.A., detenuto, ed il marito D. e l’altro fratello C.I., incaricati di eseguirne gli ordini, in relazione alla sua partecipazione all’estorsione in danno del B. la corte di appello ha omesso di fornire risposta alle doglianze difensive che evidenziavano come non vi siano risultanze processuali che consentano di affermare la riconducibilità anche alla C. delle pretese richieste estorsive formulate al concessionario ovvero che la C. abbia dato seguito alla richiesta che le era stata fatta telefonicamente dal fratello C.A., di inviare il marito D. presso la concessionaria del B. affinchè gli riferisse che in ordine al pagamento del ciclomotore avrebbe dovuto vedersela con lui e che la richiesta del pagamento di un acconto lo aveva incattivito.

I ricorrenti lamentano, inoltre, i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), anche in relazione alla ritenuta circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, non avendo la corte territoriale precisato in che cosa consiste il metodo mafioso utilizzato nelle condotte estorsive, posto che in nessun caso è stata prospettata l’esistenza di un sodalizio camorristico e che la particolare qualifica soggettiva del C.A., che i giudici di merito indicavano come militante in passato della "Nuova camorra Organizzata" di C.R., con il ruolo di "capozona" di San Giuseppe Vesuviano, non si estende anche agli altri coimputati.

Infine i ricorrenti lamentano la mancanza ovvero la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche nella loro massima estensione ed al mancato riconoscimento della circostanza di cui all’art. 114 c.p., nonchè alla determinazione della pena effettuata senza indicare analiticamente gli elementi di cui all’art. 133 c.p..

Motivi della decisione

I ricorsi appaiono infondati e, pertanto, non possono essere accolti.

Infondato appare il primo motivo del ricorso proposto da C. A., in quanto l’intervenuta assoluzione dell’imputato dal reato ex art. 416 bis c.p., di cui al capo a) dell’imputazione, non può determinare l’automatica esclusione della circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dalla D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, convertito, con modificazioni, nella L. 12 luglio 1991, n. 203.

Come è noto, infatti, per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del "metodo mafioso", prevista dal citato D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 1, 4.11.2011, n. 5881, Giampà, rv. 251830; Cass., sez. 1, 13.4.2010, n. 16883, Stellato e altri, rv. 246753), come accaduto per i singoli episodi estorsivi indicati nei capi b); f), h), i), j), k), l), n), p) e q) per i quali il ricorrente ha riportato condanna, in relazione ai quali, come evidenziato dalla corte territoriale, che, sul punto, ha integralmente condiviso la motivazione dei giudici di primo grado, è configurabile l’utilizzazione del metodo mafioso da parte del C. e dei suoi correi.

Questi ultimi, infatti, sottolineano i giudici di merito, operavano secondo uno schema collaudato, secondo il quale la vittima veniva avvicinata dal C.A. (accompagnato dal cognato D. C.A.), che, rappresentando difficoltà economiche connesse alla lunga detenzione subita nella qualità di ergastolano e di ex affiliato alla "Nuova Camorra Organizzata" di C. R., formulava la pretesa estorsiva, vincendo le iniziali resistenze delle vittime prospettando, in vario modo, danni alle loro attività imprenditoriali ovvero richiamando il proprio passato criminale di affiliato ad una nota organizzazione criminale di stampo camorristico (cfr. pp. 27-30 dell’impugnata sentenza). Nè assume rilievo, in senso favorevole alla tesi difensiva, la circostanza che, in relazione ai reati di cui ai capi c) ed e) dell’imputazione, sia stata esclusa la sussistenza della circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, poichè, a differenza degli altri reati, in questo caso la contestazione non aveva ad oggetto entrambi i profili della suddetta circostanza aggravante, vale a dire l’utilizzo del metodo mafioso e la finalità di agevolazione mafiosa, ma solo quest’ultima, per cui, venuta meno la configurabilità del reato associativo di cui al capo a), non poteva sopravvivere nemmeno la circostanza aggravante ad effetto speciale come originariamente contestata. Manifestamente infondato è, poi, il secondo motivo di ricorso del C., che si fonda su di un evidente equivoco, in quanto la corte territoriale ha rigettato il motivo di appello riguardante il mancato riconoscimento in favore dell’imputato della circostanza attenuante di cui alla L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito, con modificazioni, nella L. 12 luglio 1991, n. 203, ritenendo, tuttavia, che il contributo collaborativo del ricorrente, pur non apparendo significativo rispetto alla prova dei fatti per cui si è proceduto, potesse comunque incidere, ai sensi dell’art. 133 c.p., nella determinazione del trattamento sanzionatorio, giustificando una riduzione della pena allo stesso inflitta con la sentenza di primo grado (cfr. p. 31 dell’impugnata sentenza).

In relazione alle doglianze relative alla posizione degli altri ricorrenti, vanno preliminarmente indicati i criteri ai quali questo Collegio intende conformarsi nella valutazione dei relativi ricorsi.

Da un lato, infatti, va rammentato che non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che, come nel caso in esame, indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice, consentendo così l’individuazione dell’iter logico- giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata.

Pertanto, anche il silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame non rileva qualora questa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata perchè non è necessario che il giudice confuti esplicitamente la specifica tesi difensiva disattesa, ma è sufficiente che evidenzi nella sentenza una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr.

Cass., sez. 2, 12/02/2009, n. 8619). Dall’altro che al giudice dell’impugnazione è consentito motivare "per relationem" rispetto al provvedimento gravato purchè, come fatto dalla corte territoriale nel riportarsi al contenuto della sentenza di primo grado, si attenga ai seguenti parametri: 1) ogni riferimento risulti da un atto legittimo del procedimento la cui motivazione sia congrua in rapporto al provvedimento finale; 2) il decidente risulti pienamente a conoscenza delle ragioni del provvedimento di riferimento, le condivida e le ritenga coerenti alla propria decisione; 3) risulti che l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato o almeno a lui estensibile (cfr. Cass., sez. 2, 17/02/2009, n. 11077).

Ciò posto, va innanzitutto rilevato come sia del tutto infondato il rilievo riguardante la mancata valutazione dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in relazione agli episodi estorsivi di cui ai capi f), h), i), j), k) dell’imputazione, commessi in danno dell’imprenditore tessile A.F.: tale valutazione, infatti, con specifico riferimento proprio alla posizione del ricorrente è stata effettuata dalla corte territoriale a pagina 20 della sentenza oggetto di ricorso, attraverso un richiamo al giudizio positivo già espresso sulla credibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa nella parte della motivazione dedicata alla posizione del principale imputato ( C.A., di cui, come si è detto, il D. è il cognato) in cui si affrontano i menzionati episodi estorsivi, evidenziandosi in tale sede come "le precise e reiterate dichiarazioni della vittima del reato", che si caratterizzano per coerenza e genuinità" e "per assenza di intenti calunniosi nei confronti degli imputati", siano riscontrate dalle dichiarazioni rese nel corso del giudizio dai figli dell’imprenditore, A. G. e A.L., nonchè negli esiti delle "numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, anche presso il carcere di Sulmona del 2.8.2006 tra l’imputato, il fratello C.F. e O.L. riportate nella motivazione della sentenza di primo grado alla pagina 100 e seguenti" (cfr. pp. 11-12 della sentenza impugnata).

Con riferimento, poi, al singolo episodio estorsivo di cui al capo k) dell’imputazione, verificatosi durante la (OMISSIS) dell’anno (OMISSIS), come riconosciuto dal difensore del D. (cfr. pp. 5-6 del ricorso), quest’ultimo omette di considerare che lo stesso C. A. ha ammesso di essere stato l’autore della richiesta estorsiva, avendo egli, in sede di spontanee dichiarazioni rese all’udienza dell’11.3.2011, confessato la propria responsabilità in ordine a tutti gli episodi estorsivi che gli sono stati contestati, con la sola eccezione di quelli commessi in danno dell’ A. F. nell’estate del (OMISSIS) e di An.Ni. (cfr. p. 6 dell’impugnata sentenza).

