Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-07-2012, n. 13683

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con ricorso 23 febbraio 1996 M.C. ha proposto opposizione, innanzi al tribunale di Vallo della Lucania sezione specializzata agraria, avverso il decreto con cui – ai sensi della L. 25 febbraio 1963, n. 327, artt. 1 ss. e L. 22 luglio 1966, n. 607, artt. 1 e ss. – il pretore di Vallo di Lucania aveva pronunciato l’affrancazione, in favore di D.M.E., D.B. e D.A. dei fondi (OMISSIS), di proprietà di essa ricorrente.

Radicatosi il contraddittorio i convenuti – costituitisi in giudizio – hanno resistito alla proposta opposizione deducendone la improcedibilità perchè non preceduta dal tentativo di conciliazione nonchè, nel merito, la infondatezza.

Svoltasi la istruttoria del caso nel corso della quale a seguito della interruzione del giudizio per morte del difensore dei convenuti il processo stesso era riassunto dalla M., l’adita sezione con sentenza 12 marzo 2004, rigettata sia l’eccezione di estinzione del processo per tardiva riassunzione sia quella di improcedibilità per omesso esperimento del tentativo di conciliazione, e qualificato il rapporto tra le parti quale colonia migliorativa, ha rigettato la opposizione, ritenendo sussistenti tutte le condizioni per farsi luogo alla affrancazione.

Gravata tale pronunzia in via principale dalla soccombente M. e in via incidentale da D.M.E. e D.A., in contumacia dell’appellato D. B., la Corte di appello di Salerno, sezione specializzata agraria, con sentenza 20 febbraio 2006 – in totale riforma della sentenza del primo giudice – ha dichiarato improcedibile la domanda di affrancazione avanzata da D.M.E., D. A. e D.B., nonchè quelle accessorie e dipendenti, ivi comprese le riconvenzionali spiegate da M.C..

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, hanno proposto ricorso – affidato a 4 motivi – D.M.E., D.A. e D.B..

Resiste, con controricorso M.C..

Motivi della decisione

1. La sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione è stata depositata – in cancelleria – il 20 febbraio 2006 e, quindi, anteriormente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, 2 marzo 2006 sì che il presente ricorso – ai sensi dell’art. 21, comma 2, di tale decreto – è soggetto alla disciplina di cui agli artt. 360 e ss. cod. proc. civ. nella loro formulazione anteriore alle modifiche introdotte con detto testo normativo.

2. Eccependo le appellate – appellanti incidentali la estinzione del giudizio di primo grado, per tardiva riassunzione dello stesso a seguito della pronunziata sua interruzione, la sentenza impugnata ha disatteso una tale eccezione affermando che correttamente il tribunale ha ritenuto che l’estinzione non si fosse verificata per essere stato tempestivamente depositato il ricorso per la riassunzione, se non anche comunque per essere quello stato tempestivamente notificato in modo rituale almeno a una delle controparti.

3. I ricorrenti censurano nella parte de qua la sentenza impugnata denunziando, nell’ordine:

– da un lato, violazione di legge e/o falsa applicazione degli artt. 152, 153, 154, 115, 291, 302, 303, 305, 301 e 310 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 primo motivo;

– dall’altro, omessa insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte appellante (primo grado) appellata (secondo grado): artt. 132, 154, 175, 291, 302, 303, 305, 301 e 310 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 e in ogni caso rilevabile di ufficio secondo motivo.

E’ vero, osservano i ricorrenti – con riguardo al primo motivo – che il ricorso per riassunzione è stato depositato entro i sei mesi previsti dalla legge per la riassunzione della data di interruzione ed è stato, altresì, tempestivamente notificato in modo rituale ad almeno una delle controparti, ma erroneamente i giudici del merito hanno fatto applicazione dell’art. 291 cod. proc. civ..

In realtà, assumono 1 ricorrenti, il tribunale, all’udienza del 19 febbraio 2003 non poteva concedere un nuovo termine per la notifica del ricorso alle altre parti, dopo la scadenza del termine originariamente concesso.

Si richiama, al riguardo, l’autorità dell’insegnamento contenuto, tra l’altro, nelle sentenze di questa Corte di Cassazione n. 808 del 1999 e n. 8314 del 1997.

Quanto al secondo motivo si denunzia la motivazione addotta dalla corte di appello nel rigettare la eccezione di estinzione del giudizio.

4. Nessuno dei riferiti motivi può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

4. 1. Quanto al primo lo stesso – a prescindere dal considerare che prospettandosi con esso un presunto error in procedendo in cui sarebbero incorsi i giudici del merito lo stesso doveva essere dedotto sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, e non come è stato fatto quale violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 cfr., Cass. 23 gennaio 2012, n. 920; Cass. 23 settembre 2011, n. 19484; Cass. 23 settembre 2009, n. 19682 – è manifestamente infondato.

Risolvendo un contrasto manifestatosi tra le sezioni semplici, le Sezioni Unite di questa Corte regolatrice hanno affermato (già anteriormente alla proposizione del presente ricorso per cassazione) che verificatasi una causa d’interruzione del processo, in presenza di un meccanismo di riattivazione del processo interrotto, destinato a realizzarsi distinguendo il momento della rinnovata edictio actionis da quello della vocatio in ius, il termine perentorio di sei mesi, previsto dall’art. 305 cod. proc. civ., è riferibile solo al deposito del ricorso nella cancelleria del giudice, sicchè, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius.

Ne consegue che il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice, che rilevi la nullità, di ordinare la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 cod. proc. civ., entro un termine necessariamente perentorio: solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, u.c., e del successivo art. 307, comma 3 (in termini, Cass., sez. un., 28 giugno 2006, n. 14854, da cui totalmente prescindono le argomentazioni svolte in ricorso).

Quanto precede è stato ribadito anche dalla giurisprudenza successiva di questa Corte che – pertanto – al momento può dirsi assolutamente consolidata nell’affermare in termini opposti, rispetto a quanto, del tutto apoditticamente si invoca da parte della difesa dei ricorrenti che una volta eseguito tempestivamente il deposito del ricorso in cancelleria, il termine di sei mesi di cui all’art. 305 cod. proc. civ. non ha alcun ruolo nella successiva notifica dell’atto volta a garantire il corretto ripristino del contraddittorio, con la conseguenza che il vizio o la mancanza della notifica impongono al giudice di ordinarne la rinnovazione in applicazione analogica dell’art. 291 cod. proc. civ. entro un termine perentorio, il cui mancato rispetto determina l’estinzione del giudizio ai sensi del combinato disposto dell’art. 291 c.p.c., u.c. e art. 307 c.p.c., comma 3 (Cass. 8 marzo 2007, n. 5348; Cass. 15 marzo 2007, n. 6023; Cass. 16 marzo 2010, n. 6325; Cass. 7 luglio 2010, n. 16016; Cass. 27 gennaio 2011, n. 1900; Cass. 6 maggio 2011, n. 10016).

Essendo la pronunzia del giudice del merito conforme a tale indirizzo interpretativo (il ricorso in riassunzione è stato depositato entro il termine semestrale di legge e nel termine inizialmente assegnato dal giudice il ricorso decreto è stato notificato almeno a una delle controparti e successivamente il giudice – preso atto che nel detto termine la notifica a altri contraddittori non era andata a buon fine – ha concesso – ex art. 291 cod. proc. civ. – nuovo termine alla parte riassumente per l’adempimento, termine puntualmente osservato) e non contendendo il ricorso che totalmente prescinde, come osservato sopra, dalla consolidata giurisprudenza richiamata sopra considerazioni di sorta che giustifichino una revisione di tale giurisprudenza, è palese – come anticipato – la manifesta infondatezza del motivo in esame.

4. 2. Quanto al secondo motivo lo stesso è inammissibile.

Deve ribadirsi – infatti – in conformità a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice a da cui ancora una volta, senza alcuna motivazione, totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti, che in tema di ricorso per cassazione è inammissibile la deduzione di un vizio di motivazione su un error in procedendo, quale è la violazione di una norma processuale (nella specie il rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio asseritamente tardivamente riassunto dopo la dichiarata interruzione).

Quale, infatti, sia stata la giustificazione del giudice del merito, la Corte di cassazione deve comunque accertare direttamente l’esistenza dell’invalidità di cui si discute.

L’accertamento, pertanto, della invalidità non può prescindere dall’accertamento anche del fatto che la integra, essendo perciò indiscusso che in relazione agli errores in procedendo la Corte di cassazione è giudice anche del fatto (In termini, ad esempio, Cass. 19 dicembre 2008, n. 29779, nonchè Cass. 8 marzo 2007, n. 5351: in tema di ricorso per cassazione, una questione puramente processuale non può essere dedotta sotto il profilo del vizio di motivazione, poichè in tal caso, la Corte è giudice anche del fatto e può procedere all’apprezzamento diretto delle risultanze istruttorie e degli atti di causa).

5. Come anticipato in parte espositiva la sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione ha ritenuto la improcedibilita della domanda di affrancazione avanzata da D.M.E., D. A. e D.B., nonchè di quelle accessorie e dipendenti, ivi comprese le riconvenzionali spiegate da M.C. sul rilievo, assorbente, che il ricorso per l’affrancazione doveva essere preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, senza ombra di dubbio nella specie omesso.

6. I ricorrenti censurano nella parte de qua la riassunta pronunzia con il terzo e il quarto motivo, denunziando nell’ordine:

– da un lato, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte di appello rilevato ex officio la improponibilità dell’azione di affrancazione proposta da essi ricorrenti terzo motivo;

– dall’altro, violazione di legge e/o falsa applicazione della L. n. 601 del 1966, artt. 2, 3, 4 ss. e L. n. 203 del 1982, art. 54, art. 185 cod. proc. civ., art. 12 preleggi e art. 101 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a un punto decisivo della controversia prospettati dalla parte resistente (primo grado) – appellata (secondo grado) quarto motivo.

7. Nessuno di motivi sopra esposti può trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

7. 1. Quanto alla censura sviluppata con il terzo motivo, a prescindere dalla sua evidente inammissibilità (è stato prospettato come violazione di legge, sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, un vizio della sentenza che doveva, invece, a pena di inammissibilità essere fatto valere quale nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, cfr. – tra le tantissime – Cass. 17 dicembre 2009, n. 26598) la stessa è manifestamente infondata.

Al riguardo – infatti – i giudici del merito si sono – ancora una volta – puntualmente attenuti a quanto assolutamente pacifico presso una pressochè consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice, assolutamente incontroversa nell’affermare che in materia agraria, la necessità del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, secondo quanto previsto dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, configura una condizione di proponibilità della domanda, la cui mancanza, rilevabile anche d’ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità (Cass. 29 gennaio 2010, n. 2046; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436).

Nè – ancora – ha un qualche pregio la invocazione della speciale disciplina di cui all’art. 412-bis cod. proc. civ., e la necessità che l’omesso tentativo di conciliazione sia denunziato non oltre l’udienza di discussione della causa, atteso che in materia questa Corte regolatrice non dubita che tale ultima disposizione, dettata con riguardo alla materia lavoristica, anche se successiva alla L. n. 203 del 1982, art. 46 (siccome introdotta dall’art. 39 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), reca una disciplina peculiare del processo del lavoro, che non può trovare applicazione nel processo agrario, il quale mantiene inalterata la propria diversa ed autonoma regolamentazione positiva dettata dal citato art. 46 (tra le tantissime, in questo senso, Cass. 22 dicembre 2011, n. 28320; Cass. 29 gennaio 2010, n. 2046; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436).

E’ palese – in conclusione sul punto – da un lato, che correttamente i giudici del merito hanno ritenuto, ex officio, la improponibilità dell’azione di affrancazione proposta dagli odierni ricorrenti ancorchè una tale eccezione non fosse stata sollevata, nel corso del giudizio di primo grado dalla M. (ma unicamente dagli stessi odierni ricorrenti, peraltro, solo con riguardo all’atto di opposizione avverso il decreto di affrancazione del pretore e non con riguardo agli atti anteriori, posti in essere da essi concludenti, totalmente prescindendo dal considerare la unitarietà del procedimento che ha inizio con il ricorso al pretore ora tribunale e si sviluppa attraverso il provvedimento di questo cui segue l’opposizione innanzi alla sezione specializzata agraria).

7. 2. Al pari dei precedenti, neppure il quarto motivo può trovare accoglimento.

Lo stesso, infatti, per più aspetti inammissibile è, per altri, manifestamente infondato.

7. 2. 1. Come puntualmente evidenziato dalla sentenza impugnata la giurisprudenza di questa Corte regolatrice (dopo qualche iniziale incertezza, cfr. Cass. 8 maggio 1993, n. 5321) è costante nell’affermare che in tema di controversie in materia di contratti agrari, la domanda di accertamento che il rapporto corrente tra le parti deve essere inquadrato nella disciplina dei contratti di miglioria soggetti ad affrancazione, anzichè in quella dei contratti di affitto di fondo rustico, deve essere preceduta dal tentativo di conciliazione prescritto, a pena di improcedibilità, dalla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, a prescindere dalla circostanza che, per le controversie nascenti in tema di affrancazione dell’enfiteusi (ma anche in tema di contratti di miglioria), la L. n. 607 del 1966, art. 4 preveda già un tentativo di conciliazione giudiziale analogo a quello di cui all’art. 185 cod. proc. civ., trattandosi, nell’un caso (art. 46 citato), di lex generalis, e, nell’altro (art. 4 pure citato), di lex specialis del tutto compatibile (oltre che del tutto diversa) rispetto alla prima (In termini, Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 18 ottobre 2001, n. 12756).

