Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 30-01-2013) 10-04-2013, n. 16354

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con ordinanza del 04/09/2012, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano dispose la misura cautelare della custodia in carcere di S.A. indagato per il reato di estorsione aggravata perchè commessa con armi, da più persone appartenenti a sodalizio di tipo mafioso e avvalendosi della forza intimidatoria propria dell’organizzazione.

Avverso tale provvedimento l’indagato propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Milano, con ordinanza del 25/09/2012, la respinse.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagato deducendo la carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione per quanto concerne la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori, utilizzate come fonte indiziaria esclusiva a carico del ricorrente (vizio di violazione di legge con riferimento all’art. 192 c.p.p., comma 3). In particolare per quanto riguarda il collaboratore B.A. sulla valutazione della credibilità evidenzia: 1) il Tribunale nell’affrontare il tema della personalità del B. lo definisce "soggetto pressochè incensurato" a fronte di una persona divenuta "capo locale in pochi anni di appartenenza alla ‘ndrangheta" e gravato di una condanna a 7 anni di reclusione; 2) il Tribunale riferisce, poi, che dalle dichiarazioni del B. non emergerebbero motivi di astio nei confronti dello S., che invece sono molteplici quali ad esempio: B. accusa lo S. di aver effettuato un’estorsione senza suddividere i profitti; da alcuni documenti sequestrati a casa dello S. emerge che il B. faceva parte di una società unitamente ad un certo L.. Secondo il ricorrente lo stesso B. a seguito della morte di C.R. (del quale il B. sarebbe stato il prestanome nella suddetta società) avrebbe dovuto restituire alla cognata dello S. le quote della società o la titolarità degli appartamenti costruiti dalla società di cui sopra.

Secondo il ricorrente tale fatto ha scatenato il rancore del B. nei confronti dello S. (tale circostanza non è stata per nulla presa in considerazione dal Tribunale). Ulteriore prova del rancore del B. nei confronti dello S. si ricava dal fatto che il primo ha accusato il ricorrente di essere il mandante dell’omicidio del C.; dichiarazioni queste coeve a quelle che riguardano l’estorsione dell’odierno procedimento e che sono state ritenute inattendibili sia dal Tribunale del riesame che ha annullato la misura custodiale per l’omicidio C. e dalla Cassazione che ha confermato il predetto annullamento; 3) vi sono, poi, contrasti sul profitto dell’estorsione: il B. parla infatti di un’estorsione da Euro 400.000,00 in danno della Selagip salvo poi a fare conti per la spartizione per un totale di Euro 350.000,00. L’altro collaboratore – Ca.Sa. – parla invece di un’estorsione di Euro 500.000,00. Evidenzia, infine, che le P.O. di questa estorsione affermano di aver ricevuto minacce solo da ignoti e di non aver mai versato danaro allo S..

Per quanto riguarda la ritenuta "circolarltà della prova" – che è stata ravvisata per il fatto che le dichiarazioni dell’altro collaboratore, Ca.Sa., "vanno nella stessa direzione" di quelle del B. – evidenzia che il Ca. è stato detenuto nella stessa cella di tal G. anch’egli accusato dal B..

Ebbene, il G. riceveva in carcere non solo l’ordinanza custodiale, ma anche gli atti relativi a tale procedimento fornitigli dal suo difensore. Lo stesso Ca. riferisce che il G. "passava intere ore a leggere e a commentare le dichiarazioni del B." e tra queste vi erano anche quelle relative all’estorsione della quale è accusato l’odierno ricorrente (si veda pag. 6 del ricorso). Quindi secondo il difensore dello S. la collaborazione del Ca. non è nè autonoma nè genuina e quindi non può "costituire autonomo elemento di prova e riscontro alle dichiarazioni del signore B.". Anche su questa circostanza il difensore dello S. evidenzia l’assoluto silenzio del Tribunale.

Il difensore di S. conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata ordinanza.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4^, sent. n. 47891 del 28.09.2004, dep. 10.12.2004, rv 230568; Cass. Sez. 5^ sent. n. 1004 del 30.11.1999, dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2^ sent.

n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre, il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c), in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perchè le doglianze (sono le stesse affrontate dal Tribunale) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Tribunale – richiamando anche l’ordinanza del G.I.P. – ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume i gravi indizi a carico dell’indagato per il reato aggravato di cui sopra. Ha infatti ben valutato gli elementi acquisiti e in particolare le dichiarazioni convergenti dei collaboratori di giustizia correttamente ritenute spontanee, credibili e utilizzabili facendo propria la condivisa motivazione sul punto del G.I.P. (si vedano le pagine da 5 a 7, da 9 a 10 impugnata ordinanza per quanto riguarda B.A., e da 15 a 17 per quanto riguarda Ca.Sa.). Il Tribunale ha così – richiamando, anche, la condivisa motivazione del G.I.P. e in linea con i principi giurisprudenziali affermati, sul punto, da questo Supremo Collegio (ad esempio: Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. – dep. 22/02/1993 – Rv. 192470; Sez. U, Sentenza n. 36267 del 30/05/2006 Cc. – dep. 31/10/2006 – Rv. 234598) – ben evidenziato come i collaboratori di cui sopra siano assolutamente attendibili sotto il profilo intrinseco e nessuno di essi pare animato da intenti calunniosi. Il Tribunale ha, poi, rilevato – in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte citata (Sez. 6^, Sentenza n. 7627 del 31/01/1996 Ud. – dep. 30/07/1996 – Rv. 206588) – l’importante valenza dimostrativa delle chiamate di correo convergenti. Il Tribunale da tutto quanto sopra esposto ricava, correttamente, anche l’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni.

