Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2012, n. 13879

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Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza in data 3 ottobre 2006 ha confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda proposta da M.M. nei confronti di P. I. S.p.A. volta ad ottenere la conversione del contratto a termine, relativo al periodo 29 ottobre 1998 – 31 gennaio 1999, in contratto a tempo indeterminato e la condanna di P. I. al pagamento delle retribuzioni maturate a decorrere dalla data di messa in mora.
La Corte territoriale, premesso che dopo la cessazione del rapporto con P. I. S.p.A., il ricorrente aveva instaurato tre nuovi rapporti di lavoro con altri datori di lavoro e che aveva proposto la domanda giudiziale dopo oltre quattro anni dalla cessazione del rapporto con la predetta società, ha ritenuto che la instaurazione dei nuovi rapporti e il silenzio serbato dal ricorrente per un così lungo periodo, non potevano che essere interpretati come espressione di un definitivo disinteresse a far valere la nullità del contratto e, quindi, come tacito consenso alla definitiva risoluzione del rapporto.
Per la riforma della sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di un solo motivo.
P. I. ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato. Ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente va disposta, ex art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso principale e di quello incidentale condizionato.
Con l’unico motivo, corredato dal quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., allora in vigore (tale disposizione è stata abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), a decorrere dal 4 luglio 2009), il ricorrente, denunziando violazione dei principi generali in tema di rinuncia ai diritti nonchè erronea, omessa o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 3), deduce che dalla instaurazione dei nuovi rapporti di lavoro non era lecito desumere una volontà abdicativa del proprio diritto, di cui peraltro egli "non aveva legale conoscenza".
Aggiunge che la mera inerzia o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto non sono di per sè sufficienti al fine della dimostrazione della chiara e certa comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, occorrendo elementi univoci atti a comprovare la rinuncia tacita a quel diritto, nella specie non ricorrenti.
Con il ricorso incidentale condizionato, P. I. S.p.A. lamenta che la Corte territoriale, statuendo solamente sulla intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, ha implicitamente ritenuto che il termine di durata apposto al contratto fosse illegittimo. Sul punto la sentenza di appello, emessa in violazione dell’art. 112 c.p.c., è nulla.
Il ricorso principale non è fondato.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative -una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. L’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi siffatta volontà grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso del rapporto.
E’ stato altresì precisato da questa Corte che la valutazione del significato e della portata del complesso dei suddetti elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (cfr., per tutti tali principi, Cass. 4 agosto 2011 n. 16932; Cass. 11 marzo 2011 n. 5887; Cass. 18 novembre 2010 n. 23319; Cass. 15 novembre 2010 n. 23057; Cass. 13 luglio 2010 n. 16424; Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279).
La Corte territoriale, dopo avere affermato che il mero decorso del tempo e il silenzio tenuto dal lavoratore di per sè non possono considerarsi fatti idonei a configurare una volontà abdicativa a far valere la nullità della clausola appositiva del termine, ha aggiunto che dagli elementi acquisiti al processo era emerso, senza che la circostanza fosse stata contestata, che il ricorrente, dopo la cessazione del rapporto con P. I. S.p.A., aveva instaurato ben tre nuovi rapporti di lavoro, non manifestando alcun interesse a proseguire il rapporto con la predetta società.
Inoltre aveva lasciato trascorrere ingiustificatamente più di quattro anni prima di intraprendere l’azione nei confronti di P. I. .
Il perdurante silenzio tenuto per un così lungo tempo ed il disinteresse alla prosecuzione del rapporto con P. I. , costituivano, ad avviso della Corte di appello, fatti che dimostravano univocamente la volontà di porre fine definitivamente al rapporto.
Trattasi di valutazioni di merito supportate da una motivazione adeguata, logica e non contraddittoria, che non sono suscettibili di sindacato in questa sede, essendo consentita al giudice di legittimità la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logica-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito.
Il ricorso, assorbito quello incidentale, deve pertanto essere rigettato, previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito quello incidentale e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, che si liquidano in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per onorari, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

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