Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza del 13.1.2012, ha confermato la sentenza 9.4.2010 del Tribunale di Avezzano, che aveva affermato la responsabilità penale di C.A. in ordine al reato di cui:
– all’art. 110 c.p., e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, (coltivazione – in concorso con L.L. – di n. 24 piante di canapa indiana, di altezza compresa tra 29 e 128 cm., in una piantagione recintata con rete metallica – acc. in agro di (OMISSIS)) e, riconosciute circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi otto di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, il quale – sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione – ha eccepito: – l’erronea applicazione del principio di offensività, prospettando che, nella specie, le piante non erano giunte a maturazione e, comunque, "il quantitativo di piante e di sostanza stupefacente eventualmente prodotte sarebbe stato talmente irrisorio che avrebbe potuto essere utilizzato soltanto per uso personale";
– l’incongruità del non effettuato giudizio di prevalenza delle riconosciute attenuanti "rispetto all’aggravante";
– la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna.
Motivi della decisione
Il ricorso deve essere rigettato, perchè infondato.
1. Le Sezioni Unite di questa Corte – con la sentenza n. 28605 del 24.4.2008 – hanno affermato il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Hanno affermato pure, però, la necessità, in ogni caso, della verifica – demandata al giudice del merito – dell’offensvità specifica della singola condotta in concreto accertata.
Il principio di offensività – in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa ("nullum crimen sine iniuria") – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, "rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo – applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato" (così testualmente Corte Cost. n. 265/05).
Quanto alla previsione normativa, la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta.
In ossequio, invece, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva si da comportare l’applicabilità della disciplina del reato impossibile ex art. 49 c.p..
In relazione al delitto di coltivazione di piante da sostanze stupefacenti la condotta è "inoffensiva" soltanto se gli interessi tutelati dall’incriminazione penale (la salute, la sicurezza e l’ordine pubblico, secondo l’individuazione operata dalle Sezioni Unite con la sentenza 24.6.1998, Kremi) non sono stati lesi o messi in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicchè la "offensività" non ricorre se la sostanza ricavatole dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
E’ noto al Collegio che un’isolata sentenza di questa Corte (Sez. 6^, 14.1.2009, n. 1222, Nicoletti) ha affermato la non punibilità della condotta di coltivazione di piante da stupefacenti allorchè si tratti di piante non ancora giunte a maturazione e che, quindi, non abbiano ancora prodotto sostanza avente efficacia stupefacente o psicotropa.
Tale principio, però, non può essere condiviso, dovendo considerarsi inaccettabile qualsiasi automatismo interpretativo che escluda sempre e comunque l’offensività per il solo fatto che, in concreto, il ricavato della coltivazione sia risultato non contenere principio attivo stupefacente.
L’inidoneità offensiva della condotta, infatti, deve essere assoluta e non può dipendere da circostanze occasionali e contingenti quale è quella della scoperta della piantagione da parte della polizia giudiziaria. Diversamente opinando si perverrebbe irrazionalmente ad affermare l’irrilevanza penale anche di una coltivazione di notevoli dimensioni per il numero di piante messe a dimora per il solo fatto che essa sia stata scoperta all’inizio del processo di maturazione ed esclusivamente per tale circostanza fattuale sia risultata non caratterizzata dalla presenza di principio attivo.
Nella vicenda che ci occupa, comunque, la Corte di merito ha confutato le argomentazioni dell’appellante con motivazione adeguata e razionale, evidenziando anche che le analisi effettuate presso i laboratori dell’ARTA (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente) dell’Aquila hanno portato all’accertamento della presenza nelle piantine, già nel momento in cui erano state estirpate, di una quantità di principio attivo (tetraidrocannabinolo) pari a 469 mg..
Tale situazione di produzione già attuale di principio attivo drogante, oltre che l’assenza di ostacoli alla futura incrementabilità di una produzione siffatta, rende evidente l’offensività della condotta accertata.
2. La pena è stata determinata con corretto computo delle concesse attenuanti, in una situazione in cui non doveva essere effettuato alcun giudizio di comparazione poichè nessuna aggravante era stata contestata.
3. Il beneficio della non menzione della condanna non era stato richiesto e non costituiva oggetto dell’appello, sicchè sul punto la Corte di merito non aveva un obbligo di motivazione.
4. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013
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