Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 01-08-2012, n. 13798

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Genova, con sentenza n. 975 del 2007, riconobbe le indennità di esproprio dovute dal Comune di L. ad S. I. ed a L.M.T., ordinandone il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti. L’atto di precetto notificato al Comune rimase ineseguito.
I creditori, quindi, proposero ricorso ex art. 612 c.p.c., al giudice dell’esecuzione del tribunale di Chiavari, affinchè determinasse le modalità di esecuzione dell’obbligo di fare scaturente dalla sentenza della Corte di merito.
Il Comune, costituitosi, eccepì il difetto di giurisdizione del giudice adito, che riteneva appartenere al giudice dell’ottemperanza.
Con ordinanza del 20.10.2009, il giudice dell’esecuzione, ritenuta sussistere la propria giurisdizione, ordinò "al Comune di L., in persona del suo sindaco in carica, di depositare presso la Cassa Depositi e Prestiti la somma portata dall’atto di precetto notificato in data 13.01.2009 e cioè Euro 1.214.421,56 oltre gli interessi successivamente maturati". Avverso tale ordinanza il Comune propose opposizione agli atti esecutivi sostenendo che il giudice dell’esecuzione, rilevandolo d’ufficio, avrebbe dovuto declinare la propria giurisdizione in favore di quello amministrativo, per l’obbligatorietà del ricorso al giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo; ma l’opposizione agli atti esecutivi – così qualificata dal giudice dell’esecuzione – fu rigettata con sentenza del 19.11.2010.
Ritenne, infatti, quest’ultimo giudice infondato il rilievo proposto dal Comune poichè, trattandosi di eseguire un titolo ordinato da una sentenza del giudice ordinario, relativa, quindi, ad un diritto soggettivo, il ricorso al giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo era un rimedio del tutto complementare; fissando, quindi, il termine per la riassunzione della causa davanti al giudice dell’esecuzione.
Ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi illustrati da memoria il Comune di L..
Resistono con controricorso lo S. e la L..
Motivi della decisione
In via preliminare, attenendo all’ammissibilità del mezzo d’impugnazione proposto – con evidenti ricadute sul piano della tempestività e della corretta individuazione delle successive impugnazioni – non può convenirsi con i resistenti sulla natura di sentenza dell’ordinanza pronunciata il 20.10.2009 dal giudice dell’esecuzione, con la sua conseguente impugnabilità con l’appello – trattandosi di provvedimento depositato successivamente al 4.7.2009, data di entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 616 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009 – , e non con la proposta opposizione agli atti esecutivi.
A tal fine, deve evidenziarsi che, in tema di esecuzione forzata, l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 612 c.p.c., determina le modalità dell’esecuzione forzata di una sentenza per violazione di un obbligo di fare o di non fare, sì caratterizza come un provvedimento con il quale vengono fissate le regole dello svolgimento del procedimento esecutivo e, quindi, non attiene al diritto della parte di procedere all’esecuzione, bensì ai modi con cui questa deve essere condotta; con la conseguenza che essa è soggetta soltanto al rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi per eventuali vizi formali; mentre il provvedimento con cui il giudice, anche se in forma di ordinanza (come espressamente indicato nell’art. 612 c.p.c.), nel determinare le modalità dell’esecuzione, dirima una controversia insorta fra le parti in ordine alla portata del titolo esecutivo ed all’ammissibilità dell’azione esecutiva intrapresa, ha natura sostanziale di sentenza in forza del suo contenuto decisorio sul diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, cioè su una opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., proposta dall’esecutato o rilevata d’ufficio dal giudice;
ed è, pertanto, impugnabile con l’appello (Cass. 9.3.2012 n. 3722).
Nel caso in esame, con l’ordinanza del 20.10.2009, il giudice dell’esecuzione aveva dichiarato che la giurisdizione apparteneva al giudice ordinario; che oggetto della tutela erano diritti soggettivi;
che la domanda proposta dai creditori esecutanti non ledeva i poteri discrezionali della pubblica amministrazione, ordinando, ai sensi dell’art. 612 c.p.c. al Comune, in persona del sindaco, il deposito delle somme dovute.
A questo proposito, deve anche evidenziarsi che la risoluzione della questione di giurisdizione da parte del giudice dell’esecuzione è questione che incide sulla concreta realizzabilità della tutela del creditore, e, quindi, attiene al merito dell’azione esecutiva, e non incide sulla giurisdizione del giudice ordinario, riconosciuta esclusivamente in dipendenza della posizione di diritto soggettivo azionata dal creditore (v. anche Cass. 5.5.2009, n. 10284; v. anche S.U. 31.3.2006, n. 7578). Nella specie, la pronuncia sulla giurisdizione è funzionale alla indicazione delle modalità di esecuzione dell’obbligo di fare.
