Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2012, n. 13857

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Napoli, con la pronuncia emessa il 13 marzo 2009, n. 340/09, a seguito dell’appello proposto da P.G. nei confronti della società Levi Strauss Italia srl, e dell’appello incidentale di quest’ultima avverso il P., in ordine alla sentenza 4 ottobre/2 novembre 2005 del Tribunale di Napoli, accoglieva, in parte, entrambe le impugnazioni.

2. Il P. aveva adito il Tribunale premettendo di avere intrattenuto un rapporto di agenzia con la società in questione a far data dal 16 gennaio 1984 con esclusiva ed in qualità di monomandatario, svolgendo anche altre attività accessorie, e che aveva ricevuto in data 6 novembre 1998 la comunicazione di disdetta del rapporto.

Chiedeva, quindi, che fosse dichiarata la risoluzione del contratto per fatto colposo esclusivo della mandante, e/o per grave inadempimento di quest’ultima, con conseguente condanna al risarcimento dei danni, nonchè al pagamento di una pluralità di somme per titoli diversi, aventi fondamento nel contratto di agenzia.

La società, a sua volta, aveva spiegato domanda riconvenzionale, chiedendo il pagamento del campionario e proponendo eccezione di compensazione per le somme eventualmente corrisposte in eccesso all’agente, a titolo di FIRR. 3. Il Tribunale aveva accolto in parte la sola domanda principale.

4. La Corte d’Appello riformava la sentenza di primo grado sia con riguardo alla quantificazione dell’indennità di fine rapporto, sia con riguardo alla restituzione del campionario.

5. Per la cassazione della sentenza d’appello ricorre P.G. prospettando tre motivi di impugnazione.

6. Resiste con controricorso la società Levi Strauss Italia srl, che ha, altresì, depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. I motivi di impugnazione proposti dal ricorrente investono la sentenza d’appello con riguardo alle seguenti statuizioni:

mancato accoglimento del motivo di appello con cui era stata censurata la sentenza di primo grado per avere la stessa rigettato la domanda di condanna della società al pagamento delle provvigioni relative ad affari conclusi successivamente al 1 dicembre 1998;

rigetto del motivo di appello relativo alla domanda di attribuzione dell’indennità per l’attività di incasso;

rigetto del motivo di appello proposto in ragione della mancata condanna della società al pagamento della somma di Euro 69.685,00 a titolo di provvigioni o di indennizzo per ordini trasmessi, e mai eseguiti dalla preponente.

2. Con il primo motivo di ricorso, assistito dal prescritto quesito di diritto, è prospettata la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Espone il P. che la propria richiesta di condanna al pagamento delle provvigioni maturate per gli affari conclusi successivamente al 1 dicembre 1988 (recte: 1998 vedi pagg. 3-4 del ricorso), era stata decisa omettendo di considerare e statuire su un capitolo di prova per testi.

La Corte d’Appello, poichè, in corso di causa, la società aveva pagato la somma di Euro 17.310,98, per il titolo fatto valere dall’istante, rilevava che incombeva sullo stesso l’onere della prova del fondamento della domanda avente ad oggetto il credito residuo, ma non decideva sulla domanda istruttoria, così incorrendo nella lesione dell’art. 112 c.p.c..

2.1. Il suddetto motivo di ricorso è inammissibile in ragione della genericità ed inconferenza del quesito di diritto.

Ed infatti, il P. si limita a riportare quello che sarebbe il contenuto del capitolo di prova, ma non indica nè il momento processuale in cui lo stesso sarebbe stato articolato e sottoposto al vaglio del giudice, nè offre argomenti a sostegno della rilevanza della istanza istruttoria, quali ad es. l’indicazione dei testi e della loro qualità.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., S.U., n. 11650 del 2008), il quesito di diritto, richiesto dall’art. 366-bis c.p.c., è inconferente, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, dovendosi assimilare il quesito inconferente alla mancanza di quesito, allorchè la risposta, anche se positiva per l’istante, risulta comunque priva di rilevanza nella fattispecie, in quanto inidonea a risolvere la questione decisa con la sentenza impugnata.

3. Con il secondo motivo di impugnazione è prospettato il vizio di motivazione, contraddittoria ed insufficiente, su fatti controversi e decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente assume che erroneamente la Corte d’Appello, come il Tribunale, avrebbe ritenuto che l’attività di incasso era stata effettuata in ordine a crediti scaduti.

Ed infatti, l’attività di incasso aveva carattere continuativo, come si evinceva dalla durata del rapporto e dalla entità delle proposte accettate dalla società, ed il carattere insoluto dei crediti riscossi era privo di riscontro rispetto ai dati positivamente acquisiti al processo, dando luogo a vizio di motivazione.

Il P. richiamava, quindi, e trascriveva il contenuto della documentazione di cui al vol. 52 della produzione di parte, consistente in tabulati contenenti l’indicazione di fatture relativi a diversi clienti con l’indicazione della scadenza, che, in quanto successiva alla redazione del tabulato medesimo, avrebbe dovuto far ritenere provato il carattere non insoluto degli incassi.

3.1. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto si traduce nella richiesta di un nuovo accertamento in fatto.

Ed infatti, il vizio di omessa od insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della "ratio decidendi", e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. Questi vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (ex multis, Cass., n. 1 1918 del 2003, n. 27197 del 2011).

Nella specie, la Corte d’Appello, con congrua e logica motivazione, fondava la propria decisione sulla mancanza di prova del carattere non insoluto dei crediti, in ragione dell’esame della documentazione esibita, tra cui i tabulati, e della prova per testi, tenuto conto che le ordinarie condizioni di pagamento praticate dalla società in questione erano costituite dalla ricevuta bancaria o dalla rimessa diretta con bonifico o titolo e con avviso alla contabilità clienti e che agli agenti veniva spedito un tabulato settimanale per far focalizzare le situazioni che richiedevano una urgente definizione in quanto lo scaduto pregiudicava la spedizione della merce ordinata.

Il motivo di ricorso, quindi intende avvalorare una propria ricostruzione delle risultanze istruttorie, volta ad ottenere un nuovo esame nel merito inammissibile, in ragione della giurisprudenza sopra richiamata, in sede di legittimità.

4. Con il terzo motivo di ricorso, assistito dal previsto quesito di diritto, è prospettata la violazione dell’art. 1375 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Ed infatti, il richiamo effettuato dalla Corte d’Appello all’art. 4 dell’AEC dell’anno 1988, non avrebbe tenuto conto che il comportamento della società di avvalersi della facoltà di prorogare l’accettazione delle proposte trasmesse, e senza limiti di tempo, aveva comunicato la proroga al termine della stagione di vendita, così rendendo non più evadibili gli ordini e vanificando il diritto alla provvigione dell’agente, dava luogo alla violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto.

4.1. Il motivo non è fondato e non può essere accolto.

Come questa Corte ha avuto modo di affermare, la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione di un contratto (art. 1375 cod. civ.), specificandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto (Cass., n. 13208 del 2010, n. 3462 del 2007, n. 13345 del 2006, n. 1078 del 1999).

Nel rapporto di agenzia, la provvigione spetta all’agente anche per gli affari che non hanno avuto esecuzione per "causa imputabile" al preponente art. 1749 c.c., vale a dire a qualsiasi comportamento doloso o colposo di questi che abbia determinato la mancata esecuzione del contratto. Il preponente, d’altra parte, è tenuto ad eseguire il contratto secondo buona fede (art. 1175 c.c.), intesa come limite all’atto di privata autonomia e come criterio che impone fedeltà al vincolo contrattuale, nel rispetto del reciproco affidamento (Cass., n. 21445 del 2007, n. 1142 del 1995).

Nella specie, tuttavia, correttamente la Corte d’Appello, in ragione dell’assetto contrattuale voluto dalle parti, non ha ravvisato la violazione degli obblighi gravanti sul preponente ex art. 1749 c.c., per la violazione dei più generali obblighi di correttezza e buona fede.

Ed infatti l’art. 4 dell’AEC del 1988, recepito dalle parti nel contratto individuale, stabiliva che il preponente nel termine previsto per la conferma poteva comunicare per iscritto all’agente il rigetto dell’ordine o la necessità di una proroga del termine stesso. Non è dunque invocabile la clausola generale di cui all’art. 1375 c.c., costituendo la possibilità di proroga del termine, oggetto della pattuizione negoziale.

Nè è ravvisabile un abuso del diritto nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi (Cass., n. 8567 del 2012).

Peraltro, la Corte d’Appello rilevava come il P. avrebbe avuto il diritto di invocare l’art. 1749 c.c. e allegare e comprovare di avere trasmesso ordini di acquisto non respinti nè prorogati nei termini di legge, e, dunque, accettati, ma non eseguiti per fatto imputabile alla mandante provando i relativi fratti costitutivi, ma si era limitato a dedurre che gli affari non erano stati eseguiti senza alcuna giustificazione e affermando che detta condotta costituiva un sistematico e pregiudizievole rifiuto di dare corso alle sue proposte e che in ogni caso violava i principi di buona fede e correttezza.

5. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro quaranta/00 per esborsi, oltre Euro tremila/00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 3 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2012

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