Si deve rilevare in proposito che le dichiarazioni accusatone rese da imputati dello stesso reato ovvero di reato connesso o interprobatoriamente collegato, per costituire prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che siano dotate ciascuna di intrinseca attendibilità, soggettiva ed oggettiva, e (in assenza di specifici elementi atti a far ragionevolmente sospettare accordi fraudolenti o reciproche suggestioni), risultino concordanti sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto (si veda, tra le tante, ad es.: Sez. 1^, Sentenza n. 1263 del 20/10/2006 Ud. – dep. 18/01/2007 – Rv. 235800).

Infine, si deve rilevare che sia il Tribunale, sia il G.I.P., hanno – correttamente – valutato le dichiarazioni dei chiamanti in correità secondo il canone previsto dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, – richiamato dall’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, – e hanno specificamente indicato le emergenze investigative che corroborano, ulteriormente, le dichiarazioni di cui sopra (intercettazioni conversazioni e accertamenti P.G.; si vedano comunque le pagine da 10 a 15 dell’impugnata ordinanza e da 15 a 18).

L’accurata analisi del materiale probatorio effettuata dal Tribunale non viene scalfita dalle generiche doglianze del ricorrente, che si fondono solo su mere congetture e su circostanze affermate apoditticamente. Emblematica, a tal proposito, la circostanza riferita dallo S. della codetenzione del C. con G.; questi essendo stato anch’egli accusato dal B. aveva ricevuto in carcere non solo l’ordinanza custodiale, ma anche gli atti relativi a tale procedimento fornitigli dal suo difensore e da ciò il C. avrebbe potuto apprendere il contenuto delle dichiarazioni del B.. In proposito – oltre a quanto sopra rilevato – si deve sottolineare che il ricorrente non tiene conto che il Tribunale ha ben evidenziato – ad esempio a pag. 16 – che il Ca. fornisce particolari che B. non poteva conoscere perchè non era intraneo al gruppo S.. E per quanto riguarda il B. si deve rilevare: per quanto riguarda la doglianza sub n. 1 (di cui sopra) il Tribunale evidenzia tutti gli elementi relativi al propalante (ivi compresa la condanna a 7 anni di reclusione; si veda pag. 5 dell’ordinanza) che non sono affatto in contrasto con quanto evidenziato nel ricorso. Per quanto riguarda la doglianza sub n. 2 (di cui sopra), tutta la parte relativa al presunto astio e rancore del B. nei confronti dello S. si fonda anch’essa su mere congetture, o su circostanze affermate apoditticamente o sul semplice racconto di come si sono svolti i fatti. Sul punto il ricorrente non considera, inoltre, quanto evidenziato dal Tribunale in ordine ai motivi che hanno condotto il B. a collaborare con la giustizia, motivi che lo hanno portato a coinvolgere anche parenti stretti (si veda, ad esempio, la pagina 6 dell’impugnato provvedimento). Per quanto riguarda, infine, l’annullamento della misura custodiate emessa per l’omicidio C. si deve rilevare che il Tribunale evidenzia che l’annullamento – deciso sempre dal Tribunale di Milano – non è stato disposto per rilevanti contrasti tra quanto narrato e quanto accertato in atti, ma semplicemente perchè per alcune posizioni processuali i riscontri non potevano ritenersi individualizzanti (si veda pag. 10 dell’ordinanza). Per quanto riguarda la doglianza sub n. 3 (di cui sopra) si deve rilevare che non vi è alcun contrasto tra la cifra di Euro 400.000,00 indicata quale ricavato dall’estorsione e i conti per la spartizione indicati dal B. (si vedano, sul punto, le pagine 11 e 13 impugnata ordinanza: Euro 175.000,00 inviati in (OMISSIS); Euro 175.000,00 trattenuti dall’imputato e Euro 50.000,00 divisi tra F. "(OMISSIS)" e S. – S.). Per quanto riguarda la diversa cifra di Euro 500.000,00 indicata dal Ca. come ricavo dall’estorsione, il Tribunale correttamente la definisce una divergenza marginale (si veda pagina 16 dell’impugnata ordinanza e la già richiamata giurisprudenza sul punto: Sez. 1^, Sentenza n. 1263 del 20/10/2006 Ud. – dep. 18/01/2007 – Rv. 235800).

Infine, di nessun rilevo è la generica osservazione che le P.O. avrebbero affermano di aver ricevuto minacce solo da ignoti e di non aver mai versato danaro allo S.; invero quanto sopra trova piena giustificazione nella ricostruzione dell’intera vicenda operata dal Tribunale e dal fatto che le P.O. erano imprenditori di origine calabrese che, come riferisce il B., erano quindi "in grado di comprendere la serietà della minaccia e maggiormente inclini per mentalità a sottostare alle richieste estorsive senza coinvolgere le forze dell’ordine" (si veda pagina 14 impugnata ordinanza).

A fronte di tutto quanto sopra esposto, come si è già detto, il ricorrente contrappone, quindi, solo generiche contestazioni. In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità (Si veda fra le tante: Sez. 1^, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di mille Euro, cosi equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Inoltre, poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter, – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di mille Euro alla cassa delle ammende.

Si provveda a norma dell’art. 94 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 aprile 2013

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