Corretta, quindi, è la sua impugnazione con l’opposizione agli atti esecutivi, così qualificata anche dal giudice di merito.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, art. 4; della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 37; del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1. Sostiene il ricorrente l’erroneità della sentenza impugnata per avere ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario, quale giudice dell’esecuzione di obblighi di fare, in violazione delle norme che prevedono, in caso di condanna della pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro, il ricorso allo strumento del giudizio di ottemperanza di cui alla L. n. 1034 del 1971, art. 37, comma 1, ed oggi al D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 7.
Il motivo non è fondato.
Va premesso che il giudizio amministrativo – già previsto dal R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, n. 4, poi L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 37; ed oggi dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 7 – preordinato ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato, ha natura, sotto il profilo della struttura formale, di giudizio di cognizione, anche se può sostanziarsi nella mera esecuzione, in relazione ai contenuti concreti del giudicato al quale l’amministrazione deve ottemperare.
Tale natura discende dal presupporre il giudizio di ottemperanza, talvolta, margini di discrezionalità amministrativa, sempre la possibilità di scegliere i modi concreti di esecuzione, di modo che l’intervento del giudice amministrativo è diretto ad imporre alla pubblica amministrazione di eseguire quanto comandato dal giudicato, sostanzialmente costringendola ad eseguire spontaneamente l’obbligo (S.U. 31.3.2006, n. 7578; S.U. 18.2.1994, n. 1593).
Diversa è la natura del processo di esecuzione disciplinato dal libro terzo del codice di procedura civile.
Il presupposto necessario per la sua instaurazione è l’esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile (art. 474 c.p.c.).
Non vengono, quindi, in considerazione situazioni di obbligo; e ciò perchè alla sentenza di condanna consegue una situazione di soggezione all’esecuzione forzata, che vede il giudice chiamato esclusivamente ad accertare l’esistenza e il contenuto del titolo, ed a controllare e dirigere il procedimento diretto alla soddisfazione delle ragioni del creditore.
L’assenza di profili cognitori comporta, in punto di giurisdizione, che nel giudizio di esecuzione civile non possa in radice porsi un problema di appartenenza della lite alla competenza del giudice ordinario, e ciò perchè non esiste altro giudice competente sulla materia (Cass. S.U. n. 4912/2006 cit.).
E’, infatti, principio pacifico nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che la domanda di esecuzione di una sentenza di condanna della pubblica amministrazione, al pari di quella proposta nei confronti di qualsiasi altro debitore, introduce sempre una controversia di diritto soggettivo, la cui tutela, in fase esecutiva, ed al fine della decisione sulle relative opposizioni proposte, non può che competere al giudice ordinario, senza che rilevi la possibilità della proposizione del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, trattandosi di rimedio complementare, che si aggiunge al procedimento di esecuzione previsto dal codice di rito, spettando poi alla libera scelta del creditore l’utilizzazione dell’uno o dell’ altro (S.U. 31.3.2006, n. 7578; S.U. 18.4.1994, n. 3680; S.U. 18.2.1994, n. 1593; v. anche S.U. 27.7.2011, n. 16390; S.U. 15.7.2008, n. 19345).
Nel caso in esame, i creditori – ai quali, come detto, spetta la relativa valutazione – hanno scelto di percorrere la via dell’esecuzione.
Nè alcun rilievo riveste il richiamo a S.U. 19.12.1990 n. 12026 da parte del ricorrente, posto che, in quella fattispecie – relativa ad indennità di espropriazione -, si è soltanto affermato che quel ricorrente, essendo già stata determinata l’indennità, non aveva diritto a richiedere il decreto ingiuntivo, "pretendendo un pagamento diretto in suo favore", avendo già un titolo per promuovere i successivi atti.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione degli artt. 112 e 612 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.
Si sostiene che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sulla dedotta nullità dell’ordinanza del 20.10.2009 emessa dal giudice dell’esecuzione in relazione alle modalità di esecuzione dell’ordine di deposito della somma dovuta – riproduttive di quelle indicate nella sentenza di condanna della Corte di merito -, e sull’anomalia di dichiarare estinta la procedura esecutiva in difetto di un’apposita norma.
Il motivo, al limite dell’inammissibilità, non è fondato.
I supposti vizi, dai quali sarebbe affetta l’ordinanza richiamata, non rivestono alcuna rilevanza nell’economia della sentenza impugnata la quale, nel rigettare l’opposizione agli atti esecutivi, ha fissato "il termine di gg. 60 per la riassunzione della causa di fronte al Giudice dell’Esecuzione", appunto per l’indicazione delle modalità da seguire ex art. 612 c.p.c.; con ciò implicitamente ponendo nel nulla tutte le statuizioni precedenti.
In questa ottica, non è agevole comprendere l’interesse del ricorrente alla censura proposta, per non avere neppure indicato quale eventuale nocumento i supposti vizi avrebbero causato alla sua linea difensiva.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando a sezioni unite, rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 10.000,00 di cui Euro 9.800,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 19 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *