Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-07-2012, n. 13713

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Svolgimento del processo
La C. di C. C. s.n.c., promissaria acquirente di un immobile ad uso artigianale e industriale sito in (OMISSIS), giusta contratto preliminare del 29.5.1989, agiva innanzi al Tribunale di Pisa nei confronti della S. s.r.l., promittente venditrice, domandando l’emissione di una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. e il risarcimento del danno, inclusa una penale di lire 130.000.000 prevista per il caso di inadempimento della promittente venditrice.
La società convenuta nel resistere in giudizio deduceva che la penale, concordata per il caso di inadempimento di una delle parti, escludeva la possibilità di domandare l’adempimento in forma specifica. Pertanto, chiedeva che, dichiarata la risoluzione del contratto, la società attrice fosse condannata a corrispondere alla S. gli interessi legali sull’importo di lire 245.000.000, dall’1.1.1990 fino alla data di rilascio dell’immobile, di cui la società attrice aveva goduto nel frattempo.
Il Tribunale accoglieva la domanda ex art. 2932 c.c., previo pagamento della somma di lire 68.247.705, condannando, inoltre, la S. al pagamento della penale di lire 130.000.000.
Sull’impugnazione della S., la Corte d’appello di Firenze, con sentenza 1.3.2005 (modificato – con il consenso della stessa parte appellata – il capo di trasferimento della proprietà alla sola porzione negoziata del maggior immobile descritto nel contratto preliminare), condizionava il trasferimento alla corresponsione della somma di Euro 110.419,55, con interessi legali dal 31.12.1989.
Rigettava ogni altra domanda e compensava per un terzo le spese, ponendo la restante frazione a carico della S.. Premesso che ai sensi dell’art. 1383 c.c. il creditore non può domandare insieme la prestazione principale e la penale, se quest’ultima non è stata stipulata per il semplice ritardo, la Corte fiorentina osservava che nella specie non fosse dovuta la penale a carico della parte venditrice, in quanto pattuita non per il ritardo, ma per l’inadempimento definitivo. Limitava il risarcimento del danno, non precluso dalla domanda di esecuzione del contratto, al differenziale tra la spesa sostenuta dalla C. per la regolarizzazione amministrativa del fondo oggetto del contratto preliminare e quella, inferiore, cui la stessa società promissaria sia era obbligata a concorrere. Rigettava, invece, per difetto di prova nel quantum e non sussistenza dei requisiti per la liquidazione equitativa del danno, la domanda di risarcimento proposta dalla C. per l’impossibilità di iscrizione nell’albo delle imprese artigiane (e per la conseguente erogazione di maggiori oneri contributivi e mancata percezione di finanziamenti e mutui agevolati). Infine, riteneva parzialmente fondato il motivo d’appello concernente gli interessi compensativi sul prezzo residuo, nel senso che essi erano dovuti quale equivalente del godimento del bene a decorrere dalla data contrattualmente prevista per la stipula del contratto definitivo.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la S. s.r.l., formulando tre motivi d’impugnazione.
Resiste con controricorso la C. di C. C. s.n.c., la quale propone altresì ricorso incidentale affidato a tre motivi.
(Nelle more, la società controricorrente è stata incorporata nella C. G., di C. C. & C. s.n.c.).
Motivi della decisione
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
1. – Con il primo motivo del ricorso principale la S. s.r.l. deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto (recte punto, trattandosi di sentenza d’appello ante D.Lgs. n. 40 del 2006) controverso e decisivo, in quanto la sentenza impugnata non ha esaminato l’eccezione, che l’odierna ricorrente ha sollevato fin dalla costituzione in giudizio, secondo la quale somma di lire 130.000.000 era stata prevista non a titolo di penale, ma come multa penitenziale, diretta ad attribuire alla S. il diritto di recesso verso il pagamento d’un corrispettivo. Pertanto, la promissaria acquirente, in caso di rifiuto della promittente venditrice a stipulare il definitivo, avrebbe potuto esigere il pagamento della predetta somma, ma non agire per l’esecuzione in forma specifica.
Tale questione non è stata presa in esame dalla Corte fiorentina, con conseguente vizio della sentenza.
1.1. – Il motivo è inammissibile sia per difetto di specificità – non essendo chiarito se e in qual modo la questione sia stata mantenuta ferma anche in appello mediante apposito motivo di gravame -, sia perchè il fatto controverso dedotto alla base della censura è privo del connotato di decisività, che la multa penitenziale assolve la funzione non già di escludere l’esecuzione in forma specifica del contratto, ma di consentire alla parte a favore della quale è prevista l’esercizio della facoltà di recesso dietro pagamento di una data somma (art. 1373 c.c., comma 3; con il che la multa penitenziale si differenzia anche dalla caparra penitenziale, di cui all’art. 1386 c.c., che si configura allorchè il versamento avviene anticipatamente, all’atto della stipula del contratto).
2. – Con il secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 339 e 345 c.p.c., in quanto la sentenza d’appello ha inciso su capi non impugnati della pronuncia di primo grado, lì dove ha soppresso, senza che nessuna parte lo avesse richiesto, il termine di pagamento del prezzo d’acquisto, che il Tribunale aveva fissato in dieci giorni dalla comunicazione della sentenza o comunque anteriormente alla trascrizione di essa.
2.1. – Il motivo è manifestamente inammissibile per difetto di interesse, ove solo si consideri che, fermo nella sentenza d’appello il condizionamento della pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c. al pagamento del prezzo, come stabilito dalla sentenza di primo grado, non v’è spazio logico-giuridico per l’apposizione di un termine di adempimento, la cui eliminazione in ogni caso non potrebbe risolversi a danno della parte odierna ricorrente, ma semmai della C., in virtù del principio per cui quod sine die debetur, statim debetur.
3. – Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 96 c.p.c. e l’omessa motivazione. Se può avere "un certo fondamento logico" sostiene parte ricorrente – la condanna della S. al parziale pagamento delle spese del primo grado, l’analoga statuizione relativamente alle spese del giudizio d’appello è non solo priva di motivazione, ma anche in contrasto con il disposto dell’art. 96 c.p.c..
3.1. – Il motivo è manifestamente infondato.
3.1.1. – Riformata anche solo in parte la sentenza di primo grado, il regolamento delle spese di lite non è frazionabile per gradi.
Secondo la ferma giurisprudenza di questa Corte, il potere del giudice d’appello di procedere d’ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronunzia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all’esito complessivo della lite mentre, in caso di conferma della sentenza impugnata, la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della sentenza abbia costituito oggetto di specifico motivo d’impugnazione. Invero, la soccombenza, ai fini della liquidazione delle spese, deve essere stabilita in base ad un criterio unitario e globale S.chè viola il principio di cui all’art. 91 cod. proc. civ. il giudice di merito che ritenga la parte come soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado. Peraltro, il criterio di individuazione della soccombenza deve essere unitario e globale anche qualora il giudice ritenga di giungere alla compensazione parziale delle spese di lite per reciproca parziale soccombenza, condannando poi per il residuo una delle due parti; in tal caso, l’unitarietà e la globalità del suddetto criterio comporta che, in relazione all’esito finale della lite, il giudice deve individuare quale sia la parte parzialmente soccombente e quella, per converso, parzialmente vincitrice, in favore della quale deve essere liquidata quella parte delle spese processuali che sia residuata all’esito della disposta compensazione parziale (Cass. nn. 15483/08,4052/09 e 17523/11).
3.1.2. – Infine, non è dato di comprendere il senso della denunciata violazione dell’art. 96 c.p.c., visto che la responsabilità aggravata presuppone la soccombenza, che nella fattispecie, e nel contesto della doverosa valutazione globale e unitaria delle spese, così come esattamente operata dalla Corte territoriale, è stata ritenuta prevalente a carico della S., escludendo così in radice anche l’astratta applicabilità dell’art. 96 c.p.c. ai danni della società C.. Inoltre, nè dalla sentenza d’appello, nè dal ricorso risulta se la S. avesse proposto la relativa domanda.
4. – Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione o falsa applicazione "di norma di diritto anche in riferimento all’art. 345 c.p.c", in quanto la Corte d’appello ha riconosciuto alla S. gli interessi compensativi sul prezzo residuo nonostante la relativa domanda fosse stata proposta per la prima volta nel giudizio d’appello, e quindi in violazione della norma anzi detta, nel testo previgente alla novella di cui alla L. n. 353 del 1990.
4.1. – La censura è fondata.
In passato questa Corte Suprema ha avuto occasione di affermare (v.
sentenza n. 5930/78) che in tema di contratto di vendita gli interessi compensativi, previsti dall’art. 1499 c.c., avendo la funzione di compensare il venditore del mancato godimento della cosa già consegnata nel caso in cui al compratore sia concessa una dilazione nel pagamento del prezzo, prescindono da qualsiasi inadempimento e sono dovuti anche in caso di ritardo non colposo del compratore e senza necessità di una domanda specificamente rivolta a tale fine: conseguentemente la richiesta degli interessi compensativi relativamente al prezzo della vendita può essere proposta per la prima volta in appello, non costituendo domanda in senso tecnico.
A tale orientamento ha fatto seguito altro indirizzo (v. sentenze nn. 5333/79 e 3364/87), secondo cui al di fuori dell’ipotesi di interessi su somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, i quali devono essere riconosciuti anche di ufficio, in tutti gli altri casi gli interessi possono essere attribuiti solo se la parte ne abbia fatto richiesta. Infatti, mentre nella prima ipotesi gli interessi, mirando a scongiurare il pregiudizio che deriva al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente monetario del danno, costituiscono una componente del danno stesso e nascono contemporaneamente e inscindibilmente dal medesimo fatto generatore dell’obbligazione risarcitoria, in tutti gli altri casi, invece, gli interessi, siano essi moratori, corrispettivi o compensativi, avendo un fondamento autonomo rispetto a quello dell’obbligazione pecuniaria, possono essere attribuiti solo su espressa domanda che ne indichi la fonte e la misura.
Quest’ultima soluzione è stata di recente condivisa da altra pronuncia (n. 23195/10), la quale ne ha tratto il logico corollario in base al quale, per il principio generale dell’art. 345 c.p.c., comma 1, la domanda diretta a conseguire gli interessi compensativi non può essere proposta per la prima volta nel giudizio d’appello.
E tale ultimo orientamento questa Corte ritiene di condividere, non essendo revocabile in dubbio che mentre nell’ipotesi di risarcimento del danno la corresponsione degli interessi costituisce una tecnica, neppure unica ed esaustiva, di tradurre in equivalente monetario un bene della vita diverso dal denaro e non reintegrabile in natura, gli interessi compensativi previsti dell’art. 1499 c.c. assolvono la funzione di ristabilire, nell’ambito del sinallagma funzionale, l’equilibrio economico delle prestazioni a rispettivo carico delle parti, ogni qual volta l’alterazione valoriale derivante dalla distanza di tempo intercedente tra l’una e l’altra prestazione non sia stata, espressamente o implicitamente, (pre)negoziata dalle parti stesse. Pertanto, gli interessi ex art. 1499 c.c. operano in funzione perequativa e conservativa della corrispettività economica delle prestazioni e sul presupposto, quindi, della manutenzione del contratto, e non del suo scioglimento.
4.1.1. – Nella fattispecie, la S. nella propria comparsa di risposta di primo grado aveva domandato, oltre alla risoluzione del contratto preliminare 29.5.1989 ("per volontà della società convenuta", così si legge nelle conclusioni riportate nell’epigrafe della sentenza di primo grado), la condanna della C. al risarcimento dei danni per aver usufruito dei locali e dell’immobile, "danni da quantificarsi nella misura degli interessi legali sulla somma di lire 245.000.000 dal 20.5.1989 al saldo".
Sebbene parametrata agli interessi legali e diretta a compensare il promittente venditore per il mancato godimento del bene anticipatamente consegnato al promissario acquirente, la domanda proposta dalla S. si basa su di una causa petendi – la risoluzione del contratto – antitetica rispetto a quella che di necessità presuppone la domanda di pagamento degli interessi previsti dall’art. 1499 c.c., di guisa che tale pretesa non è accoglibile su di un presupposto diverso, pena l’immutazione della causa petendi.
La Corte d’appello si è pronunciata, pertanto, su di una domanda in realtà diversa da quella proposta, la cui corretta interpretazione, nei sensi anzi detti, è consentita a questa Corte in quanto la censura proposta è diretta a far valere un error in procedendo, che abilita il giudice di legittimità all’esame del fatto processuale (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. ex multis, Cass. nn. 12909/04, 1101/06,1221/06 e 539/12).
5. – L’accoglimento del primo motivo assorbe l’esame del secondo (col quale è dedotta la violazione o falsa applicazione di norme di legge, "anche in riferimento all’art. 1499 c.c. e/o omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia", e si lamenta che l’art. 1499 c.c. prevede che nel caso in cui la cosa venduta sia fruttifera, decorrono gli interessi sul prezzo anche se non ancora esigibile, salvo diversa pattuizione).
6. – Con il terzo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto "anche in riferimento agli artt. 1453, 1382, 1383, 1223 e 1226 c.c. e artt. 112, 345, 356 c.p.c. e/o omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia".
Premesso che la C. non ha mai chiesto la liquidazione equitativa del danno, parte controricorrente contesta la ritenuta non cumulabilità della penale alla prestazione principale e sostiene che il giudice d’appello avrebbe dovuto esaminare la richiesta di nomina di un c.t.u. per la quantificazione del danno, richiesta che ha invece disatteso senza alcuna motivazione.
6.1. – Il motivo è manifestamente infondato, sia per la genericità della contestata violazione dell’art. 1383 c.c. e degli altri articoli citati, che non si comprende in qual modo e in qual parte siano stati oggetto di malgoverno, sia perchè il giudice di merito non è tenuto a motivare in maniera diretta ed espressa il diniego di esercitare un potere latamente officioso come la nomina di un c.t.u., diniego che può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio, unitariamente considerato, effettuata dal suddetto giudice (cfr. su quest’ultima affermazione, Cass. nn. 15219/07 e 9461/10). E nella specie la diffusa motivazione svolta dalla Corte fiorentina (anche con ampi richiami di giurisprudenza di legittimità) sull’onere della parte di provare an e quantum della pretesa risarcitoria fornendo tutte le circostanze del caso, e sulla liquidabilità equitativa del danno solo ove sia impossibile o molto difficile dimostrarne il preciso ammontare, non lascia adito a dubbi di sorta circa le ragioni per cui non è stato nominato il c.t.u., nel senso che il giudice, nè direttamente, nè tramite il proprio ausiliario, può surrogarsi alla parte sollevandola dagli oneri probatori che su di essa incombono.
7. – Sulla base delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio in relazione al solo motivo accolto, confermando la statuizione d’appello sulle spese e compensando per un terzo quelle del presente giudizio di cassazione, che per la restante frazione, liquidata come in dispositivo, segue la soccombenza della parte ricorrente.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo e rigettato il terzo motivo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, conferma la statuizione d’appello sulle spese e compensa per un terzo le spese del presente giudizio di cassazione, ponendo a carico della parte ricorrente i restanti due terzi, che liquida in complessivi Euro 2.700,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

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