Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-01-2013) 27-02-2013, n. 9395

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Svolgimento del processo
La Corte militare di appello ha confermato la sentenza di condanna alla pena di mesi due di reclusione militare, emessa dal Tribunale militare di Roma nei confronti di S.A., sottocapo VBF 4 M.M. in servizio presso l’Accademia Navale di Livorno, per il reato di furto militare, con l’aggravante del grado, per essersi impossessato di un personal computer portatile di proprietà del comune di 1^ cl. R.V., sottraendolo allo stesso che lo deteneva all’interno di un armadio nella camera ove era alloggiato. Il personal computer fu rinvenuto dal R., che aveva fatto richiesta di poterla ispezionare, dentro una valigia risposta nell’autovettura del S., che, immediatamente, gli consegnò la custodia del suo personal computer portatile, in sostituzione di quella sottratta e non più rinvenuta, e si disse disponibile alla restituzione anche dell’apparato per la ricarica della batteria interna, apparato che poi fu rinvenuto senza che il S. dovesse provvedere a restituirlo.
Il R. dichiarò che, al momento in cui aveva aperto l’armadietto per prelevare il personal computer, scoprendo così che era stato sottratto, aveva rilevato che la catena, con cui aveva assicurato la chiusura dell’armadietto, era in posizione diversa da quella del momento in cui lui si era allontanato dalla camerata e dalla base militare; ebbe poi a precisare di non essere certo che, al momento di andare via, avesse chiuso il lucchetto con lo scatto.
Sono questi, a giudizio della Corte militare, dati probatori univoci della sottrazione del personal computer dall’armadietto, a prescindere dal fatto che il relativo lucchetto fosse chiuso o meno, perchè è certo che l’armadietto fu aperto e la catena srotolata e riposizionata in modo differente. Nessun elemento di fatto ha poi consentito di collocare l’asportazione in un momento specifico, in particolare prima che il R. uscisse dalla base militare e quindi proprio quando, secondo le ricostruzioni difensive, il S. era in bagno a fare la doccia, prima di uscire a sua volta. Peraltro, a giudizio della Corte militare, l’individuazione del momento specifico in cui l’armadietto fu aperto non può assumere alcuna valenza in ordine alla posizione del S., raggiunto da univoci elementi probatori, essendo una tesi implausibile ed inverosimile, che non merita approfondimento mediante rinnovazione istruttoria, quella prospettata dalla difesa, e cioè che altri commilitoni avessero potuto prelevare il personal computer e porlo nella valigia del S., per fare uno scherzo o per una ripicca.
La Corte militare ha poi osservato che non può avere alcun rilievo esimente il fatto che il S. rientrò alla base con il personal computer risposto nella valigia collocata nella sua autovettura, costituendo un post factum inidoneo ad inficiare la validità degli elementi probatori sopra indicati. Nè può dirsi che si sia trattato di un furto d’uso, perchè la restituzione non fu volontaria ma fu la conseguenza dell’iniziativa del derubato.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso, per mezzo del difensore avv.to A., S.A., deducendo:
– violazione di legge. La condotta addebitabile all’imputato, sì come ricostruita in sentenza, non è stata qualificata dal dolo specifico, di trarre profitto per sè o per altri, e, a tutto voler concedere, può integrare gli estremi del reato di cui all’art. 233 c.p.m.p. di furto d’uso. E siccome la pena edittale per tale ultimo reato è costituita dalla reclusione fino a sei mesi, la procedibilità è sottoposta alla richiesta di procedimento da parte del Comandante di Corpo di appartenenza del militare, secondo quanto espressamente previsto dall’art. 260 c.p.m.p., comma 3.
Il ricorrente, infatti, pur essendo in franchigia, fece rientro alla base miliare con al seguito il presunto corpo di reato, e quindi deve ritenersi che spontaneamente ed effettivamente volle provvedere alla restituzione del bene asseritamente sottratto.
– Difetto di motivazione. La Corte di merito ha affermato che il ricorrente asportò dall’armadietto personale della presunta persona offesa il computer e ciò indipendentemente "dal fatto che il relativo lucchetto – di chiusura dell’armadietto – fosse aperto o chiuso", così incorrendo nella contraddizione di affermare la responsabilità per una condotta sottrattiva in assenza del necessario accertamento della presenza di eventuali manomissioni della serratura. Ancora, e in modo contraddittorio, ha decretato l’irrilevanza dell’accertamento circa il momento in cui l’armadietto fu aperto, pur avendo dato atto che l’armadietto fu aperto. E ciò nonostante la persona offesa ebbe a dichiarare di aver assicurato con il lucchetto la chiusura dell’armadietto. La Corte di militare, inoltre, ha assunto che qualcuno potesse essersi appropriato del personal computer prelevandolo dall’armadietto ed ha illogicamente rigettato la richiesta di rinnovazione istruttoria volta ad accertare l’autore della condotta,dato che nella cameretta, oltre al ricorrente, vi erano altri commilitoni, e la possibilità che, ioci causa, qualcuno di loro avesse potuto inserirlo nella valigia del ricorrente.
Motivi della decisione
I motivi proposti sono manifestamente infondati per le ragioni di seguito esposte. La qualificazione del fatto, operata dal giudice del merito, è corretta e non merita considerazione il rilievo di ricorso circa l’applicabilità della fattispecie di furto d’uso militare, dal momento che la restituzione del bene non fu per nulla volontaria, ma fu conseguenza dell’iniziativa della persona offesa che chiese al ricorrente di poter ispezionare la di lui autovettura, evidentemente per il sospetto che questi potesse essere l’autore del furto.
E’ principio giurisprudenziale pacifico che "per la configurabilità del furto d’uso occorrono due elementi essenziali: il primo caratterizzato dal fine esclusivo di fare uso momentaneo della res sottratta; l’altro, dal carattere oggettivo, concernente la restituzione che, dopo l’uso, deve essere effettuata. Tale restituzione deve essere volontaria, e ciò deve presentarsi come libera attuazione dell’iniziale intenzione di restituire. Tutte le cause, pertanto, che determinano una coazione alla restituzione, rendono applicabile il titolo comune di furto, e così pure tutte le cause, anche indipendenti dalla volontà del colpevole, che impediscono la restituzione" – Sez. 2, n. 9090 del 7/3/1989 (dep. 22/6/1990), Nicosia, Rv. 184695 -. La restituzione volontaria, nel caso in esame, non vi fu, e quindi bene ha operato il giudice del merito nella qualificazione del fatto.
Pienamente logica e adeguata è la motivazione dell’impugnata sentenza in ordine alle ragioni di fatto che convergono nell’individuazione della responsabilità per il fatto imputato in capo al ricorrente. E’ ora sufficiente evidenziare che il personal computer del R. fu rinvenuto nell’autovettura del ricorrente e che questi, al momento del rinvenimento, tenne un atteggiamento spiegabile soltanto assumendo che egli fu l’autore del furto:
consegnò immediatamente al R. la custodia del suo personal computer portatile e si disse pronto a restituire anche l’apparato per la ricarica della batteria interna, segni inequivoci che riconobbe di essere il responsabile dell’increscioso fatto.
Parimenti sufficiente è la motivazione del rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria, volta ad un approfondimento su circostanze che, alla luce del complesso probatorio in atti, sono correttamente apparse prive di fondamento.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna alle spese e a una somma, che si reputa equa nella misura di Euro 1000,00, in favore della Cassa delle ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa del ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità, secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del procedimento e al pagamento della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2013

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