Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 31-01-2013) 16-05-2013, n. 21118

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Svolgimento del processo

La Corte di appello di Torino, con sentenza del 14.3.2012, ha confermato la sentenza 31.3.2011 del Tribunale di quella città, che – In esito a giudizio celebrato con il rito abbreviato – aveva affermato la responsabilità penale di Z.G. in ordine al reato di cui:

– al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, (per avere ceduto a R.G.L., per un corrispettivo di Euro 50,00, una dose di sostanza stupefacente del tipo cocaina – in (OMISSIS)) e lo aveva condannato alla pena di mesi dieci di reclusione ed Euro 2.500,00 di multa.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dello Z., il quale ha eccepito:

a) carenza di motivazione in punto di affermazione della responsabilità;

b) la incongruità del denegato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;

c) la eccessività della pena inflitta.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perchè manifestamente infondato.

1. L’imputato è stato condannato in seguito ad un controllo eseguito dalla polizia giudiziaria (che già lo sospettava di spaccio) dopo l’avvenuta intercettazione di una telefonata nella quale R.G. L. aveva chiesto di incontrario ed aveva concordato con lui un appuntamento in corso (OMISSIS). Gli agenti hanno visto i due giungere a bordo di autovetture separate e scambiarsi qualcosa ed hanno riscontrato che oggetto dello scambio era stata una dose di cocaina, ricevuta dal R. in cambio del corrispettivo di 50,00 Euro.

La motivazione riferita al riconoscimento della responsabilità, nella sentenza impugnata, appare esauriente e corrispondente alle premesse fattuali acquisite in atti, in quanto essa esamina tutti gli elementi decisivi a disposizione e fornisce risposte coerenti alle obiezioni della difesa; mentre le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione dei fatti e dell’attribuzione degli stessi alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.

2. Le attenuanti generiche, nei nostro ordinamento, hanno lo scopo di allargare le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole al reo, in considerazione di situazioni e circostanze particolari che effettivamente incidano sull’apprezzamento dell’entità del reato e della capacità di delinquere dell’imputato.

Il riconoscimento di esse richiede, dunque, la dimostrazione di elementi di segno positivo.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Anche il giudice di appello – pur non dovendo trascurare le argomentazioni difensive dell’appellante – non è tenuto ad una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti ma, in una visione globale di ogni particolarità del caso, è sufficiente che dia l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione.

Nella fattispecie in esame, la Corte di merito, nel corretto esercizio del potere discrezionale riconosciutole in proposito dalla legge – in carenza di congrui elementi di segno positivo – ha dato rilevanza decisiva ai precedenti penali anche specifici dell’imputato, deducendone logicamente significazioni negative della personalità.

3. La pena risulta motivatamente correlata ai criteri di cui all’art. 133 c.p. (oggettiva entità della condotta illecita e personalità negativa dell’imputato).

4. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186, della Corte Costituzione e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria della stessa segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille/00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013

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