Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 30-01-2013) 12-02-2013, n. 6849

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 5.4.2012 il Tribunale di Palermo, in composizione collegiale e quale giudice dell’esecuzione, in sede di opposizione ai sensi dell’art. 667 cod. proc. pen., comma 4, disattendeva l’istanza con cui S. spa – in liquidazione coatta amministrativa – aveva chiesto di dichiarare non opponibile la confisca dell’immobile sito in (OMISSIS), che era stata disposta dal Tribunale di Palermo con sentenza pronunciata nei confronti di S. F., immobile che costituiva la garanzia ipotecaria per la banca a seguito di finanziamenti bancari, mentre accoglieva l’istanza di revoca dell’ordine di cancellazione delle ipoteche che era stato disposto con ordinanza 10.2.2011.
Il Tribunale premetteva che allo S. era stata concesso un’anticipazione fondiaria di L. un miliardo da S. spa, nell’ambito di un’operazione di mutuo per L. 17 miliardi che venne trattata direttamente dal menzionato con la banca, senza intermediazione. Aggiungeva, a confutazione della tesi della difesa della S., che la buona fede della banca non poteva essere ritenuta, considerato che incombeva sulla stessa l’onere dimostrativo di aver adempiuto agli obblighi di informazione e diligenza e quindi di aver fatto affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza relativamente alla effettiva posizione del soggetto nei cui confronti si acquisisce il diritto di garanzia. Tale onere non risultava adempiuto, considerati taluni indici di mala gestio nella conduzione della pratica di finanziamento per un cifra tanto cospicua (indici che erano stati indicati nell’intervenuta estinzione di un primo debito ad opera dello S. solo con il secondo finanziamento, nel fatto che la banca avrebbe dovuto agire prima per ottenere il recupero del credito, anzichè aspettare fino al 1996, e nel fatto che avrebbe dovuto usare maggiore prudenza nel confidare nel cambio di destinazione d’uso dell’edificio per cui era stato chiesto il prestito). Non solo, ma veniva evidenziato che se la posizione personale di S.F. non dava adito a particolari rilievi, i membri della sua famiglia erano soggetti più discussi, in particolare il fratello S., a capo del gruppo societario omonimo, era soggetto sottoposto a misure di prevenzione, il che avrebbe dovuto imporre maggiore prudenza, tanto più che anche sotto il profilo economico detto gruppo era esposto per L. 13,5, miliardi. Proprio a fronte di questa realtà, il Tribunale concludeva nel senso che la S. non aveva dimostrato buona fede nella gestione del finanziamento concesso a S.F., garantito da ipoteca su immobile confiscato, cosicchè la confisca non poteva essere dichiarata non opponibile alla banca, essendo venuta meno l’efficacia del diritto di garanzia. Riteneva invece di revocare l’ordine di cancellazione delle ipoteche che era stato disposto con l’ordinanza del 10.2.2011, in ragione del fatto che detto provvedimento non era stato richiesto, per cui in applicazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato doveva essere revocato.
2. Avverso tale pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione la difesa di S., per dedurre:
2.1 violazione di legge, illogicità e contraddittorietà della motivazione in merito alla valorizzazione dei legami parentali del debitore S.: non potevano essere valorizzati detti legami, in primis perchè al gruppo imprenditoriale del fratello, S. F. era estraneo e poi perchè le misure che furono applicate a S.S. furono subito revocate e quindi, oltre che essere indicatori non pertinenti al mutuatario, erano indicatori lontani nel tempo e assolutamente non significativi. Non solo, ma che l’attività di F.P. fosse distinta da quella del fratello S., era stato conclamato anche in una pronuncia del Tribunale di Palermo, sulla base di accertamento tecnico che aveva delineato la netta distinzione tra i due gruppi Sbeglia tra cui non erano individuabili legami, nè di ordine economico-operativo, nè giuridico. In proposito è stato richiamato dalla difesa l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato quanto alla rilevanza dei legami parentali, in materia di interdittiva prefettizia antimafia, secondo cui non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata, occorrendo che l’informativa antimafia indichi ulteriori elementi dai quali si possa dedurre ragionevolmente possibili collegamenti tra i soggetti su cui l’autorità prefettizia abbia individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti.
2.2 erronea applicazione di legge penale, nonchè illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto ai ritenuti aspetti di "mala gestio" dell’operazione di finanziamento: secondo la difesa, i criteri usati dal tribunale per addivenire ad escludere la buona fede sarebbero errati, poichè la perdurante efficacia del diritto di garanzia non deve essere legata ad un giudizio di meritevolezza tout court, bensì alla verifica del fatto che non sia stata agevolata l’attività criminosa, che non sia stata realizzata commistione con l’attività mafiosa, che non sia stata conosciuta la caratura mafiosa del soggetto. Solo in relazione a tali parametri può essere formulato il giudizio di diligenza. Veniva evidenziato che non rispondeva al vero che S. avesse dovuto ripianare il primo debito con la banca a fronte del nuovo e cospicuo finanziamento, poichè il mutuo fondiario di 17 miliardi per esser erogato richiedeva necessariamente una garanzia ipotecaria di primo grado sugli immobili del prevenuto. La necessità di disporre di ipoteca di primo grado era coessenziale alla concessione del finanziamento con le forme del mutuo fondiario. Ragione per cui non fu corretto ritenere che solo con la concessione del mutuo il cliente fu in grado di estinguere la precedente anticipazione bancaria, poichè è vero semmai che fino alla concessione del mutuo fondiario lo S. non aveva motivo di procedere all’estinzione dell’anticipazione. Veniva poi evidenziato che della destinazione d’uso dell’immobile non si tenne conto in sede di stima del bene, di talchè nessun appunto di negligenza può essere mosso. Così come quanto alle ragioni del ritardo (fino al 1996) per la riscossione del credito, atteso che la S. in bonis preferì ritardare il passaggio a sofferenza di crediti così ingenti per non aggravare la propria posizione di squilibrio di bilancio: tale comportamento seppure imprudente non avrebbe nulla a che vedere con una mala fede nella concessione degli affidamenti allo S.. Del resto la S. in bonis fu soggetta a due verifiche ispettive della Banca d’Italia che non ebbero a segnalare alcun rilievo critico in relazione a tale pratica.
2.3 illogicità della motivazione, nella parte in cui è stato detto che allo S. venne accordato un finanziamento superiore rispetto a quello erogato al gruppo del fratello S.:
S. ebbe a finanziare un’operazione immobiliare proposta da un cliente con cui aveva rapporti da dieci anni, cosicchè l’importo del mutuo risultava in linea con il costo di costruzione dell’edificio di cui alla concessione edilizia (stimato in 34 miliardi); non solo, ma l’erogazione prevedeva somministrazioni graduali, da subordinare alla certificazione dello stato di avanzamento lavori, laddove altri parenti ottennero mutui di natura diversa perchè diverse furono le operazioni da finanziare.
2.4 carenza assoluta di motivazione in relazione alle circostanze addotte da S. a riprova della propria buona fede: la sentenza che ebbe a condannare per riciclaggio lo S. aveva sottolineato che il prevenuto aveva avuto rapporti con l’organizzazione mafiosa solo in occasione dell’operazione di via (OMISSIS) e cioè solo per quanto riguarda l’immobile ipotecato in favore di S.. Nell’ambito del processo era stato acquisito il dato dell’estraneità dello S. ai circuiti mafiosi, ancorchè avesse accettato un rapporto societario con G.R., del quale peraltro ignorava le attività criminose gestite. Secondo la difesa quindi era dimostrato come la S. fosse del tutto estranea a qualsivoglia disegno criminoso, avendo operato un incolpevole affidamento nella piena liceità e regolarità dell’operazione sottostante al finanziamento erogato.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
4. E’ stata depositata memoria, in data 14.1.2013 , con cui è stato obiettato alle conclusioni assunte dal PG con parere scritto che il ricorso presentato non è fondato su ragioni di merito, non essendo stato contestato il valore probatorio dei dati acquisiti, quanto sull’Illogicità dell’iter argomentativo secondo cui la banca avrebbe dovuto trarre dai legami parentali del debitore elementi per sospettare della bontà dell’operazione. Tanto più che la misura di prevenzione che aveva colpito il fratello del ricorrente era risalente nel tempo e che il ricorrente non era in affari con quest’ultimo. Non sarebbe poi stato valutato quali conseguenze sarebbero derivate alla banca se solo avesse interrotto l’operazione economica in questione , per il semplice fatto che il fratello dello S. era chiacchierato, rischiando di incorrere nella revoca abusiva di affidamenti. E’ stato poi ribadito che da parte della banca non vi fu mala gestio, poichè si ha riguardo ad operazione economica che poteva essersi rivelata un insuccesso, ma non per questo era significativa di mala fede, tanto più ove si consideri che S.F. ebbe un solo ed episodico fatto di devianza, nel 2000, ragione per cui la sua condotta non poteva mettere in allarme.
Motivi della decisione
Il ricorso va dichiarato inammissibile perchè si incentra su profili di valutazione che vanno al di là del perimetro delineato dalla L. n. 1423 del 1956, art. 4, comma 11. Il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione, in coerenza con la natura e la funzione del relativo procedimento, è limitato, infatti, alla violazione di legge e non si estende al controllo del discorso giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante, nel qual caso si profilerebbe il vizio di violazione di legge. Sul punto è appena il caso di ricordare che la limitazione del ricorso alla sola "violazione di legge" è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale non irragionevole (sent. n. 321/2004), data la peculiarità del procedimento di prevenzione, sia sul piano processuale che su quello sostanziale. Detto ciò va subito aggiunto che la società ricorrente, seppure abbia denunciato formalmente anche il vizio di violazione ed erronea applicazione di legge, in sostanza contesta la motivazione del provvedimento impugnato, nella chiara prospettiva di accreditare una diversa interpretazione delle circostanze di fatto emerse e di depotenziare gli elementi posti a base del giudizio che avevano indotto ad ipotizzare una mala fede in capo agli operatori della banca che elargirono un credito eccessivamente elevato e soprattutto non sufficientemente garantito a soggetto (lo S.) in grado di destare sospetti in ragione dei legami parentali con persone contigue ad ambienti mafiosi e che si rivelò a sua volta coinvolto con esponenti di Cosa Nostra proprio nell’acquisto dei terreni in questione. Il provvedimento impugnato è sorretto da un apparato argomentativo corretto e correlato alle risultanze in atti, le quali sono state apprezzate e valutate nel pieno rispetto dei parametri normativi di riferimento, ragion per cui non può parlarsi di motivazione mancante o apparente e quindi di violazione di legge. Infatti, il tribunale nel suo provvedimento non si è sottratto alla valutazione degli argomenti opposti dalla S. in sede di opposizione, avendo offerto una serie di argomenti con attitudine dimostrativa non già di leggerezza e superficialità nell’operato della banca, ma rappresentativi di mala fede proprio in ragione della mancanza di spiegazioni alternative: si pensi alla consistenza della cifra corrisposta (L. 17 miliardi) in base ad un ipotetico cambio di destinazione dell’edificio che avrebbe consentito di realizzare l’opera edilizia con alta redditività (nel 1992), al ritardo con cui la banca iniziò a recuperare il credito, alle vicende giudiziarie che avevano coinvolto il fratello di S.F. fin nella metà degli anni ottanta e che quindi, a prescindere da ogni altra considerazione, non potevano che destare allarme anche sul congiunto, inducendo a maggiore cautela nell’erogazione di una simile provvista.
Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso ; a tale declaratoria, riconducibile a colpa della ricorrente , consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2013

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