Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2012, n. 13889

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 21.2.07 la Corte d’appello di Genova, in riforma della pronuncia emessa in prime cure dal Tribunale di Imperia, dichiarava la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato il 19.10.98, con durata 20.10.98 – 31.1.99, ai sensi dell’art. 8 CCNL del 1994 e successive integrazioni, fra P. I. S.p.A. e G.D. e, per l’effetto, accertava l’esistenza ab origine d’un rapporto di lavoro a tempo indeterminato fra le parti, con le relative conseguenze economiche a decorrere dall’epoca della messa in mora (3.12.03).
Per la cassazione di tale sentenza ricorre P. I. S.p.A. affidandosi a tre motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..
Resiste con controricorso la G..
Motivi della decisione
1 – Con il primo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 32 e dell’art. 1362 c.c. e segg. in relazione all’art. 8 CCNL 26.11.94 come integrato dall’accordo del 25.9.97 e dai successivi accordi correlati, nonchè vizio di motivazione: a riguardo sostiene che l’impugnata sentenza è erronea per non avere considerato che il potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 può esser esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che tale legge non prevede alcun limite temporale al riguardo;
prosegue la ricorrente con il dire che il giudice di appello non avrebbe considerato che gli accordi successivi a quello del 25.9.97 avevano valenza ricognitiva della condizione legittimante in fatto il contratto a termine (ossia la ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto), senza circoscrivere il ricorso a tale strumento solo al periodo temporale considerato, ossia fino al 30.4.98.
Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 1362 c.c. e segg. in relazione all’accordo sindacale del 2.7.98, per aver ritenuto che il termine fissato dalle parti (al 30.4.98 con l’accordo 16.1.98 e poi, con l’accordo 27.4.98 e con l’addendum di cui all’art. 7 CCNL del 1998, al 31.12.98) facesse riferimento alla durata massima dei contratti anzichè al termine entro il quale i contratti a termine potevano stipularsi.
Tali censure, da esaminarsi congiuntamente perchè connesse, sono infondate.
Questa S.C. ha già più volte statuito che la L. n. 56 del 1987, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. n. 230 del 1962, art. 1 e dal D.L. n. 17 del 1983, art. 8 bis (convertito in L. n. 79 del 1983) – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (cfr. S.U. 2.3.2006 n. 4588). Poichè in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo integrativo del 25.9.1997, la giurisprudenza considera corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in data 16.1.98, ha ritenuto che le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31.12.97 (e poi, in base al secondo accordo attuativo, fino la 30.4.98), delle situazioni di fatto legittimanti le esigenze eccezionali menzionate dal detto contratto integrativo.
Ne consegue che, avendo le parti collettive raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed avendo successivamente stipulato accordi attuativi con fissazione di un limite temporale alla possibilità di procedere ad assunzioni a temine, fissato inizialmente al 30.1.98 e poi al 30.4.98, l’indicazione di tale causale nel contratto legittima l’assunzione solo se cada in data non successiva al 30.4.98 (cfr., e plurimis, Cass. 7.9.2007 n. 18838;
Cass. 25.10.07 n. 22352). La giurisprudenza di questa S.C. ha anche ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18.1.2001, in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, quando il diritto si era ormai perfezionato. I contratti stipulati al di fuori del limite temporale del 30.4.98 sono illegittimi, perchè non rientrano nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 e dalle successive disposizioni collettive che consentono la deroga alla L. n. 230 del 1962.
2 – Con il terzo e ultimo motivo di ricorso P. I. S.p.A. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, dell’art. 1362 c.c., comma 2 e dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., per avere negato l’impugnata sentenza che la prolungata inerzia della lavoratrice (oltre cinque anni) prima di attivarsi in sede giudiziaria per mantenere in vita il vincolo contrattuale, nonchè la breve durata del rapporto e la ricezione senza riserve del TFR, dimostrassero la risoluzione per mutuo consenso; la stessa doglianza è in sostanza dedotta, sotto forma di vizio di motivazione, all’interno del medesimo motivo.
La censura è infondata.
Invero, la più recente giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai consolidata nello statuire che "Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contralto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e ex art. 1419 c.c., comma 2, di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione "ex lege " del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti)." (Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. l.2.2010 n. 2279).
Ancora più di recente, Cass. n. 9583/2011 ha ribadito che "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo".
In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10.11.2008 n. 26935;
Cass. 28.9.2007 n. 20390; Cass. 17.12.2004 n. 23554; Cass. 11.12.2001 n. 15621 ed innumerevoli altre.
Aggiunge, ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. ancora, in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).
Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.
Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: "D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007) (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).
Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).
La sentenza impugnata ha correttamente escluso un mutuo consenso alla risoluzione dal decorso del tempo fra la scadenza del rapporto a termine e l’esercizio dell’azione in giudizio da parte del lavoratore e dalla incontestata accettazione del TFR da parte sua: a tale ultimo riguardo, questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del TFR nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di "comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine" (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione).
Lo stesso dicasi della condotta di "chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni" (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione).
3- Non può farsi luogo all’applicazione, sollecitata dalla società ricorrente con la memoria ex art. 378 c.p.c., del sopravvenuto L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7,: invero, per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso è necessario che quest’ultima sia pertinente alle questioni oggetto di censura (in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso: cfr. Cass. 8.5.2006 n. 10547; Cass. 27.2.2004 n. 4070), il che non è nel caso di specie, atteso che i motivi del ricorso di P. I. S.p.A. non hanno investito anche il quantum delle conseguenze economiche del riconoscimento ab origine della natura del rapporto come a tempo indeterminato.
4- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 50,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA, con distrazione delle spese stesse in favore del difensore antistatario della controricorrente.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *