Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 30-01-2013) 01-03-2013, n. 9848

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Propone ricorso per cassazione M.C. avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli in data 24 gennaio 2012 con la quale, a parte la modifica del trattamento sanzionatorio, è stata confermata la condanna in ordine al reato di tentata estorsione, aggravato ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7.
Deduce:
1) il vizio della motivazione e la violazione dell’art. 629 c.p..
La difesa aveva sottoposto al giudice dell’appello tutti i verbali delle dichiarazioni della persona offesa, G.F., per evidenziare come costui avesse reiteratamente negato che le minacce poste in essere dall’imputato fossero correlate a una richiesta di danaro.
Il teste aveva infatti escluso più volte tale circostanza.
La Corte d’appello non aveva espresso una valutazione in ordine a tali emergenze favorevoli all’imputato;
2) il vizio di motivazione e la violazione di legge sulle caratteristiche della minaccia, costituente elemento del reato.
Sostiene la difesa di tale minaccia sarebbe stata equivocamente configurata come sufficiente anche solo in astratto, in un caso, quale quello di specie, di cosiddetta "estorsione mediatica", ossia proferita mediante l’evocazione del nome di un pericolosissimo associato mafioso (XXX). Invece tale minaccia, in base alla giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente, deve essere capace di ingenerare un timore consistente nella persona offesa, altrimenti non risultando configurata la lesione del bene protetto dalla norma, ossia la libertà di autodeterminazione della vittima;
3) il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento alla circostanza aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7.
Sostiene la difesa che la assoluta scarsezza della contestazione, in fatto, di tale aggravante è stata bilanciata dall’osservazione della Corte territoriale secondo cui la circostanza ricorrerebbe sotto il profilo del metus. Un’affermazione tuttavia in contrasto con quella, sopra ricordata, della idoneità delle minacce in astratto, in un caso nel quale non era certo che il destinatario della minaccia conoscesse il soggetto camorrista evocato;
4) la violazione dell’art. 63 c.p..
In primo luogo la difesa segnala come la pena base, individuata prima di fare applicazione dell’art. 63 c.p., in tema di concorso di aggravanti speciali, era stata fissata, per il reato tentato, senza chiarire di quale portata fosse la diminuzione operata in relazione al tentativo.
In secondo luogo ritiene la difesa che all’imputato sia stata applicata non solo l’aggravante speciale dell’art. 7 ma anche quella, altrettanto speciale, della recidiva e infine quella dell’art. 629, comma 2.
In terzo luogo denuncia come non sia stato motivato l’esercizio del potere discrezionale di cui all’art. 63 c.p., comma 4.
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Il primo motivo, sebbene formulato per denunciare un presunto vizio di motivazione, nella sostanza si atteggia come doglianza concernente la ricostruzione della vicenda e la valorizzazione dei risultati di prova così come, invece motivatamente, effettuate dal giudice del merito.
Ed invero quest’ultimo è responsabile della individuazione, all’interno dell’articolato risultato di un’istruttoria dibattimentale, delle prove che egli ritiene capaci di definire una corretta ricostruzione della vicenda portata alla sua attenzione, con il compito di illustrare e giustificare la propria scelta, contemporaneamente illustrando le ragioni per le quali disattende la versione eventualmente alternativa della difesa.
Un simile compito, tuttavia, si avvale anche del principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di giudizio di appello, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nè la ipotizzabilità di una diversa valutazione delle medesime risultanze processuali costituisce vizio di motivazione, valutabile in sede di legittimità (Rv. 213630).
Nel caso di specie, la denuncia della difesa circa la mancata integrale valutazione delle dichiarazioni di G.F., si infrange contro una motivazione estremamente esaustiva e fondata su una serie di inequivoci elementi di responsabilità, che dunque non soffre del vizio di motivazione denunciato, essendo quest’ultimo attinente a presunti particolari delle dichiarazioni di un teste, ampiamente superate dal complesso delle opposte affermazioni testimoniali valorizzati sentenza.
Così è con riferimento alle dichiarazioni accusatorie riportate a pagina due della sentenza impugnata, ove si da atto di quanto riferito da Gr.Fe., P.I. e, assai eloquentemente, anche dallo stesso G.F., in ordine alle ripetute richieste, profferite dall’imputato, finalizzate ad ottenere da quelli-esercenti dello stabilimento balneare in cui il ricorrente si presentava insistentemente e senza titolo – un pagamento di somme non dovute, sia pure in entità non esattamente quantificata.
Il secondo motivo è, pure, manifestamente infondato.
Con lo stesso, infatti, si denuncia un passo della motivazione nel quale i giudici dell’appello hanno affermato non essere rilevante il fatto che P.I. potesse non essere rimasta intimidita in concreto, non conoscendo, tra l’altro, l’evocato "dedotto di mezzanotte".
La difesa, invero, non tiene conto che la minaccia contestata all’imputato, consistita nel richiedere con formule implicitamente minacciose il pagamento di somme non dovute, con l’evocazione di ambienti (Casale) e persone (XXX) universalmente noti come indici di operatività di pericolosissimi clan camorristici, aveva colpito le persone di G.F. e G. F., in ordine ai quali si dice essere stata accertata una viva preoccupazione, seguita da comuni discussioni, essendo dunque marginale, al riguardo, la affermazione concernente la terza persona offesa – P. – di cui non sarebbe certa intimidazione in concreto.
Ma anche con riferimento a tale ultimo profilo, deve notarsi come la sentenza impugnata – pur con un improprio riferimento alla "astratta idoneità minatoria del riferimento al capoclan" – si sia attenuta all’orientamento, costante giurisprudenza, secondo cui, in tema di estorsione, ai fini della configurabilità del reato, sono indifferenti la forma o il modo della minaccia, purchè comunque idonea, in relazione alle circostanze concrete, a incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo. La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del delitto di estorsione vanno valutate in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa, le particolari condizioni soggettive della vittima, vista come persona di normale impressionabilità, a nulla rilevando che si verifichi una effettiva intimidazione del soggetto passivo (Rv. 212945).
Ciò che la giurisprudenza ha voluto porre in evidenza, in altri termini, è che la concretezza delle circostanze è quella che va valutata da parte del giudice del merito per affermare (o meno) la configurabilità nel caso specifico di una minaccia idonea, ancora una volta in concreto, a determinare nell’uomo medio una coazione della libertà di autodeterminazione, rimanendo comunque estraneo all’area dell’accertamento dovuto, quello concernente l’effettiva intimidazione o meno del bersaglio della minaccia.
Non ha dunque errato il giudice del merito a ritenere prescindibile la concreta reazione emotiva della P., una volta accertata la concreta idoneità intimidatoria della minaccia profferita, data la natura del comportamento prevaricatore dell’imputato e evocatore dei mali ingiusti dipendenti dalla reazione prevedibile di un clan camorristico sanguinario come quello citato – del quale si dichiarava sostanzialmente promanazione ed emissario – in caso di mancato versamento di una somma assolutamente non dovuta.
Con tale osservazione si evidenzia la manifesta infondatezza anche del terzo motivo di ricorso, strettamente correlate dipendente dal precedente.
Infondato si dimostra comunque anche l’ultimo motivo di ricorso.
L’individuazione della pena per il reato tentato, con una diminuzione operata non nella massima estensione prevista dall’art. 56 c.p., risulta giustificata in base all’analisi complessiva della gravità del comportamento tenuto e della personalità dell’imputato, scaturente dall’intera ricostruzione della vicenda come operata in sentenza.
Per quanto concerne, poi, la concreta operatività dell’art. 63 c.p., comma 4, va rilevato che i giudici della sentenza impugnata hanno rispettato la predetta norma, avendo applicato l’aumento della circostanza aggravante speciale della L. n. 203 del 1991, art. 7 operando; su tale aumento, quello ulteriore dovuto all’ulteriore circostanza aggravante speciale della recidiva reiterata, nei limiti previsti dalla norma stessa.
E cioè non già operando l’aumento della metà previsto per la recidiva reiterata, bensì soltanto quello di tre mesi di reclusione e Euro 100 di multa, ad una pena per il reato aggravato dall’art. 7, fissata in anni 4 mesi tre di reclusione e Euro 800 di multa.
La motivazione nell’esercizio di tale potere discrezionale si coglie, in forma implicita ma non per questo meno comprensibile, ancora una volta dai termini della ricostruzione della vicenda e dell’implicazione del prevenuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2013

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