Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30-01-2013) 05-04-2013, n. 15829

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Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 13-2-2012, in parziale riforma di quella emessa dal Tribunale di Vigevano, ha condannato A.G. a pena di giustizia per avere, quale procuratore della M. srl, dichiarata fallita il (OMISSIS):
– distratto un autocarro ed un carrello elevatore, nonchè la somma di L. 41.900.000 (capo A1);
– sottratto, distrutto o falsificato, con lo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scritture contabili dell’impresa (capo A2);
– cagionato il dissesto della società per effetto di operazioni dolose (emissione e utilizzazione di false fatture), limitatamente alle fatture concernenti i rapporti con la RG di G.R. e la SG spa (capo A3).
2. Ha proposto personalmente ricorso per Cassazione A. G. lamentando:
a) il vizio di motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), perchè è stato ritenuto il dominus della società, ovvero amministratore di fatto, sulla base di elementi neutri (la procura ad operare e la titolarità della quota maggioritaria) o insignificanti (i rapporti commerciali intrattenuti con V.M.);
b) l’erronea applicazione della legge penale in ordine alla contestata bancarotta impropria, di cui alla L. Fall., art. 233 (capo A3). Deduce che impropriamente è stata ravvisata la condotta tipica nel comportamento del soggetto che ha "aggravato" il dissesto societario, giacchè l’art. 223 punisce la condotta di chi "cagiona" il dissesto della società;
c) l’assenza di motivazione in ordine alle attenuanti generiche, inutilmente richieste ai giudici di primo e secondo grado.
Motivi della decisione
Il ricorso dell’imputato è privo di fondamento e deve essere rigettato.
1. La posizione dell’amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l’attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell’accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall’organico inserimento del soggetto, quale intraneus che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell’"iter" di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi – rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti – in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare (Cassazione penale, sez. 1, 12/05/2006, n. 18464).
Orbene, l’attribuzione all’imputato della qualità di amministratore di fatto si fonda, nel giudizio della Corte territoriale, su una serie di circostanze di fatto non contestate ed estremamente significative; è risultato, infatti, che A. era il vero dominus della società, detenendo la quota di capitale di gran lunga prevalente ed avendo ricevuto una larghissima delega da parte dell’amministratore di diritto, che gli consentiva di rappresentare la società all’esterno, di gestire i rapporti con i fornitori e con i clienti, di assumere e licenziare personale, di gestire le risorse della società: in pratica, di fare tutto ciò che rientra, secondo la previsione codicistica, nelle attribuzioni dell’amministratore.
E non v’è dubbio che, sotto il profilo penale, debba rispondere delle condotte fraudolente (anche) chi abbia in concreto, nelle proprie mani, il timone della società, indipendentemente dalla carica formale, poichè il diritto penale non si rivolge, nello specifico del diritto fallimentare, solamente ai titolari di cariche sociali, ma a tutti coloro che determinano, in concreto, la destinazione dei beni sociali, purchè la loro condotta sia accompagnata dal coefficiente psicologico minimo richiesto dalle singole disposizioni.
Nè vale il rilievo che l’ A. non sarebbe l’unico gestore dei rapporti sociali, giacchè, per verificare la qualità di amministratore di fatto non è necessario che vi sia una totale sovrapposizione delle funzioni esercitate dal soggetto non qualificato rispetto a quelle proprie dell’amministratore, atteso che l’art. 2639 c.c., che prescrive l’accertamento dell’esercizio continuativo e significativo dei poteri inerenti alla funzione, non esige necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiede l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale (Cassazione penale, sez. 5, 02/03/2011, n. 15065). Evenienza che, secondo il motivato giudizio della Corte territoriale, si è data in concreto.
2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, che muove da una errata lettura della L. Fall., art. 223. In tema di bancarotta societaria (L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1), rilevano, ai fini della responsabilità penale, anche le condotte successive alla irreversibilità del dissesto, in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause successive, espressamente dispiegata dall’art. 41 c.p. che disciplina il legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento, sia la circostanza per cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo (tanto da essere suscettibile di misurazione) assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di dissesto già maturato (Cassazione penale, sez. 5, 04/03/2010, n. 16259). Pertanto, anche a voler ritenere che la M. srl fosse già in una situazione di insolvenza alla data di emissione e utilizzazione delle fatture false (ma la sentenza parla di semplice "dissesto"), non per questo la condotta aggravatrice sarebbe penalmente indifferente, posto che la ratio dell’incriminazione è quella di punire quei comportamenti che, pur non rientrando in alcune della fattispecie tipiche previste dalla L. Fall., art. 216, portano alla dissoluzione della società ed al peggioramento della condizione del ceto creditorio.
3. Non ha fondamento, infine, la doglianza relativa alle attenuanti generiche, che il giudice di primo grado aveva negato in considerazione dei precedenti penali dell’imputato e il giudice d’appello non ha concesso, pur riducendo la pena. Il difensore, con l’atto d’appello, si era limitato, in maniera del tutto generica, a chiedere un "intervento mitigatore sulla pena principale anche con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche", senza addurre alcun motivo che potesse orientare la Corte territoriale nella direzione propugnata. Tuttavia, nonostante l’inammissibilità, nello specifico, dell’appello, con la riduzione della pena il giudice territoriale ha mostrato di prendere il considerazione il punto di doglianza, apprezzando, in senso favorevole all’imputato, "le modalità dei fatti", il "comportamento processuale" ed i "remoti precedenti penali", senza tuttavia affermare che tali elementi dovessero portare al riconoscimento delle attenuanti in parola.
L’obbligo motivazionale risulta, quindi, compiutamente assolto con l’indicazione degli elementi posti a base del trattamento.
Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2013

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