Cass. civ. Sez. I, Sent., 02-08-2012, n. 13904

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Svolgimento del processo
Il signor C.C. citò in giudizio, davanti al Tribunale di Pesaro, la signora C.F., e chiese che fosse accertato l’inadempimento della convenuta all’obbligo contrattualmente assunto, e discendente dall’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s. – del quale le parti detengono l’intero capitale sociale, l’attore quale accomandatario con la quota del sessanta per cento, e la convenuta quale accomandante con la quota del quaranta per cento – di deliberare in qualsiasi momento e a richiesta di qualsiasi socio la trasformazione della s.a.s. in società a responsabilità limitata; e che fosse emessa una sentenza che tenesse luogo della deliberazione non assunta. La convenuta resistette alla domanda. Il tribunale adito qualificò la clausola dello statuto come patto parasociale, respinse la domanda attrice in ragione della natura obbligatoria e non reale di essa, e respinse altresì quella di accertamento dell’inadempimento per difetto d’interesse.
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza 20 settembre 2010, ha respinto l’appello dell’attore. La corte ha ritenuto che la clausola dovesse soggiacere alla disciplina propria dei patti parasociali, la cui natura meramente obbligatoria è imposta dall’impedimento che essi comportano per il socio stipulante di determinarsi autonomamente in assemblea, e dallo svilimento dell’organo assembleare che ne consegue. La necessaria pienezza dell’autodeterminazione del socio è salvaguardata dall’efficacia meramente obbligatoria, che confina le conseguenze dell’inadempimento del patto ai rapporti interni tra gli stipulanti, senza coinvolgere la società, con esclusione pertanto della coercibilità in forma specifica e l’ammissibilità della sola sanzione risarcitoria. Questa disciplina, prosegue la sentenza di appello, non discende dalla diversità del piano in cui si pone l’accordo parasociale rispetto a quello sociale, e, comunque si ricostruisca la fattispecie genetica, la preclusione opera sul piano della tutela, essendo l’eventuale resipiscenza del socio riguardo alla convenienza sociale degli impegni assunti incompatibile con il rimedio dell’esecuzione in forma specifica. Quanto poi al terzo motivo di appello, con il quale si censurava l’affermazione dell’inammissibilità della domanda di accertamento dell’inadempimento della convenuta anche in vista dell’interesse dell’appellante all’adempimento, la corte ha osservato che non è configurabile un accertamento incidentale rispetto a una materia che inerisce al fatto costitutivo del diritto dell’attore.
Per la cassazione di questa sentenza non notificata, ricorre il signor C.C. con atto notificato il 10 febbraio 2011, per tre motivi, illustrati anche con memoria.
La signora C.F. ha depositato controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si censura per violazione dell’art. 2932 c.c. e falsa applicazione dell’art. 2341 bis c.c. l’impugnata sentenza, che ha qualificato la clausola contenuta nell’art. 8 dello statuto della s.a.s. come patto parasociale, ha richiamato il disfavore dell’ordinamento per le obbligazioni a tempo indeterminato e la necessità che sia garantita l’autodeterminazione del socio, per concludere che i patti parasociali, anche se contenuti nello statuto sociale, avrebbero efficacia meramente obbligatoria, incompatibile con l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. Si deduce che:
– l’art. 8 dello statuto era stato modificato con atto pubblico intervenuto tra i due soci, che rappresentavano l’intero capitale sociale;
– nelle società di persone non v’è l’interposizione della struttura organizzativa societaria;
– il cosiddetto statuto sociale è qualificabile piuttosto come un patto sociale, che meglio evidenzia nominalmente la diversità tra la struttura corporativa delle società di capitale rispetto a quella contrattuale della società di persone;
– indipendentemente dalle espressioni utilizzate dalle parti nell’art. 8 dei patti sociali, si deve parlare di consenso, e non di voto o di delibera, perchè il metodo collegiale è escluso laddove i partecipanti operano uti singuli e non uti soci, in un rapporto contrattuale del quale essi sono i diretti titolari;
– in tale situazione non sussiste quella terzietà soggettiva che impedirebbe alla sentenza pronunciata ex art. 2932 c.c. di trovare applicazione, tenuto conto della giurisprudenza, che ha ripetutamente affermato l’applicabilità della citata disposizione in tutti i casi di violazione di obblighi a contrarre che trovino fondamento nella legge o in un titolo negoziale anche diverso dal contratto preliminare;
– l’esponente non aveva rivendicato il mero adempimento dell’obbligazione a deliberare, come supposto dalla corte territoriale che aveva pertanto erroneamente assimilato il caso in esame a quello di un sindacato di voto, ma l’emanazione di una sentenza costitutiva che producesse gli stessi effetti del contratto concluso, cioè la trasformazione della società in accomandita semplice in società a responsabilità limitata.
Con il secondo motivo si censura la falsa applicazione dell’art. 2341 bis c.c.. Si sostiene che la natura e il contenuto dell’accordo contenuto nell’atto pubblico di modifica dell’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s. non erano in alcun modo riconducibili a un sindacato di voto, nè a un patto parasociale, che si porrebbe a latere rispetto alle norme societarie vincolando soltanto i soci sottoscrittori, con efficacia per ciò stesso esclusivamente obbligatoria, ma un patto sociale stipulato dagli unici due soci della società in accomandita semplice, al quale la convenuta si era resa inadempiente.
I due motivi vertono sul punto comune della qualificazione del patto invocato a fondamento della domanda, e della sua efficacia reale.
Essi possono essere esaminati insieme.
Con riferimento alla qualificazione del patto per cui è causa, contenuto nell’art. 8 dello statuto della Franca finanziaria di C. C.i & C. s.a.s., modificato con atto pubblico intervenuto tra i due soci inserito, le censure del ricorrente sono in parte fondate, ancorchè, come meglio si dirà in seguito, ciò non giustifichi la cassazione dell’impugnata sentenza, richiedendo soltanto una correzione della motivazione in punto di diritto, a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c..
E’ da premettere che il contratto di società, pur essendo un contratto con comunione di scopo in relazione all’attività da svolgere in comune, è idoneo a far sorgere in capo ai soggetti che vi prendono parte reciproche obbligazioni, il cui inadempimento genera responsabilità. E’ inoltre indubbio che tali clausole obbligatorie possano essere contenute – come nel caso qui esaminato – nello statuto, che è parte integrante del contratto. Si deve poi ricordare che la validità del preliminare de ineunda societate è riconosciuta da una giurisprudenza risalente e consolidata che, con riferimento al caso della costituzione di società di persone, ha avuto altresì occasione di affermare l’ammissibilità dell’esecuzione in forma specifica, se ciò sia possibile e non sia escluso dal titolo (Cass. 3 gennaio 1970 n. 8). La giurisprudenza di legittimità, inoltre, ha riconosciuto la validità del preliminare anche per la costituzione di una società di capitale (Cass. 2 agosto 1950 n. 2310, 5 ottobre 1953 n. 3177, 11 aprile 1975 n. 1365, 30 marzo 1982 n. 1990, 28 gennaio 1986 n. 550, 18 gennaio 1988 n. 321), ma non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sulla possibilità di esecuzione del contratto in forma specifica.
In questo quadro, l’inserzione – in forza di atto pubblico stipulato tra gli unici due soci – del patto preliminare nello statuto della società da trasformare non giustificherebbe di per sè una soluzione che negasse l’ammissibilità del patto. Si deve anche convenire che nelle società di persona non v’è un organo sociale come l’assemblea, che è governata dal principio della maggioranza, e nella quale possa farsi questione – propriamente – di incoercibile libertà di voto del socio.
Occorre tuttavia, a giustificazione della soluzione alla quale la corte territoriale è pervenuta, considerare due punti decisivi.
Innanzi tutto, la giurisprudenza di questa corte ha costantemente sottolineato che la validità del contratto de ineunda societate è condizionato alla predisposizione, nel preliminare, di tutti gli elementi essenziali del contratto da stipulare, non potendosi supplire alla carenza di tali elementi, riservati all’autonomia negoziale delle parti, con una determinazione giudiziale (per la più recente applicazione del principio, Cass. 18 giugno 2008 n. 16597).
Trattandosi di trasformare la società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata, gli elementi essenziali richiesti dall’art. 2500 c.c., comma 1 sono quelli indicati nell’art. 2462 c.c.. E’ sufficiente, a questo proposito, considerare la necessità di indicare nell’atto costitutivo il capitale della società, da determinare con le modalità indicate nell’art. 2500 ter c.c., per comprendere come la sentenza che prenda luogo del consenso dei soci alla trasformazione della società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata non sia sufficiente ad realizzare direttamente lo scopo dei contraenti.
Ma è poi vero anche che il preliminare di costituzione di una società di capitale pone problemi assai diversi da quanto avviene nel caso della costituzione di società di persone, se solo si abbia riguardo alla verifica dei presupposti di legge per la stipulazione dell’atto e agli adempimenti successivi richiesti per l’attribuzione della personalità giuridica, e che questi problemi – sia pure per ragioni diverse da quelle, valorizzate dal giudice di merito, che sono state esaminate dalla giurisprudenza a proposito dei sindacati di voto – costituiscono delle controindicazioni all’applicabilità dell’art. 2932 c.c.. Se si circoscrive l’esame al caso, oggetto della presente controversia, del patto avente ad oggetto la trasformazione di una società di persone in una società a responsabilità limitata, appare manifesto che l’art. 2500 ter c.c. postula – con una norma del tutto speciale rispetto alla disciplina delle modificazioni dell’atto costitutivo delle società di persone, che esigono l’unanimità – una decisione della maggioranza dei soci, che pur non essendo assunta in un’assemblea propriamente detta, esprime una volontà collegiale alla quale – perchè tale e perchè proveniente dalla maggioranza dei soci – la legge attribuisce eccezionalmente l’effetto di incidere sul diritto degli altri soci all’esecuzione del contratto sociale; sicchè si è fuori del comune schema contrattuale contemplato nell’art. 2932 c.c., comma 1. Il risultato perseguito, della trasformazione della società, non scaturisce dallo scambio dei consensi tra parti diverse di un contratto, ma è l’esito di una manifestazione di volontà collettiva la cui definizione e la cui stessa formazione sono inconcepibili fuori della cornice di un preesistente organismo, che è terzo rispetto ai promittenti;
sicchè, sebbene non possa propriamente parlarsi di maggioranze assembleari, si può dire che il legislatore ha configurato la fase di passaggio da un tipo all’altro anticipando criteri e forme decisionali del tipo societario al quale il procedimento è preordinato, più che a quello di provenienza, per il quale soltanto varrebbero gli argomenti del ricorrente intesi a valorizzare l’aspetto contrattualistico delle società di persone.
In altre parole, il cosiddetto preliminare di trasformazione, stipulato tra i due unici soci della società in accomandita semplice, non prelude ad un contratto definitivo, ma ad un atto unilaterale interno all’organismo societario, sì che il giudice sarebbe chiamato non già a decidere sul contrasto tra la parte che chiede e quella che rifiuta l’adempimento, ma a surrogarsi nella decisione interna della stessa società, di trasformarsi da un tipo all’altro.
Sono queste le ragioni che dissuadono dal seguire l’odierno ricorrente nel tentativo di valorizzare la circostanza di mero fatto che, in questo caso, al preliminare avevano partecipato entrambi i soci i quali, insieme, detenevano l’intero capitale sociale; ciò che dovrebbe consentire di ricostituire la perfetta corrispondenza tra la volontà manifestata dai promittentì e il contenuto della sentenza pronunciata a norma dell’art. 2932 c.c.. Del resto, proprio la specificità del caso in esame contraddice l’assunto: la circostanza che l’altra socia avesse manifestato la volontà di recedere dalla società, e di ottenere la liquidazione della sua quota di minoranza (così esercitando, anche in relazione alla possibile successiva trasformazione, un diritto oggi consacrato dall’art. 2500 ter c.c., comma 1) ripropone, infatti, il tema della sentenza che, lungi dal dare attuazione alla comune volontà contrattuale delle parti, privilegia la volontà del socio che agisce per la trasformazione della società, rispetto a quella di recedere precedentemente manifestata dall’altro socio.
In conclusione, i due motivi di ricorso devono essere respinti in base al principio di diritto, che il contratto preliminare di trasformazione di una società in accomandita semplice in una società a responsabilità limitata, intervenuto tra i soci, è insuscettibile di esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932 c.c., non potendo supplire al procedimento previsto dagli artt. 2500 e 2500 ter c.c..
Con il terzo motivo si censura, per insufficienza di motivazione, l’affermazione del giudice d’appello, che non fosse consentito l’accertamento – espressamente richiesto anche in grado d’appello – dell’inadempimento della convenuta alla norma statutaria, risultante da verbale per atto pubblico depositato nel giudizio.
La censura dovrebbe appuntarsi sull’argomento di diritto con il quale la corte ha respinto la tesi dell’appellante richiamando la giurisprudenza di legittimità, che esclude l’accertamento incidentale rispetto ad una materia inerente al fatto costitutivo del diritto dell’attore. Trattandosi di motivazione in diritto, essa doveva essere censurata con il mezzo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando la validità del principio di diritto enunciato dalla corte d’appello, oppure la sua applicabilità al caso di specie. Rispetto alla motivazione che sorregge la decisione impugnata, come in genere in relazione alle questioni di diritto, la censura di vizio della motivazione è inammissibile.
In conclusione il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio sono compensate, in ragione della mancanza di puntuali precedenti in termini.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso a Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 9 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

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