Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 30-01-2013) 10-04-2013, n. 16356

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con ordinanza del 04/09/2012, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano dispose la misura cautelare della custodia in carcere di C.C. indagato per il reato di partecipazione al sodalizio di tipo mafioso (‘ndrangheta di Seregno).

Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Milano, con ordinanza del 25/09/2012, la respinse.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato deducendo la carenza e illogicità della motivazione sulla qualificazione della ritenuta condotta associativa del C., l’omessa risposta del Tribunale alle doglianze della difesa (che riguardavano l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari) e, infine, l’erronea o inadeguata valutazione delle dichiarazioni accusatorie provenienti da imputato di reato connesso.

In particolare si evidenzia che il collaboratore di giustizia B.A. si limita a dire genericamente che l’indagato – tra l’altro detenuto dal 2003 fino al 13.02.2010 e che quindi non ha avuto mai contatti diretti o indiretti con il B. il cui avvento nella ‘ndrangheta è dell’anno 2006 – era partecipe dell’associazione senza specificarne il ruolo o descrivere idonee circostanze sintomatiche della ritenuta condotta partecipativa; e ciò, tra l’altro, lo avrebbe appreso dal fratello del ricorrente R.. Nè i nuovi collaboratori – P.M. e C. S. che nulla riferiscono in merito alla posizione dell’indagato – conoscono il ricorrente come persona o come soggetto inserito nell’associazione mafiosa nella quale i collaboratori asseriscono di fare parte. Infine, il difensore del C. sottolinea che a pag. 10 del fascicolo personale dell’indagato è riportata la dichiarazione (dell’anno 2000) di tale I.M. che definisce il ricorrente "uno forte, molto forte con la droga, ma non è conosciuto e lui non l’ha conosciuto a livello ‘ndranghetistico".

E’, quindi, evidente la carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.

Infine, il ricorrente sottolinea che nell’impugnato provvedimento non viene evidenziato alcun riscontro oggettivo che possa confermare quanto genericamente riferito dai collaboratori di giustizia.

Il difensore del C.C. conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata ordinanza.

Motivi della decisione

Si deve, preliminarmente, sottolineare la correttezza del ricorso alla motivazione per relationem operato dal Tribunale del riesame. E’ noto, infatti, che nel nostro ordinamento processuale la motivazione cd. "per relationem" è considerata legittima, purchè siano osservate (come è avvenuto nel caso di specie) determinate condizioni: a) faccia riferimento a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; b) fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la decisione; c) l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato, attraverso l’allegazione o la trascrizione nel provvedimento in questione, o quanto meno ostensibile nel momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di vantazione, di critica e di gravame, consentendo il controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (Sez. U, Sentenza n. 17 del 21/06/2000 Ud. – dep. 21/09/2000 – Rv. 216664; Sez. 4^, Sentenza n. 16886 del 20/01/2004 Ud. – dep. 09/04/2004 – Rv. 227942; Sez. 4^, Sentenza n. 38824 del 17/09/2008 Ud. – dep. 14/10/2008 – Rv. 241062).

Si deve aggiungere che il Tribunale del riesame non si è limitato, però, ad un semplice richiamo della motivazione del G.I.P., ma ha affrontato tutti i punti essenziali che sostengono il provvedimento restrittivo e ha, soprattutto, risposto a tutte le doglianze difensive.

Tanto premesso, si rileva che il ricorso è infondato e va pertanto rigettato. Infatti il Tribunale ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume i gravi indizi a carico dell’indagato per il reato di cui sopra. Ha, infatti, ben valutato gli elementi acquisiti e in particolare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia B. A. correttamente ritenute spontanee, credibili e utilizzabili facendo propria la condivisa motivazione sul punto del G.I.P. (si vedano: la pagina 3; le pagine da 4 a 6 e da 8 a 9 impugnata ordinanza). Il Tribunale ha così – richiamando, anche, la condivisa motivazione del G.I.P. e in linea con i principi giurisprudenziali affermati, sul punto, da questo Supremo Collegio (ad esempio: Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. – dep. 22/02/1993 – Rv. 192470;

Sez. U, Sentenza n. 36267 del 30/05/2006 CC. – dep. 31/10/2006 – Rv.

234598) – ben evidenziato come il collaboratore di cui sopra sia assolutamente attendibile sotto il profilo intrinseco e non pare animato da intenti calunniosi. Il Tribunale da tutto quanto sopra esposto ricava, correttamente, anche l’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni.

Infine, si deve rilevare che sia il Tribunale, sia il G.I.P., hanno – correttamente – valutato le dichiarazioni del chiamante in correità secondo il canone previsto dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, – richiamato dall’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, – e hanno specificamente indicato le emergenze investigative che corroborano le dichiarazioni di cui sopra (intercettazioni conversazioni;

accertamenti della P.G.). L’accurata analisi del materiale probatorio effettuata dal Tribunale non viene scalfita dalle generiche doglianze del ricorrente, che si fondono solo su mere congetture e su circostanze affermate apoditticamente. Emblematica, in tal senso, è la genericissima doglianza contenuta a pagina 2 del ricorso ove si afferma che il Tribunale non ha risposto alle doglianze relative alla sussistenza delle esigenze cautelari senza, poi, neppure evidenziare in seguito le eventuali lacune o omissioni (a dire il vero non vi è neppure uno specifico motivo di ricorso sul punto, a fronte di una condivisa, ampia, logica e non contraddittoria motivazione del Tribunale alle pagine 12 e 13).

Si deve sottolineare che il Tribunale a differenza di quanto sostenuto nel ricorso indica il ruolo del ricorrente nell’ambito dell’associazione (il C., in quanto fratello del "capo locale" C.R., gestisce i proventi del traffico di sostanza stupefacente; si veda pag. 9 dell’impugnato provvedimento e, poi, la pag. 10 nel commento dell’intercettazione della conversazione tra N. e Z.. Raccoglie danaro – intensificando le vendite di sostanze stupefacenti – per acquistare armi per l’associazione essendovi una faida in corso tra la famiglia C. e S., faida alla quale il ricorrente partecipa attivamente; si vedano le pagine 9 e 10 dell’impugnata ordinanza). Si deve, comunque, ricordare in proposito che per i reati associativi, il "thema decidendum" riguarda la condotta di partecipazione o direzione, con stabile e volontaria compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio: ne consegue che le dichiarazioni dei collaboratori o l’elemento di riscontro individualizzante non devono necessariamente riguardare singole attività attribuite all’accusato, giacchè il "fatto" da dimostrare non è il singolo comportamento dell’associato bensì la sua appartenenza al sodalizio (Sez. 2^, Sentenza n. 23687 del 03/05/2012 Ud. – dep. 14/06/2012 – Rv. 253221).

Per quanto riguarda la generica doglianza relativa al fatto che il B. avrebbe appreso dal C.R. (fratello dell’odierno indagato) della partecipazione al sodalizio del ricorrente e quindi si tratterebbe di una dichiarazione de relato, si deve innanzi tutto rilevare che dall’ordinanza risulta che il B. aveva una conoscenza diretta dell’appartenenza all’associazione del C.C., appartenenza confermata, tra l’altro, dagli altri elementi ben specificati nelle pagine da 9 a 11 dell’impugnato provvedimento. Si deve, in ogni caso, sottolineare che sono, comunque, direttamente utilizzabili le dichiarazioni rese da collaboratore di giustizia su circostanze apprese in relazione al ruolo di vertice del sodalizio criminoso di appartenenza e derivanti da patrimonio conoscitivo costituito da un flusso circolare di informazioni relative a fatti di interesse comune degli associati, in quanto non assimilabili nè a dichiarazioni "de relato", utilizzabili solo attraverso la particolare procedura di cui all’art. 195 c.p.p., nè alle cosiddette "voci correnti nel pubblico" delle quali la legge prevede l’inutilizzabilità (Sez. 5^, Sentenza n. 4977 del 08/10/2009 Ud. – dep. 08/02/2010 – Rv. 245579).

Il Tribunale spiega in modo incensurabile perchè i due collaboratori P. e Ca. non hanno fornito notizie sul ricorrente (si veda la pagina 11 dell’impugnato provvedimento); risposta che non viene presa in considerazione dal ricorrente.

Per quanto riguarda, poi, il generico richiamo alle dichiarazioni di tale I.M. (dichiarazione, tra l’altro, datata perchè del 2000 e nella quale, comunque, si conferma un ruolo molto importante del ricorrente nel traffico illecito di droga, cosi come attestato anche nelle dichiarazioni di B.) si deve rilevare che dalla lettura dell’ordinanza del Tribunale non risulta che tale argomento sia stato oggetto di impugnazione ed è, quindi, evidente che non può proporsi per la prima volta avanti a questo Giudice di legittimità (la doglianza è, tra l’altro, in contrasto con il principio della necessaria autosufficienza del ricorso più volte affermato da questa Suprema Corte perchè si richiama genericamente un fascicolo personale dell’indagato ove a pagina 10 si può leggere la dichiarazione di cui sopra; Sez. 6^, Sentenza n. 45036 del 02/12/2010 Ud. – dep. 22/12/2010 – Rv. 249035).

Infine, il Tribunale, come già rilevato, fornisce una congrua, logica e non contraddittoria motivazione sui riscontri (si vedano, in particolare, le pagine da 9 a 11) contrastati dal ricorrente solo con una diversa e apodittica interpretazione dei fatti e delle intercettazioni. E’ il caso di ricordare, in proposito, che nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4^, sent. n. 47891 del 28.09.2004, dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^ sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

A fronte di tutto quanto sopra esposto, come si è già detto, il ricorrente contrappone, quindi, solo generiche contestazioni in fatto.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento. Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda a norma dell’art. 94 disp. att. c.p.p..

Cosi deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2013
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *