Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-07-2012, n. 13697

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Svolgimento del processo
Con sentenza in data 23.04.2002, il Tribunale di Taranto – decidendo sulla domanda proposta da S.G. nei confronti di M.A. per il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’investimento ad opera di un cavallo di proprietà del convenuto e sulla domanda di garanzia proposta dal M. nei confronti della impresa assicuratrice N.s.p.a. – in parziale accoglimento della domanda attrice, condannava il convenuto a pagare all’attore la somma di Euro 14.113,63 e la N.s.p.a. a tenere indenne il M. del pagamento di detta somma.
La decisione, gravata da impugnazione del S., era parzialmente riformata dalla Corte di appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, la quale con sentenza in data 04.10.2006, condannava il M. al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 6.000,00, di cui Euro 4.000,00 a titolo di risarcimento del danno morale ed Euro 2.000,00 a titolo di ulteriore risarcimento del danno biologico, con obbligo della N.s.p.a. di rivalere il M. delle somme esborsande; condannava, altresì, gli appellati al pagamento della metà delle spese dell’appello, compensata l’altra metà.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione S. G., svolgendo due motivi.
Ha resistito la N.s.p.a., depositando controricorso, con cui ha eccepito l’inammissibilità del ricorso.
Nessuna attività difensiva è stata svolta dall’altro intimato M.A..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1226 cod. civ. e di ogni altra norma e principio in materia di quantificazione equitativa del danno sia biologico che morale e correlativo vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto: se sia legittimo da parte del giudice di merito, omettere di operare nell’esercizio del potere di valutazione equitativa del danno biologico come pure del danno morale, attuato con riferimento a valori predeterminati, la attività di adeguamento dei criteri predeterminati medesimi, al caso concreto sotto esame, ai fini della personalizzazione della determinazione e successiva liquidazione dei pretesi danni biologici e morale richiesta della legge e dalla giurisprudenza.
2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ. per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, con relativo vizio di motivazione, che si assume solo apparente in relazione al danno patrimoniale disconosciuto (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto: se sia legittimo che, qualora una persona eserciti un’attività lavorativa e subisca una lesione permanente dell’integrità fisica, venga negato dal Giudice, cui spetta di valutarne l’incidenza, il lucro cessante, conseguente alla riduzione della capacità lavorativa quando sussistano elementi per ritenere che, a causa dei postumi, il soggetto effettivamente abbia ricavato e potrà ricavare in futuro minori guadagni dal proprio lavoro.
2.1. Il ricorso è inammissibile perchè non risponde ai canoni imposti dall’art. 366 bis cod. proc. civ., applicabili alla fattispecie all’esame, attesa l’univoca volontà del legislatore di assicurare l’ultra-attività della norma (per tutte, v. espressamente Cass. 27 gennaio 2012, n. 1194), la quale resta applicabile in virtù del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2 ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze (come quella in oggetto) e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, cioè dal 2 marzo 2006, senza che rilevi la sua abrogazione, a far tempo dal 4 luglio 2009, ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett- d), in forza della disciplina transitoria dell’art. 58 di quest’ultima.
2.2. Va innanzitutto osservato che – sebbene non sia fondata l’eccezione formulata da parte resistente sul presupposto della inammissibilità della proposizione di plurime censure con un unico motivo, dal momento che nessuna prescrizione è rinvenibile nelle norme processuali, che ostacolino la duplice denunzia con unico mezzo, di vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto (cfr.
Cass. 18 gennaio 2008, n. 976) – nel caso di motivo plurimo occorre che lo stesso si concluda con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stato, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto (Cass. civ., Sez. Unite, 31 marzo 2009, n. 7770).
Orbene i due motivi di ricorso all’esame – pur contenendo plurime censure sotto il profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale – non contengono la chiara indicazione (c.d. quesito di fatto) richiesta dalla seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ., la quale deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, da cui risulti non solo il fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ma anche – se non soprattutto – la decisività del vizio, e cioè le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione (cfr. Sez. Unite, 1 ottobre 2007, n. 20603;
Cass. ord., 18 luglio 2007, n. 16002; Cass. ord. 7 aprile 2008, n. 8897).
2.3. Per altro verso i due "quesiti di diritto", che corredano i motivi di ricorso, risultano palesemente inadeguati, conducendo all’inammissibilità anche delle censure svolte in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Si rammenta che il quesito di diritto richiesto dalla prima parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ. deve essere formulato in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame; con la conseguenza che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello che si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo (Cass. civ., Sez. Unite, 11 marzo 2008, n. 6420) o che sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; come pure è inammissibile il quesito che si risolve in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta ovvero la cui risposta non consenta di risolvere il caso sub iudice (Cass. civ. Sez. Unite 2 dicembre 2008, n. 28536).
Nel caso all’esame i due quesiti di diritto – muovendo da premesse valutative, meramente assertive (segnatamente presupponendo, il primo, che siano stati acquisiti elementi del caso concreto che imponessero un diverso adeguamento dei parametri di liquidazione assunti e il secondo, che sussistano elementi per ritenere che, a causa dei postumi, il soggetto effettivamente abbia ricavato e potrà ricavare in futuro minori guadagni dal proprio lavoro) – si risolvono in interrogativi meramente circolari, inidonei a definire la questione concreta, altrimenti postulando un preventivo momento di verifica fattuale e valutativa, inconciliabile con i limiti del sindacato di legittimità. In tal modo i suddetti quesiti palesano la reale natura dei motivi, surrettiziamente finalizzati ad una nuova valutazione delle risultanze fattuali del processo ad opera di questa Corte, onde trasformare il giudizio di Cassazione in un terzo grado di merito.
2.4. Non appare superfluo aggiungere che il ricorso è inammissibile anche per la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, perchè manca della specifica indicazione della documentazione – segnatamente quella relativa alla cessazione dell’attività lavorativa – su cui i motivi si fondano. Invero la norma, secondo l’interpretazione patrocinata dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenze 2 dicembre 2008, n. 28547 e 25 marzo 2010, n. 7161), ponendo come requisito di ammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, richiede la specificazione dell’avvenuta produzione in sede di legittimità, accompagnata dalla doverosa puntualizzazione del luogo all’interno di tali fascicoli, in cui gli atti o documenti evocati sono rinvenibili.
In definitiva il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al rimborso in favore della resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 2.700,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi) oltre rimborso spese generali e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 10 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

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