Cass. civ. Sez. I, Sent., 02-08-2012, n. 13910

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Svolgimento del processo

Il Tribunale di Roma con sentenza del 26 settembre 2002, condannò il comune di Roma al risarcimento del danno nella misura di L.1.760.472.000, calcolato con il criterio della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, per l’avvenuta occupazione espropriativa, nel maggio 1986, di alcuni terreni di proprietà di Ra.Te. e R.R. ubicati in località (OMISSIS) ed estesi mq. 10372, onde realizzare il locale piano di zona; liquidò l’indennizzo per l’occupazione, nel 1981 legittima, e da ultimo senza titolo di una porzione residua estesa mq. 2.619, nella misura di L.302.305.000.

In parziale accoglimento dell’impugnazione del comune, la Corte di appello di Roma, con sentenza del 14 novembre 2005 ha ridotto il danno per l’occupazione acquisitiva alla somma di L.500.065.236 (pari ad Euro 258.262, 14), quello per l’occupazione temporanea (anche illegittima) all’importo di L.112.514.675 (pari ad Euro 58.108, 98) e l’indennizzo per l’occupazione della superficie residua all’importo di L.28.697.690 (legittimai L. 75.761.908 (illegittima), da restituire, osservando: a)che il valore del suolo andava determinato in base agli accertamenti del c.t.u. contenuti nella prima relazione, ove con il metodo sintetico-comparativo era stato valutato in L.95.000 mq., nell’anno 1988, corrispondente all’ammontare di L.87.000 nell’anno 1986; mentre nelle successive relazioni era stato erroneamente stimato con riferimento al mercato immobiliare dell’anno 1999; b)che la superficie residua non poteva ritenersi acquisita dal comune di Roma per effetto della occupazione espropriativa, perchè rimasta del tutto inutilizzata.

Per la cassazione della sentenza, le Ra. – R. hanno proposto ricorso per tre motivi; cui ha resistito il comune di Roma con controricorso, con il quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per un motivo.

Motivi della decisione

Con il ricorso incidentale, da esaminare con precedenza, il Comune di Roma censura la sentenza impugnata per aver confermato la restituzione agli espropriati, del terreno residuo esteso mq. 2619, senza considerare, da un lato che se ne era verificata l’irreversibile trasformazione quanto meno in strutture di completamento del piano (strade, fognatura ecc.); e dall’altro che anche questa superficie era inclusa nel piano di zona, da valutare, quindi nel suo complesso, poichè lo stesso prevede una cubatura edificabile, con la localizzazione delle opere residenziali, mentre le altre parti vengono utilizzate per i servizi delle stesse; delle quali dunque continua a far parte pur restando materialmente in edificata.

Il motivo è infondato.

La Corte di appello ha accertato che le aree in questione, pur dopo la esecuzione delle opere previste dal piano su quelle vicine, sono rimaste del tutto inutilizzate;e che non sono state adibite neppure a verde attrezzato o a parcheggi e comunque al completamento delle strutture realizzate nell’ambito del Piano. Per cui ne ha correttamente escluso la irreversibile trasformazione in taluno dei beni pubblici programmati dalla dichiarazione di p.u., costituente come è noto, uno dei fondamentali presupposti onde configurare la cd. occupazione espropriativa: (Cass. sez. un. fin da: 1464/1983;

3940/1988): confusa invece dal comune di Roma con i vincoli preordinati all’espropriazione, conseguenti all’approvazione di un piano di zona (L. n. 167 del 1962, art. 9) o di un piano particolareggiato o di altro strumento urbanistico attuativo, onde consentire alla p.a. senza necessità della ulteriore approvazione del progetto dell’opera richiesta dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, lo svolgimento di un procedimento ablatorio nonchè la futura acquisizione degli immobili che ne sono oggetto, alla mano pubblica.

La quale poteva e doveva conclusivamente verificarsi soltanto attraverso gli istituti al riguardo previsti dal legislatore, quali il decreto di esproprio, il contratto di cessione volontario, ovvero la irreversibile trasformazione del terreno per la finalità di edilizia residenziale pubblica stabilita dal piano e nel caso, invece, non verificatasi (L. n. 458 del 1988, art. 3).

Con il ricorso principale, che si articola in tre motivi, le proprietarie, deducendo violazione della L. n. 259 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, artt. 61 e 195 cod. proc. civ., nonchè difetti di motivazione, censurano la sentenza impugnata per la valutazione riduttiva dei loro terreni più non coincidente con il loro effettivo valore venale, in quanto: a) aveva immotivatamente abbattuto il prezzo di mercato calcolato in Euro 70, 12 mq. fino a ridurlo ad Euro 24,90 mq.; b) aveva disatteso senza alcuna motivazione la stima compiuta dal c.t.u., aderendo a valori assai più ridotti perchè concordati direttamente dai proprietari sulla base dei prezzi calcolati dall’UTE in vista dell’espropriazione; per poi abbatterli nuovamente onde adeguarli all’anno 1986; c) non aveva peraltro considerato che l’espropriazione era stata attuata illegittimamente, e non attraverso una procedura legittima.

Le censure vanno accolte nei limiti appresso precisati. E’ anzitutto irrilevante ai fini della valutazione dei fondi che l’espropriazione si sia conclusa in modo anomalo attraverso l’istituto della cd.

occupazione appropriativa, piuttosto che tramite decreto ablativo in quanto le due tipologie si distinguono secondo il precetto contenuto nell’art. 42 Cost. (Corte Costit. 188/1995; 349/2007) soltanto perchè nelle prime l’indennizzo, avendo natura risarcitoria, va commisurato necessariamente al controvalore pieno dell’immobile:

ferma rimanendo la soggezione di entrambe al precetto della ricognizione legale del terreno che impone di tener conto delle possibilità legali di edificazione di cui al comma 3, art. 5 bis (oggi recepito dagli artt. 32 e 37 del T.U.), sussistenti al momento della vicenda ablativa quali offerte dagli strumenti urbanistici, posto che l’indubbia diversità funzionale (e di presupposti) tra le due indennità nell’una e nell’altra espropriazione se può comportare l’adozione di due criteri di stima differenti per la loro quantificazione, non vale certamente a restituire ad un immobile qualità giuridiche e valore di mercato che lo stesso non possiede.

Non è poi esatto che la Corte di appello si sia discostata immotivatamente dalla stima dei terreni proposta dal c.t.u. con le relazioni successive alla prima, avendo invece, osservato che in esse la ricognizione legale del terreno e la relativa valutazione erano state compiute nell’anno 1999: perciò in epoca affatto diversa, soprattutto, sotto il profilo urbanistico da quella sussistente al momento della irreversibile trasformazione dei terreni (anno 1986), in cui il piano di zona era ancora in via di realizzazione.

Ed a tale errore, già decisivo, ne aveva aggiunto un secondo per avere adeguato il valore ottenuto all’anno 1986 in base agli indici ISTAT per il rilievo del costo della vita: e cioè con parametri aventi tutt’altra funzione, avendo la giurisprudenza di legittimità ripetutamente affermato che il mercato immobiliare risente, invece, di variabili macroeconomiche diverse dalla fluttuazione della moneta nel tempo, anche se a questa parzialmente legate, e di condizioni microeconomiche dettate dallo sviluppo edilizio di una determinata zona, e queste sono completamente avulse dal valore della moneta. E che l’andamento del mercato immobiliare, dunque, non può essere ricostruito in base alle modificazioni nel tempo del valore della moneta, ma richiede un’indagine specifica nel settore, anche perchè gli indici Istat riflettono le variazioni dei prezzi al consumo, ma non tengono conto delle quotazioni di mercato degli immobili (Cass. 14031/2000; 8706/2006; 24857/2006; 3189/2008). Per cui ne è scaturita una stima del tutto arbitraria, giustamente disattesa dalla sentenza impugnata, che ha invece recepito quella contenuta nella prima relazione, attuata in base al metodo cd. sintetico-comparativo.

D’altra parte, questa Corte, ha ripetutamente affermato che il metodo suddetto è incentrato sulla ricognizione di prezzi storici e certi che, in ragione della loro rappresentatività, si porgono come idonei parametri di determinazione del valore da attribuire al bene oggetto della stima. E siffatta rappresentatività si configura esclusivamente allorquando i prezzi di confronto riguardino terreni forniti di caratteristiche, per lo meno, analoghe a quelle proprie dell’immobile da valutare, perciò attinenti sia alla disciplina urbanistica delle rispettive zone di appartenenza sia alla morfologia, nonchè ad ogni altra caratteristica dei beni considerati (giacitura, natura geologica, conformazione orografica, accessibilità, ecc), sia infine al periodo di tempo in cui ne è avvenuta la stima. Per cui ciò che rileva non è la categoria degli atti da cui desumere il probabile valore di mercato dell’area, che non costituisce un numero chiuso necessariamente coincidente con i contratti di compravendita e con le decisioni giudiziali, bensì il preventivo motivato riscontro della rappresentatività dei dati utilizzati per la comparazione, e cioè l’accertamento che essi riguardino terreni muniti di caratteristiche analoghe, tanto con riferimento al dato temporale ed alla loro obiettiva natura ed ubicazione, quanto in relazione alla disciplina urbanistica cui sono soggetti: il prezzo di mercato può essere quindi tratto anche da fonti diverse, quali cessioni volontarie, perizie giudiziarie, o accertamenti di valore di natura fiscale o ancora da pubblicazioni specializzate del settore, e quindi a maggior ragione da precedenti stime dell’UTE di terreni dello stesso Piano, nonchè da accordi conclusi con i proprietari, semprecchè gli immobili che ne sono stati oggetto presentino indubbio carattere di omogeneità nei sensi appena indicati con l’immobile da stimare (Cass. 3175/2008;

6122/1990; 4583/1990). La sentenza impugnata ha invece errato laddove ha recepito, per un verso, il prezzo di mercato di L.95.000 mq.

accertato dal ct. con riferimento all’anno 1988;ma poi lo ha devalutato al maggio 1986 in base al coefficiente ISTAT 1, 8181 relativo all’aumento del costo della vita, e così pervenendo all’importo di L.87.172 mq. dopo avere osservato che in quel biennio non risultavano essersi verificati mutamenti significativi nel mercato immobiliare della zona. Per cui, oltre ad avere ripetuto il medesimo errore rimproverato al proprio ausiliario, è incorsa in una palese illogicità, non potendosi sfuggire alla seguente alternativa:

o nel biennio 1986-1988 il mercato immobiliare della zona non aveva registrato significative variazioni, ed allora doveva applicarsi il prezzo accertato dal c.t.u. in L.95.000 mq. proprio perchè lo stesso rispecchiava anche quello dei due anni precedenti. Ovvero vi sono stati reali e consistenti mutamenti, che, per quanto detto non potevano essere calcolati con i dati accertati dall’ISTAT, ma soltanto ricavati attraverso dati di comparazione relativi al mercato immobiliare della zona nell’anno 1986. Nelle more, del giudizio, infine, la Corte Costituzionale con sentenza 349 del 2007 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 7 bis del menzionato art. 5 bis: perchè la norma, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117 Cost., comma 1.

Pertanto a seguito di dette declaratorie di incostituzionalità dal giorno successivo alla pubblicazione della declaratoria di incostituzionalità (art. 136 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 3), non è più possibile applicare il meccanismo riduttivo suddetto; ed è stato ripristinato l’originario criterio di stima dell’indennizzo dovuto al proprietario che ha subito l’occupazione appropriativa, corrispondente al valore venale pieno dell’immobile espropriato (L. n. 2359 del 1865, art. 39): sì da raggiungere, secondo la Corte Costituzionale, "la sua massima estensione consentita"in luogo del "massimo di contributo di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse, la pubblica amministrazione può garantire all’espropriato" nell’ipotesi di trasferimento coattivo in cui sia osservata la sequenza procedimentale stabilita dalla legge.

Per cui il giudice di rinvio nella determinazione dell’indennizzo risarcitorio dovuto alle espropriate per l’occupazione acquisitiva dovrà attenersi a quest’ultimo criterio più non potendo applicare quelli riduttivi utilizzati dalla Corte di appello: fermo restando il limite di L. 1.760.472.000 (pari ad Euro 909.207,91) loro attribuito a tale titolo dal giudice di primo grado, posto che nessuna di esse ha impugnato detta decisione: appellata invece dal solo comune di Roma.

Pertanto se è vero che dopo questa decisione il criterio riduttivo applicato dal Tribunale per determinare l’indennizzo suddetto è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla menzionata decisione 349/2007 della Corte Costituzionale, è pur vero che la Ra. e la R. hanno fatto acquiescenza alla liquidazione;

sicchè la relativa questione, consolidatasi in primo grado, non può essere riesaminata e risolta a loro favore, essendo stato l’appello proposto dalla sola amministrazione espropriante; e non potendo la declaratoria di incostituzionalità comportare l’introduzione di una eccezione al corollario generale che regola il rapporto tra i due gradi del giudizio di merito, nonchè quello di legittimità in relazione a quello di merito. La sentenza impugnata va pertanto, cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte di appello di Roma che si atterrà ai principi esposti e provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, accoglie per quanto di ragione i primi due motivi del principale, rigetta il terzo, nonchè l’incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

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