Acclarato, dunque, che anche la richiesta estorsiva descritta nel capo k) dell’imputazione proveniva dal C.A., il contributo causale fornito dal D., in questo come in tutti gli altri episodi per i quali è stato condannato, ivi compresi quelli che verranno esaminati nelle pagine successive, alla condotta criminosa del cognato è consistito sia nel fare da tramite tra il C. e la vittima dell’estorsione, sia nell’essere presente, in funzione di suo assiduo accompagnatore, nelle varie fasi attraverso cui si è perfezionato il rapporto estorsivo, sia facendosi direttamente latore delle richieste estorsive Ciò appare, indubbiamente, conforme ai principi in tema di concorso di persone nel reato, secondo cui anche la semplice presenza, purchè non meramente casuale, sul luogo della esecuzione del reato è sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa, quante volte sia servita a fornire all’autore del fatto stimolo all’azione o un maggiore senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa, il che si verifica quando, come nel caso di specie, la presenza dell’imputato si è dimostrata cruciale e ripetuta, e certo non casuale, proprio nei momenti di consumazione del delitto estorsivo (cfr. Cass., sez. 2, 08/10/2008, n. 40420, B. H., rv. 241871). Sulla diversa qualificazione giuridica prospettata al riguardo dal ricorrente, appare evidente come non possa configurarsi nel caso in esame il delitto meno grave di truffa.

Ed invero del tutto correttamente, la corte territoriale ha ritenuto di non potere condividere l’assunto difensivo sul punto (cfr. p. 28 dell’impugnata sentenza), in quanto la richiesta intimidatoria che ebbe come effetto la coartazione della volontà della persona offesa proveniva pur sempre dal C., per cui il suo porsi nei confronti dell’ A. come soggetto in grado di mediare con i gruppi criminali di matrice camorristica, apparentemente autori delle minacce, appare come una semplice modalità esecutiva, posta in essere per vincere più facilmente le resistenze della vittima, di una condotta in tutta evidenza estorsiva, essendosi concretizzata pur sempre in una richiesta intimidatoria formulata dall’imputato, che, peraltro, quest’ultimo proponeva alla vittima di fronteggiare avvalendosi della sua capacità criminale e, quindi, continuando ad esercitare sull’imprenditore una indebita pressione psicologica derivante proprio da tale capacità. Del tutto irrilevante è, poi, il riferimento alla diversa decisione assunta per il S., stante l’autonomia di ogni singola posizione processuale, per cui le vicende dell’una non si riverberano necessariamente sulle altre.

Come si è avuto modo di accennare, trattando la posizione del C., la corte territoriale ha evidenziato come lo stesso schema operativo impiegato per l’ A. si sia ripetuto anche in ordine agli episodi estorsivi in danno di An.Ni. (capo q) e di B.S. (capo p).

Sul primo episodio la corte di appello si diffonde ampiamente sia nella parte della motivazione specificamente dedicata al D., sia in quella riguardante il coimputato C.A., riportando integralmente il contenuto della motivazione della sentenza di primo grado, in cui l’impianto accusatorio trova fondamento nelle dichiarazioni di An.Ni., che, provenendo dalla persona offesa dal reato, per costante giurisprudenza di legittimità, possono essere assunte anche da sole come prova della responsabilità dell’imputato, purchè siano sottoposte a vaglio positivo circa la loro attendibilità e senza necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr. ex plurimis Cass., sez. 4, 1.2.2011, n. 19668, N.M. ed altri).

Tali dichiarazioni, ritenute dai giudici di merito, all’esito di specifica valutazione del narrato della suddetta persona offesa, intrinsecamente attendibili, nonchè in parte confermate dalla testimonianza del fratello An.Gi., hanno riguardato anche il D., oggetto di riconoscimento fotografico da parte dell’ An.Ni. nel corso della sua deposizione dibattimentale, quale latore della richiesta estorsiva: egli, infatti, "presentandosi a nome di C. e quindi rivendicando la sua vicinanza allo stesso, nonchè la sua posizione di soggetto che agiva con le medesime modalità e finalità del cognato, reiterava la richiesta di danaro già avanzata, ottenendo però il diniego del commerciante" (cfr. pp. 13-16; 21-23 dell’impugnata sentenza). Anche con riferimento all’episodio estorsivo in danno di B. S. (capo p), per il quale egli ha riportato condanna unitamente alla moglie C.F., la corte territoriale segue lo stesso percorso motivazionale utilizzato per gli altri episodi estorsivi, soffermandosi, con dovizia di argomentazioni immuni da vizi logici, sulle dichiarazioni della persona offesa e sugli esiti delle intercettazioni disposte all’interno dell’istituto penitenziario in cui il C. era ristretto, attraverso la trascrizione del contenuto della motivazione della sentenza di primo grado.

In questo caso, peraltro, il D. era direttamente interessato al perfezionarsi del rapporto illecito, in quanto l’oggetto della richiesta estorsiva erano due ciclomotori che il C.A. si faceva consegnare dal B., titolare di una rivendita di motoveicoli, per donarli uno alla nipote C.E., figlia del fratello C.I., l’altro al nipote D.C. G., figlio della sorella C.F. e del D. C.A., senza provvedere al pagamento del prezzo del motorino destinato proprio al figlio del D., "vincendo le resistenze della vittima" (che non voleva consegnare i ciclomotori prima di ricevere il pagamento integrale del prezzo) "attraverso minacce implicite, consistite nel proferire l’espressione "qui sento odore di bruciato" (lasciando intendere che avrebbe provveduto ad incendiare i locali del negozio qualora la vittima avesse opposto un rifiuto netto) e nel far presente alla reticente persona offesa, grazie all’intervento di D.C.A. e di C. I., "istruiti" per il tramite di Cu.Fr., la sua "indignazione" (evidentemente foriera di implicite temibili conseguenze, nel caso in cui non avesse provveduto a consegnare il motociclo), conseguendo un ingiusto profitto, costituito dalla differenza di prezzo del secondo ciclomotore, in pregiudizio dei rivenditore B.S.".

In questo contesto si inserisce a pieno titolo la posizione della C.F., ritenuta, sulla base dei risultati delle intercettazioni telefoniche, colei che aveva trasmesso al marito ed al fratello C.I. l’ordine del marito dal carcere di recarsi presso il B., per renderlo edotto dello "stato d’ira con cui egli avrebbe reagito nell’ipotesi in cui avesse insistito nella pretesa di farsi pagare il corrispettivo (cfr. pp. 23-27 dell’impugnata sentenza).

Ciò posto, qualsiasi lettura alternativa dei fatti così ricostruiti e valutati dai giudici di merito con decisioni omogenee (c.d. "doppia conforme") non può essere accolta, in quanto risulterebbe, come è noto, questione attinente al merito e, dunque, non consentita in sede di legittimità.

Va, inoltre, rilevato che la conclusione cui giunge la corte territoriale a proposito dell’episodio estorsivo di cui al capo p) dell’imputazione appare conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, da un lato in tema di estorsione, l’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire (cfr. Cass., sez. 2, 31/03/2008, n. 16658, C, rv. 239780), in questo caso facilmente individuabile nella pretesa del C. di farsi consegnare i ciclomotori, nonostante le proteste del B., prima di corrisponderne il prezzo, e nel mancato integrale pagamento del corrispettivo; dall’altro ai fini dell’integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita, contribuendo, come hanno fatto il D. e la C., con la propria opera alla pressione morale ed alla coazione psicologica nei confronti della vittima e quindi conferendo un apporto causativo all’evento (cfr. Cass., sez. 5, 7.6.2012, n. 40677, Petruolo, rv. 253714; Cass., sez. 2, 19.6.2008, n. 26837, Alfiero, rv. 240701).

La doglianza relativa alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante ad effetto speciale di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, appare del pari infondata, alla luce delle osservazioni già svolte esaminando la posizione del coimputato C.A., cui si rimanda.

Inammissibili, infine, perchè assolutamente generiche ed attinenti al merito sono le censure relative al trattamento sanzionatorio.

Peraltro non può non rilevarsi che, contrariamente a quanto affermato dal difensore, la corte territoriale, nel confermare le pene irrogate in primo grado al D. ed alla C., non si è limitato ad un generico riferimento all’art. 133 c.p., ma ha fondato il suo giudizio sulla gravità dei fatti, e sul ruolo di minore rilievo da essi svolto nelle vicende delittuose rispetto al coimputato C.A., condividendo, sul punto, la motivazione del tribunale (cfr. p. 31-32 della sentenza oggetto di ricorso).

Lo stesso dicasi per il mancato riconoscimento in favore della C. della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., che la corte di appello motiva adeguatamente, rilevando come proprio il ruolo di collegamento svolto dall’imputata tra il marito detenuto e gli altri imputati non consente di ritenere che la sua partecipazione al reato sia stata di minima importanza, non potendosi affermare la marginalità del suo contributo, decisivo, invece, per la consumazione dell’estorsione (cfr. pp. 26-27 dell’impugnata sentenza).

Sulla base delle svolte considerazioni i ricorsi proposti nell’interesse di C.A., D.C.A. e C.F. vanno, dunque, rigettati, con condanna di questi ultimi, singolarmente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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