Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 30-01-2013) 03-05-2013, n. 19069

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 17 novembre 2010 il GUP del Tribunale di Mantova condannava A.T. alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 527 c.p. Contro la sentenza il difensore dell’imputato proponeva appello. La Corte d’appello di Brescia con ordinanza 26 marzo 2012 dichiarava inammissibile l’appello ex art. 591 c.p.p.. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il difensore dell’imputato, adducendo come motivi in primo luogo l’erronea applicazione dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), e in secondo luogo la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Motivi della decisione

2. Il ricorso è pienamente fondato.

I due motivi possono essere accorpati nel vaglio, dal momento che il secondo riguarda vizio motivazionale correlato alla violazione di legge denunciata con il primo.

La difesa dell’imputato aveva presentato un atto di appello contenente a sua volta due motivi. Il primo riguardava l’assoluzione dal reato, in relazione al difetto di intenzionalità della condotta che sarebbe stato derivante dal fatto che l’imputato, quando commise la condotta di cui all’art. 527 c.p., "era completamente ubriaco (andatura barcollante, parole sconnesse, ritrovamento di un contenitore di vino nella casetta giocattolo dove era ricoverato) e …accampato ai giardini pubblici". L’appello descrive con puntualità lo snodarsi della condotta dell’imputato ("dopo aver soddisfatto, nascosto dal tronco di un albero, un impellente bisogno corporale, si era avviato barcollando non riuscendo probabilmente a ricomporsi completamente di modo che gli organi genitali erano visibili"), giungendo a qualificare come fatto meccanico derivante dallo stato confusionale ed alle difficoltà motorie, ma non mosso al soddisfacimento di alcuna libido, ciò che gli è stato contestato come atto osceno, e pervenendo infine a prospettare semmai la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 726 c.p..

Va subito rilevato, allora, che l’ordinanza – la quale, appunto, ha ritenuto inammissibile il gravame per mancanza della specificità del motivo prescritta dall’art. 581 c.p.p., lett. c), – a proposito del primo motivo afferma che "l’appellante, in punto responsabilità, si è limitato a prospettare la non intenzionalità… senza peraltro precisare le circostanze di fatto su cui l’allegazione potrebbe fondarsi". Visto quanto si è appena riportato dal contenuto del motivo, risulta evidente che detto contenuto è stato travisato dalla corte territoriale, giacchè ictu oculi ne emerge che proprio le circostanze di fatto da cui secondo l’appellante deriverebbe una condotta non riconducibile all’art. 527 c.p. sono state chiaramente indicate, senza alcuna genericità nè alcuna ambiguità.

Prosegue poi l’ordinanza asserendo che il non soddisfacimento di libido non sarebbe pertinente alle motivazioni della sentenza, laddove questa identifica "il discrimen tra il delitto e la contravvenzione nell’essere o meno il gesto attinente alla sfera sessuale". Non è comprensibile un simile rilievo, dal momento che la libido attiene alla sfera sessuale, all’imputato è stato contestato il delitto e quindi il riferimento alla libido come assente è perfettamente pertinente nell’appello avverso una sentenza che riconosca tale delitto.

Il secondo motivo dell’appello riguardava la riduzione della pena, che sarebbe stata "eccessivamente gravosa… tenuto conto delle circostanze del fatto e della diminuente del rito".

Secondo l’ordinanza, il motivo è privo di specificità, esaurendosi "in un mero e soggettivo apprezzamento" senza indicazione di alcuna delle particolarità che, ex art. 133 c.p., possa giustificare la riduzione della pena. Se è vero, tuttavia, che il motivo è conciso, ciò non toglie che (a prescindere dal fatto che sovente le motivazioni delle sentenze in ordine al trattamento sanzionatorio sono parimenti concise) deve essere inteso senza formalismi e quindi con una logica contestualizzazione rispetto al contenuto complessivo dell’appello.

Immediatamente prima della proposizione di tale motivo, infatti, l’appellante aveva – come si è appena visto, specificamente – illustrato nel motivo precedente proprio le "circostanze del fatto" che nel secondo motivo sono invocate a fondamento della richiesta di diminuzione della pena. Ne emerge, quindi, che anche il secondo motivo non può qualificarsi inammissibile.

In conclusione, l’appello non risulta affetto da alcuno dei vizi di inammissibilità prospettati nell’ordinanza della corte territoriale;

e alla corte territoriale, pertanto, previo annullamento dell’ordinanza, deve effettuarsi rinvio perchè proceda al giudizio d’appello.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Brescia per il giudizio.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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