Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-07-2012, n. 13742

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Svolgimento del processo

che R.R. ha proposto dinanzi alla Corte d’appello di Roma domanda di equa riparazione, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, per l’irragionevole durata di una causa di lavoro, svoltasi in primo grado dinanzi alla Pretura di Nola e, dopo la soppressione di questa, al Tribunale di Nola, e di una causa di ammissione al passivo del credito riconosciuto in sede di cognizione ordinaria, a seguito del fallimento della società datrice di lavoro;

che la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda e condannato il ricorrente al pagamento delle spese;

che, fissata in sette anni la durata ragionevole complessiva del processo presupposto (tre anni per il giudizio ordinario e quattro per il giudizio fallimentare), la Corte territoriale ha rilevato che questo aveva avuto una durata inferiore: il giudizio di lavoro, infatti, si era protratto dal 3 ottobre 1997 al 22 giugno 2000, e quindi soltanto per due anni ed otto mesi, da cui dovevano essere sottratti cinque mesi imputabili a negligenza della parte (cancellazione della causa dal ruolo per inattività delle parti e mancata produzione, dopo la riassunzione, del relativo atto di impulso); mentre il processo fallimentare era durato quattro anni ed un mese, dalla richiesta di ammissione al passivo, avvenuta il 6 febbraio 2003, sino alla sentenza, depositata in data 29 marzo 2007, che ha concluso il procedimento di opposizione allo stato passivo;

che per la cassazione del decreto della Corte d’appello R. R. ha proposto ricorso, sulla base di un motivo;

che l’intimato Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

che il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione semplificata;

che con l’unico motivo (violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 e segg. degli artt. 13, 32, 35 e 41 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, degli artt. 1224 e 2056 cod. civ., dell’art. 737 cod. proc. civ. e degli artt. 111 e 117 Cost.) ci si duole che la Corte di merito non abbia riconosciuto la sussistenza della violazione della ragionevole durata del processo presupposto e non abbia considerato che il danno non patrimoniale è in re ipsa, per cui non occorre una prova specifica da parte dell’istante;

che il motivo è infondato;

che non rileva che la Corte di merito abbia errato a ritenere che la causa di lavoro sia iniziata il 3 ottobre 1997 (quanto invece questa è la data di prima comparizione, essendo la controversia iniziata in realtà – come risulta dallo stesso decreto impugnato – con il deposito del ricorso il 16 maggio 1997): infatti, aggiungendo circa quattro mesi e mezzo al periodo di due anni e tre mesi, non si raggiungono i tre anni, considerati dal giudice come la soglia di fisiologica durata del giudizio di cognizione svoltosi in primo grado dinanzi al Pretore e al Tribunale di Nola;

che in relazione al procedimento fallimentare, dove l’istante ha presentato domanda di ammissione allo stato passivo e ha depositato ricorso in opposizione contro la propria mancata ammissione, il ricorrente si duole che la Corte di Roma abbia assunto come data di richiesta di ammissione il 6 maggio 2003, laddove questa sarebbe, pacificamente, la data di rigetto della domanda di ammissione "per inopponibilità del titolo", che era stata depositata dall’istante sul finire dell’anno 2000;

che tuttavia la doglianza non può trovare ingresso in questa sede, perchè il ricorrente prospetta – sotto il profilo del vizio di violazione e falsa applicazione di legge – un tipico vizio revocatorio, la dedotta erroneità della data di ammissione al passivo essendo frutto di una svista materiale, relativa a un fatto non controverso in causa e risultante dagli atti del processo;

– che le ulteriori prospettazioni del ricorrente, relative alla configurabilità del danno non patrimoniale come conseguenza normale dell’eccessiva durata del processo e alla necessità di liquidarlo secondo gli standard risultanti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, attengono ad aspetti che correttamente la Corte d’appello non ha esaminato, essendo stata esclusa, in radice, la lamentata violazione della ragionevole durata del processo;

che il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;

che le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal Ministro controricorrente, liquidate in Euro 495,00 per onorari, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 19 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

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