Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-07-2012, n. 13712

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1) E’ controversa la proprietà di una superficie di 27 mq rivendicata da E.C. e asseritamente occupata da un vano edificato dalla odierna ricorrente M.T..

La domanda è stata respinta dal tribunale di Lecce con sentenza n. 2796/01, che ha dichiarato inammissibile perchè tardivo l’intervento spiegato da N.M. ed E.G., acquirenti del fondo E..

La Corte d’appello salentina ha accolto il gravame proposto da questi ultimi e con sentenza 17 settembre 2009, notificata il 12 ottobre successivo, ha dichiarato che il terreno in questione (in catasto T Lequile part. 665 fl 5 di are 0,27) è di proprietà dei suddetti odierni resistenti, ordinando alla M. il rilascio del fondo e la rimozione delle opere eseguite.

La M. ha proposto ricorso per cassazione notificato l’11 dicembre 2009, affidandosi a due motivi illustrati da memoria. I coniugi N., la cui legittimazione, sancita dalla Corte d’appello, non è stata oggetto di impugnazione, hanno resistito con controricorso.

La trattazione veniva avviata dal consigliere designato con relazione ex art. 380 bis c.p.c.. Con ordinanza 17 gennaio 2011, a seguito di adunanza del 10 dicembre 201, veniva disposta 1’integrazione del contraddittorio con gli eredi di E.C..

Parte ricorrente ha depositato atto relativo all’esecuzione dell’incombente prescritto.

Fissata la discussione, i resistenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2) La sentenza d’appello ha ritenuto che la E.C. fosse proprietaria del terreno di originari 176 mq sulla base della c.t.u., la quale ha rilevato che "la superficie mancante" di 27 mq, rispetto all’originaria consistenza del lotto E., corrisponde all’ampiezza dell’area occupata dalla costruzione M..

Ha ritenuto che la prova della proprietà fosse desumibile anche dalla mancata risposta della convenuta all’interrogatorio formale e dalla la testimonianza di Ep.Ma., nonchè dalla circostanza che la M. avesse eccepito l’usucapione, senza mai contestare la proprietà documentale e catastale E.. Il primo motivo di ricorso lamenta vizi di motivazione della sentenza, che avrebbe esonerato gli appellanti dall’onere di provare la proprietà del terreno controverso, inammissibilmente supplito dal ricorso del giudice d’appello alla consulenza tecnica.

La censura coglie nel segno.

La motivazione della sentenza di merito ritiene raggiunta la prova della proprietà del tutto prescindendo dai principi di diritto implicitamente ma inequivocabilmente invocati dal ricorso e già esposti dalla sentenza di primo grado, non a caso invocata dalla ricorrente.

Insegna questa Corte (di recente Cass. 5131/09) che in tema di rivendicazione, il giudice di merito è tenuto innanzitutto a verificare l’esistenza, la validità e la rilevanza del titolo dedotto dall’attore a fondamento della pretesa, e ciò a prescindere da qualsiasi eccezione del convenuto, giacchè, investendo tale indagine uno degli elementi costitutivi della domanda, la relativa prova deve essere fornita dall’attore e l’eventuale insussistenza deve essere rilevata dal giudice anche d’ufficio. Ricorda inoltre che per quanto attiene, in particolare, alla identità del bene domandato dall’attore con quello descritto nel titolo stesso, i dati catastali non hanno valore di prova ma di semplice indizio, costituendo le mappe catastali un sistema secondario e sussidiario rispetto all’insieme degli elementi raccolti in fase istruttoria.

Pertanto la prova della proprietà dei beni immobili non può essere fornita con la produzione dei certificati catastali, i quali sono solo elementi sussidiari in materia di regolamento di confini ai sensi dell’art. 950 cod. civ. (Cass0 5257/11). Ora, la sentenza d’appello, nel capovolgere la sentenza di primo grado, che aveva fatto corretto riferimento agli oneri probatori gravanti sull’attore in rivendicazione, ha dato peso determinante alla consulenza senza indicare da quale fonte il consulente avesse tratto le sue valutazioni, cioè se avesse condotto 1’indagine secondo le risultanze dei titoli di acquisto, ovvero sulla base delle sole mappe catastali.

