Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 30-01-2013) 20-02-2013, n. 8099

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Appello di Napoli ha confermato la sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale della medesima città in data 13.3.2008 nei confronti di E. M. e di E.C. per il delitto di ricettazione avente ad oggetto parti meccaniche di autoveicoli.

2. Propongono ricorso per cassazione a mezzo di difensore gli imputati, lamentando vizio di motivazione con riguardo alla ritenuta penale responsabilità rilevando che la Corte territoriale nella ricostruzione dei fatti si sarebbe limitata a una motivazione estremamente lacunosa oltre che illogica. Si segnala, in particolare, come la presenza degli imputati sul luogo del delitto sarebbe stata erroneamente intesa dai giudici di merito nel senso della flagranza del reato, atteso che molto diversamente tale presenza sarebbe stata meramente occasionale; ed inoltre che la Corte territoriale avrebbe illogicamente desunto la prova del dolo dall’immediata fuga degli imputati e dall’assenza di giustificazioni sul possesso dei beni ricettati.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è manifestamente infondato.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262). In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talchè la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la L. n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 c.p.c., lett. e), consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad "altri atti del processo": alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito, (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803).

Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, deve limitarsi a verificare se la giustificazione del giudice di merito sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380) e tale da superare il limite del ragionevole dubbio.

La condanna al là di ogni ragionevole dubbio implica, infatti, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, con la precisazione che il dubbio ragionevole non può fondarsi su un’ipotesi alternativa del tutto congetturale seppure plausibile (v. Cass. sez. 4, 17.6.2011, n. 30862; sentenza Sezione 1A, 21 maggio 2008, Franzoni, rv. 240673;

anche Sezione 4A, 12 novembre 2009, Durante, rv. 245879). La motivazione è invece mancante non solo nel caso della sua totale assenza, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi d’appello e dotate del requisito della decisività (Cass. 17 giugno 2009, n. 35918).

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso di specie, dal momento che il giudice di appello ha esposto un ragionamento argomentativo per quanto sintetico, tuttavia coerente, completo e privo di discontinuità logiche giungendo per tale via ad una adeguata ricostruzione dei fatti e a una corretta qualificazione giuridica degli stessi.

Deve in particolare segnalarsi che la Corte territoriale correttamente, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. 2, 11 giugno 2008 n.25756, Nardino; sez. 2, 27 febbraio 1997 n.2436, Savie), ha desunto la prova dell’elemento soggettivo dall’omessa – o non attendibile – indicazione da parte dell’imputato della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede. La Corte territoriale si è infatti adeguata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia peraltro indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorchè siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto.

Questa Corte ha più volte, del resto, affermato che la conoscenza della provenienza delittuosa della cosa può desumersi da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell’imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata – o non attendibile – indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede (Cass. sez. 2, 11 giugno 2008 n. 25756, Nardino; sez. 2, 27 febbraio 1997, n. 2436 Savie).

Quanto al rilievo della mera occasionalità della presenza degli imputati sul luogo del fatto lo stesso, in quanto sfornito non solo di qualsiasi riscontro, ma finanche di una plausibile giustificazione, si mostra assolutamente inidoneo a infirmare il lineare ragionamento dei giudici di merito.

2. Ne consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè di ciascuno al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro mille.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento in favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 1000,00.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2013

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