Ha precisato questa Corte, nella parte motiva, nella prima delle ricordate pronunzie (Cass. 17 gennaio 2011, n. 593) "si assume da parte dei ricorrenti, come già, in precedenza, da parte di Cass. 8 maggio 1993, n. 5321 che nella specifica materia – in deroga al principio generale contenuto nella L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, secondo cui "chi intende proporre in giudizio una domanda relativa a una controversia in materia di contratti agrari è tenuto a darne preventivamente comunicazione … all’altra parte e all’ispettorato provinciale della agricoltura competente per territorio" … perchè esperisca tentativo di conciliazione della vertenza – la domanda non è subordinata al tentativo di conciliazione de quo perchè per le controversie nascenti da questi contratti di miglioria la L. 22 luglio 1966, n. 607, art. 4 già prevede un solo tentativo di conciliazione giudiziale analogo a quello previsto dall’art. 185 cod. proc. civ..

Come accennato l’assunto non può seguirsi.

Recita in particolare la L. 22 luglio 1966, n. 607, art. 4, in tema di affrancazione dell’enfiteusi ma applicabile anche ai contratti di miglioria di cui alla L. 25 febbraio 1963, n. 327: "il pretore ora:

il tribunale, in composizione monocratica nella prima udienza deve cercare di conciliare le parti, ai sensi dell’art. 185 c.p.c." (comma 1) "In caso di mancato accordo" il giudice, "inteso se del caso un consulente tecnico, determina la somma che il ricorrente deve depositare …" (comma 2).

Pacifico quanto sopra non può non notarsi che successivamente alla detta L. n. 607 del 1966 e, in particolare, con la L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, sopra trascritto sono state introdotte nuove "disposizioni processuali" relativamente alle "controversie in materia di contratti agrari" quale è, indubbiamente, quella di affrancazione dei terreni di cui alla L. n. 327 del 1963, le quali, pertanto, non possono non trovare applicazione anche nella materia de qua.

Perchè in particolare – a norma dell’art. 15 preleggi – si abbia abrogazione di legge per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o – come implicitamente invocano gli attuali ricorrenti – applicazione del principio secondo cui lex posterior generalis non derogat legi priori speciali con conseguente insensibilità della legge speciale anteriore alla modifiche introdotte da quella successiva generale è indispensabile che tra le due leggi vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicchè dall’applicazione e osservanza della nuova legge derivi necessariamente la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (cfr., tra le tantissime, Cass. 18 febbraio 1995, n. 1760).

Nessuna contraddizione, per contro, è riscontrabile nella specie, tra le due disposizioni a confronto.

Una infatti – di carattere generale (la L. n. 203 del 1982, art. 46) prevede un tentativo di conciliazione da esperirsi da parte dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura, eventualmente con l’intervento dei rappresentanti delle associazioni professionali di categoria delle parti in lite, l’altra, la lex specialis (la L. n. 607 del 1966, art. 4,) un diverso tentativo di conciliazione, da esperirsi dal giudicante, in armonia con la regola di cui all’art. 185 cod. proc. civ..

Non solo l’effettuazione, evidentemente con esito negativo, di un tentativo di conciliazione non preclude l’esperimento di altro tentativo, ma non v’è chi non veda le differenze dei vari "tentativi".

Non solo perchè in un caso e non nell’altro, è previsto che questo si svolga alla presenza di un giudice, ma – soprattutto – perchè solo in un caso è possibile l’intervento dei rappresentanti di categoria.

La "diversità" delle procedure previste dalle due distinte disposizioni di legge giustifica, pertanto, ampiamente la conclusione fatta propria nella specie dai giudici a quibus, allorchè hanno ritenuto che comunque era onere della parte convenuta far precedere la domanda riconvenzionale di riscatto dall’osservanza delle formalità di cui alla L. n. 203 del 1982, art. 46,.

Quanto precede, trova conferma nella circostanza – totalmente pretermessa dai ricorrenti, come anche da Cass. 8 maggio 1993, n. 3521 – da un lato, che la L. 2 marzo 1963, n. 320, art. 7, recante la disciplina delle controversie innanzi alle sezioni specializzate agrarie espressamente prevede che "nell’udienza di prima trattazione deve venire esperito il tentativo di conciliazione; a tale scopo può anche essere disposto il differimento della trattazione stessa", dall’altro, che l’art. 5 della stessa legge espressamente prevede, altresì, che "la trattazione della causa, innanzi le sezioni specializzate … si svolge secondo le norme dettate dagli artt. 429 e seguenti ora: art. 409 e seguenti" c.p.c. e che l’art. 420 cod. proc. civ. espressamente dispone che "nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice … tanta la conciliazione della lite".

E’ palese – pertanto – che la circostanza la legislazione vigente e mai abrogata già imponga come obbligatorio un tentativo di conciliazione giudiziale non preclude la possibilità, per il legislatore, di prevedere un nuovo diverso tentativo di conciliazione da espletare innanzi ad altro organo, e per la parte, l’onere di esperire entrambi i detti tentativi".

7. 2. 2. Pacifico quanto precede, ritiene il collegio che nessuna delle considerazioni svolte in ricorso giustifichi una diversa conclusione della lite, rispetto a quella fatta propria dalla sentenza impugnata sulla base dei precedenti sopra ricordati.

Infatti:

– la circostanza che a norma dell’art. 101 Cost. i giudici sono soggetti soltanto alla legge non esclude che sia compito del giudice interpretare le leggi e deve escludersi – tassativamente – che la interpretazione data, prima da questa Corte, poi dalla Corte di appello di Salerno della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46 possa dirsi in contrasto con l’art. 101 Cost.;

-in alcun modo pertinente, al fine del decidere, è il richiamo alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 54 (secondo cui ai rapporti di miglioria di cui alla L. 25 febbraio 1963, n. 327, art. 1 e ai rapporti analoghi esistenti .. si applicano le norme della presente legge semprechè più favorevoli alle condizioni pattizie e consuetudinarie esistenti), atteso che la disposizione fa chiaramente riferimento alla disciplina sostanziale dei detti rapporti e non certamente – come del tutto apoditticamente pretende la difesa dei ricorrenti – a quella processuale, considerato che questa è rimessa (cfr. art. 1 c.p.c., seconda parte, da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti) esclusivamente al potere normativo e non è suscettibile di essere disciplinata da condizioni pattizie o consuetudinari;

– come ricordato dalle pronunzie richiamate sopra è irrilevante – al fine del decidere – sia che la L. n. 607 del 1966 non preveda alcun tentativo di conciliazione se con quello menzionato dall’art. 4 della stessa legge, certo essendo che il tentativo di conciliazione di cui si discute è stato introdotto da una norma generale successiva, del 1982, sia che pronunzie di giudici di merito, anteriormente all’intervento di questa Corte Suprema del 2001, siano andate di contrario avviso all’insegnamento di questa Corte (cfr., al riguardo, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 65, comma 2, prima parte, da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti);

– deve escludersi – ancora – tassativamente, che l’insegnamento contenuto in Cass. n. 953 n. 2001 (e in Cass. 18 ottobre 2001, n. 12756) non sia pertinente atteso che allorchè gli odierni ricorrenti hanno adito il pretore per ottenere l’affrancazione dei terreni per cui è controversia hanno chiesto palesemente, l’accertamento di essere titolari di un rapporto di colonia perpetua (contratto agrario) e introdotto una "controversia in materia di contratti agrari", quale è, indubbiamente, quella di affrancazione dei terreni di cui alla L. n. 327 del 1963;

– palesemente inammissibili, infine, sono tutte le argomentazioni svolte nel motivo al fine di dimostrare vizi della motivazione della sentenza impugnata allorchè ha ritenuto la soggezione della controversia in questione già nella fase anteriore alla opposizione al decreto di affrancazione alla disciplina di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, atteso – come già evidenziato in margine al secondo motivo di ricorso – che in tema di ricorso per cassazione, una questione puramente processuale non può essere dedotta sotto il profilo del vizio di motivazione, poichè in tal caso, la Corte è giudice anche del fatto e può procedere all’apprezzamento diretto delle risultanze istruttorie e degli atti di causa.

8. Risultato infondato in ogni sua parte il proposto ricorso, in conclusione, deve rigettarsi con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 31 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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