Quest’ultima, stando alla apodittica motivazione, appare l’ipotesi più probabile, giacchè in sentenza si fa riferimento al dato catastale e alla planimetria allegata alla consulenza e alla "originaria consistenza del lotto di terreno".

Di qui semplicisticamente la consulenza (seguita dalla sentenza impugnata) ha tratto spunto per presumere che, stante la superficie originaria dichiarata e la consistenza residua misurata, la mancanza nel terreno attoreo di 27 mq fosse imputabile alla costruzione predetta. Ma in tal modo la sentenza è partita da un dato che doveva essere dimostrato veritiero, con il pesante onere probatorio che ricade sul proprietario, considerandolo aprioristicamente come dimostrato.

Va invece ribadito che in tema di azione di rivendicazione, ai fini della prova dell’estensione della proprietà, non è decisiva la superficie indicata nell’atto di compravendita, poichè l’estensione del fondo va determinata in base ai confini menzionati nel contratto, ove essi siano precisi e riscontrabili sul terreno (Cass. 3568/02).

2.1) Dunque per giungere all’accertamento sancito in sentenza il giudice di appello e la consulenza di cui si è servito avrebbero dovuto dar conto della fonte della misurazione, non decisiva neppure se costituita dall’atto di vendita e non solo dalle mappe, e di aver effettuato le verifiche sulla scorta dei confini menzionati nell’atto.

Nulla di tutto ciò emerge in sentenza; la carenza è ancor più grave in considerazione del fatto che già il giudice di primo grado, come riporta il ricorso, aveva esaminato il tipo di frazionamento, contenente l’originaria scomposizione della particella 177 nelle derivate 656, 657 e 658. Aveva rilevato che la E., proprietaria della part. 177, aveva firmato quel tipo di frazionamento unitamente a tal C.D., altra proprietaria confinante e non risultava più titolare delle tre particelle sorte dalla 177, sicchè la verifica della consistenza residua appartenente alla E. ben difficilmente poteva essere pari a quei 176 m.q.

attribuiti storicamente alla particella originaria.

2.2) Inoltre le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello non si misurano con un altro elemento valorizzato in ricorso e nella sentenza di primo grado, costituito dal fatto che al momento della redazione di quel tipo di frazionamento, la zona era già stata edificata dalla M., ditalchè appare illogico ipotizzare che i 176 mq esistenti al momento del frazionamento siano stati parzialmente occupati dalla costruzione M., che preesisteva a tale misurazione. Infatti: o la misurazione era errata e dunque il fondo E. aveva minor consistenza o la sua minor attuale consistenza non può derivare dalla costruzione M., che già esisteva a quel momento.

Consegue da quanto esposto l’accoglimento del primo motivo, con il rinvio della sentenza cassata altra sezione della medesima Corte di appello, che dovrà nuovamente e congruamente valutare, alla luce dei rilievi svolti, se vi sia stata indebita appropriazione dell’area rivendicata.

Resta soltanto da rilevare in proposito che l’eccezione di inammissibilità del motivo di ricorso ex art. 360 bis c.p.c. appare manifestamente infondata, atteso che la censura di vizio di motivazione non rientra nel limite di cui al "filtro" introdotto dalla L. n. 69 del 2009 (Cass. 7558/12) e che i principi giuridici ai quali il ricorso ha fatto riferimento sono corretti e risultano invece male applicati dalla sentenza impugnata.

3) Inammissibile è invece il secondo motivo di ricorso, attinente l’usucapione dell’area da parte della M..

Costei ha dedotto che la prova dell’usucapione era desumibile ex actis, ma in tal modo non ha impugnato la prima dirimente ratio della decisione resa sul punto.

La Corte territoriale aveva infatti ritenuto che l’eccezione di usucapione non fosse stata riproposta espressamente nel grado di appello e doveva quindi "intendersi rinunciata" e comunque "infondata per assoluta carenza di prova sul punto".

Inutilmente il secondo motivo attacca questo secondo profilo, giacchè l’esame della eccezione resta precluso dalla definitività della prima statuizione, non specificamente censurata.

Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine alle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso. Dichiara inammissibile il secondo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Lecce, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 27 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *