Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-08-2012, n. 14110

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Svolgimento del processo

1. Ma.An.Im. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Napoli S.A. e R.A. per sentirli condannare alla demolizione di opere edili illegittime.

Si costituivano i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda; in via riconvenzionale, instavano per la condanna dell’attrice alla demolizione della porzione di fabbricato dalla medesima edificato a distanza illegale, al risarcimento dei danni, all’adeguamento delle opere alla normativa antisismica e all’eliminazione di una veduta illegittima.

Procedutosi all’integrazione del contraddittorio nei confronti di M.V., coniuge dell’attrice, con sentenza dep. il 18 ottobre 2001 il Tribunale rigettava le domande di demolizione rispettivamente proposte; condannava: i convenuti a rimuovere alcuni manufatti e gli attori ad arretrare la veduta alla distanza regolamentare.

Con sentenza dep. il 28 dicembre 2004 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della decisione impugnata dal S. e dalla R., accoglieva la domanda riconvenzionale relativa alla demolizione del fabbricato realizzato dagli attori, condannando i predetti ad arretrare il loro manufatto sino a una distanza di metri 6,20 da quello dei convenuti; rigettava la domanda con cui gli attori avevano chiesto la rimozione dello stenditoio in ferro e della tubazione di estrazione dell’aria dal locale bagno.

Secondo i Giudici di appello, erroneamente il Tribunale aveva rigettato la domanda di demolizione sul rilievo che, in assenza di regolamenti locali, trovavano applicazione le distanze di cui all’art. 873 cod. civ.: al riguardo, infatti, operava il dettato di cui alla L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies, comma 1, lett. c come introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17 secondo cui nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici la distanza tra edifici deve essere pari all’altezza dell’edificio da costruire.

Nella specie, il fabbricato degli attori, che era alto metri 6,20 non rispettava la distanza legale che era per l’appunto pari a metri 6,20 che andava misurata dal portico del primo dei due livelli di cui si compone il fabbricato degli attori, atteso che detto portico era elemento caratterizzante l’intera costruzione.

Era respinta la domanda di adeguamento sismico del fabbricato degli attori sul rilievo che, da un lato, si erano rivelate generiche le doglianze in proposito formulate dai convenuti e che, d’altra parte, gli attori avevano prodotto documentazione dalla quale doveva ritenersi rispettata la normativa in questione.

2.- Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione la Ma. e il M. sulla base di due motivi illustrati da memoria.

Resistono con controricorso gli intimati, proponendo ricorso incidentale affidato a due motivi.

Motivi della decisione

Preliminarmente il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti, ex art. 335 cod. proc. civ., perchè sono stati proposti avverso la stessa sentenza.

Va disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso e ricorso incidentale sollevata dai ricorrenti sul rilievo che tale atto era stato notificato presso lo studio del difensore dei ricorrenti e non presso il domicilio eletto in Roma: la consegna presso lo studio del difensore costituito rappresenta un rafforzamento delle garanzie di effettiva e tempestiva conoscenza dell’atto da parte del destinatario nel suo domicilio effettivo ed è del resto conforme alle regole di cui agli artt. 170 e 330 cod. proc. civ., posto che l’elezione di domicilio in Roma è posta a tutela del controricorrente per rendere più agevole la notificazione.

1.1.- Con il primo motivo i ricorrenti lamentano "violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 15 disp. gen., degli artt. 873 c.c. e art. 41 quinquies, comma 1, lett. c), come introdotto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, comma 1, lett. c) nonchè del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 136, comma 2, lett. b), e, pur sempre, della L. 8 marzo 1999, n. 50, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa o insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5.".

Censurano la decisione gravata che erroneamente aveva applicato l’art. 41 quinquies, comma 1, lett. c, nel testo introdotto dalla L. n. 765 del 1967, quando tale norma, al momento della decisione, era stata abrogata dall’art. 136 del T.U. 380 del 2001 che era entrato in vigore il 2 gennaio 2002: pertanto, doveva trovare applicazione l’art. 873 cod. civ. tenuto conto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, occorre fare riferimento alle norme esistenti al momento della decisione quando queste siano più favorevoli di quelle esistenti al momento della costruzione.

1.2.- Il motivo va disatteso.

La sentenza impugnata ha ritenuto che la disciplina in tema di distanze tra fabbricati fosse quella dettata dall’art. 41 quinquies, in assenza di strumenti urbanistici locali.

I ricorrenti hanno dedotto che, al momento della decisione impugnata, la norma applicata era stata abrogata per effetto dell’art. 136 del t.u. n. 380 del 2001, per cui doveva applicarsi la disciplina più favorevole (art. 873).

A seguito di ordinanza emessa dal Collegio sono state acquisite informazioni presso il Comune di Forio di Ischia da cui è emerso che il 21-12-2002 è entrato in vigore il regolamento edilizio con cui quel Comune ha dettato norme in materia di distanze legali tra fabbricati. Qui è appena il caso di ricordare che le prescrizioni dei piani regolatori generali e degli annessi regolamenti comunali edilizi, che disciplinano le distanze nelle costruzioni anche con riguardo ai confini, sono integrative del codice civile, sicchè il giudice, in applicazione del principio "iura novit curia", deve acquisirne diretta conoscenza d’ufficio: d’altra parte, la vigenza o meno di una certa norma alla data rilevante con riferimento al caso concreto non costituisce nuova questione di fatto, non deducibile in sede di legittimità, poichè rientra nella scienza ufficiale del giudice, il quale in sede di legittimità ha il dovere, prescindendo dalle deduzioni delle parti, di verificare se la disposizione applicata dai giudici di merito fosse effettivamente in vigore e, quindi, applicabile al caso esaminato (Cass. 17692/2009).

Ciò premesso, va ancora osservato che l’entrata in vigore del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, prevista per il 1 gennaio 2002, venne prorogata dapprima al 1-1-2003 con la L. n. 463 del 2001 (che peraltro entrò in vigore soltanto il 10 gennaio 2002) e poi ancora fino al giugno 2003. Dunque, al momento in cui entrò in vigore il regolamento edilizio, era ancora in vigore l’art. 41 quinquies citato, che nei Comuni sprovvisti di strumenti urbanistici e fino alla loro approvazione, stabiliva le distanze tra fabbricati pari all’altezza dell’edificio da costruire, mentre a quello della decisione (2004) era entrato in vigore il regolamento edilizio che prescriveva una distanza addirittura maggiore di quella dettata dal citato art. 41.

Con memoria illustrativa, successiva all’acquisizione del regolamento disposta dalla Corte, i ricorrenti hanno dedotto che: a) il regolamento de quo è stato abrogato da quello successivamente approvato con Delib. 30 ottobre 2006, n. 31 e Delib. 15 marzo 2007, n. 10 e, depositando tale provvedimento, hanno invocato l’applicazione di tale normativa, ritenuta più favorevole ai ricorrenti; b) in ogni caso, l’art. 63 del regolamento del 2002, invocato da controparte, sarebbe inapplicabile alla specie, in quanto ha a oggetto le facciate frontistanti, mentre il fabbricato degli attori è costituito da un portico; inoltre, la previsione che la distanza tra le facciate degli edifici va generalmente conservata, giustifica il mantenimento delle attuali distanze; la disposizione si riferisce alle zone soggette a conservazione del tessuto urbanistico che non può riguardare quella periferica e interna al territorio nella quale ricade il fabbricato dei ricorrenti.

Orbene, il regolamento edilizio del 2006, all’art. 2, stabilisce che, per quanto non espressamente previsto dal presente RUEC, sono richiamate, fra le altre, le normative urbanistico – edilizie nazionali e regionali anche successive; l’art. 5, nel formulare la definizione dei diversi parametri edilizi, fornisce la nozione di distanza tra fabbricati, prevede le modalità di misurazione, stabilendo fra l’altro che la distanza tra pareti finestrate deve essere rispettata anche quando le costruzioni si fronteggiano parzialmente, salvo il caso in cui le pareti siano entrambe prive di finestre; sancisce l’obbligo di osservare le distanze anche nell’ambito di pareti interne al medesimo edificio non prospicienti spazi scoperti interni; quindi, la norma prevede le modalità di calcolo della distanza dei fabbricati dal confine.

Ciò posto, non può certo ritenersi che il regolamento in questione non contenga disposizioni in materia di distanze laddove in esso si fa riferimento al distacco e alle modalità di misurazione negli edifici caratterizzati da pareti finestrate e, attraverso il richiamo alla legislazione nazionale, ha inteso introdurre gli standards previsti obbligatoriamente dal D. n. 1444 del 1968, secondo cui nelle zone diverse da quella A), che attiene al centro storico (ove sono possibili solo interventi edilizi conservativi dei fabbricati esistenti), è prescritta la distanza fra pareti finestrate non inferiore a metri 10. Al riguardo va considerato che in tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (c.d. Legge Urbanistica), aggiunto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17 ha efficacia di legge dello Stato, sicchè le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. 14953/20011).

Pertanto, non possono i ricorrenti invocare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina meno restrittiva, la costruzione, realizzata in violazione della normativa in vigore al momento della sua ultimazione, non può ritenersi illegittima in quanto, risultando conforme alla nuova disciplina, ha caratteristiche identiche a quelle previste per le costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore (Cass. 8512/2003), non potendosi considerare quella introdotta con il regolamento del 2006 più favorevole o comunque meno restrittiva di quella dettata con il regolamento approvato nel 2002. Ed invero, l’art. 63 di quest’ultimo strumento urbanistico prevede:

Relazione tra gli edifici.

Distanza tra le facciate: in tutti gli interventi di recupero di edifici esistenti (compreso gli interventi di ristrutturazione edilizia) nelle zone soggette a conservazione del tessuto urbanistico, la distanza tra le facciate degli edifici va, generalmente, conservata. Nelle zone caratterizzate da edilizia recente o di ristrutturazione urbanistica, per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione la distanza tra le facciate, non deve essere inferiore alla metà della media delle altezze degli edifici prospicienti, e comunque non inferiore a 10,00 metri. Vanno comunque rispettate le distanze prescritte dalle norme antisismiche.

Distanza dai confini: per tutti gli interventi è consentita l’aderenza ai confini di pareti di costruzioni non finestrate o liberi da costruzioni, oppure di almeno 5,00 metri.

Altezza delle facciate: nel caso di interventi di nuova costruzione o ristrutturazione edilizia l’altezza massima delle facciate non può superare l’altezza media dell’intorno urbano di riferimento, costituito dagli edifici immediatamente adiacenti e da quelli prospicienti per il tratto della facciata di riferimento.

Il progetto può considerare la possibilità di altezze minori o maggiori, che vanno però motivate e documentate in relazione della morfologia urbana e dei caratteri edilizi assunti come sistema di riferimento.

La prima parte del primo comma si limita a prescrivere disposizioni laddove sono possibili solo interventi di recupero di edifici già esistenti, richiedendo che la distanza (preesistente) sia conservata;

la seconda parte del citato comma, disciplinando gli interventi di nuova costruzione nelle zone caratterizzate da edilizia recente o di ristrutturazione urbanistica, prevede che la distanza non deve essere inferiore alla metà della media delle altezze degli edifici prospicienti, e comunque non inferiore a 10,00 metri.

Orbene, il riferimento alla prima parte del citato art. 63 è fuori luogo posto che, secondo quando accertato dai Giudici, i ricorrenti hanno realizzato una nuova costruzione che è costituita da due livelli, il primo dei quali è caratterizzato per tutta la lunghezza dell’edificio dalla presenza di molti archi ciascuno dei quali è sorretto da solidi e alti pilastri che danno sostegno al terrazzo sito al secondo livello: non vi è dubbio che si tratta di struttura soggetta al rispetto della distanze e in particolare al rispetto di quanto prescritto dal decreto n. 1444 del 1968, laddove proprio la presenza di un porticato ovvero di aperture nell’edificio realizzato dai ricorrenti rende applicabile la previsione del citato art. 9 alla luce della ratio ispiratrice della disciplina in esame che ha lo scopo di impedire, a tutela della salute della collettività, che rimanga una spazio vuoto e scoperto fra due fabbricati, inadeguato a dare luce e aereazione ma esposto alle intemperie e, come tale, fonte di pericolo per l’igiene pubblica. Ed invero, la circostanza secondo cui gli immobili in questione si troverebbero in zona periferica è irrilevante, posto che, ai sensi del D. n. 1444 del 1968, art. 9 la cui inserzione, come si è detto sopra, è automatica laddove dagli strumenti urbanistici locali siano previste misure meno restrittive contrastanti con quelle del decreto – trovano applicazione le distanze sancite nelle zone diverse da quella A). Pertanto, al momento della sentenza impugnata, la costruzione non poteva considerarsi legittima perchè, come sostenuto dai ricorrenti, sarebbe stata conforme alla legislazione vigente (e ciò dicasi evidentemente a prescindere dalla inesigibilità dell’adeguamento allo ius superveniens, più restrittivo, di cui si dirà in occasione dell’esame del primo motivo del ricorso incidentale).

2.1.- Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 73 c.p.c., della L. n. 1150 del 1942, art. 41 quinquies, comma 1, lett. C) nonchè erronea motivazione, deducono in ogni caso che la sentenza impugnata, nel ritenere la violazione delle distanze, non aveva considerato che il portico esistente a piano terra era una costruzione autonoma e indipendente dal piano sopraelevato, come del resto contraddittoriamente ritenuto dai Giudici,ed aveva un altezza di metri 3,13, mentre l’immobile dei ricorrenti era a distanza di oltre quattro metri da quello di controparte; il piano sopraelevato, dell’altezza di metri 6,20 era a una distanza di oltre sei metri.

2.2.- Il motivo è infondato.

La sentenza ha ritenuto che la costruzione realizzata costituisce un fabbricato di cui il portico è elemento caratterizzante e parte integrante: pertanto, la distanza andava calcolata, secondo quanto previsto dalla norma citata, dal fronte dell’edificio ovvero dal porticato tenuto conto necessariamente dell’altezza dell’intero manufatto e la sentenza ha verificato la violazione delle distanze posto che il portico è a distanza inferiore rispetto all’altezza dell’edificio.

Il motivo si risolve nella censura dell’accertamento di fatto compiuto dai Giudici che è insindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione dal quale la decisione impugnata è immune, dovendo qui ricordarsi che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione; tali vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento.

Il ricorso va rigettato.

RICORSO INCIDENTALE. 1.1.- Il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 873 cod. civ. nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione) denuncia la mancata applicazione dell’art. 63 del regolamento edilizio del Comune di Forio, approvato con decreto del Presidente della Provincia del 21-6-2002, che prevedeva la distanza tra fabbricati non inferiore a metri dieci.

1.2.- Il motivo è infondato.

Nel caso di successione nel tempo di norme edilizie, se le norme successive siano più restrittive, la nuova disciplina non è applicabile alle costruzioni che al momento della sua entrata in vigore possano considerarsi già sorte, come era certamente quella realizzata dagli attori che risale agli anni 80 e comunque a una data anteriore all’entrata in vigore del predetto regolamento edilizio, tenuto conto del limite dei diritti quesiti (Cass. 2726/1987;

12104/1998; 14446/2010).

2.1.- Il secondo motivo ( violazione e falsa applicazione degli artt. 163,112, 115 e 116 cod. proc. civ.) censura la sentenza impugnata laddove aveva respinto, per genericità della domanda, la richiesta di adeguamento sismico del fabbricato costruito dagli attori, quando non era necessario indicare concrete modalità di violazione delle norme antisismiche che non si sarebbe stato in grado neppure di verificare, mentre sarebbe stato necessario disporre un accertamento tecnico con la nomina di un consulente d’ufficio.

2.2.- Il motivo è infondato.

Con motivazione,immune da vizi logici o giuridici, la sentenza ha ritenuto in effetti non provata la doglianza, ritenendo non soltanto generiche le allegazioni al riguardo formulate dai convenuti ma avendo escluso, alla stregua di quanto dedotto e prodotto dagli attori, che fossero emersi elementi dai quali potesse ipotizzare alcuna violazione: in tal modo, consideravano evidentemente non necessaria l’espletamento di un’ indagine tecnica.

Orbene, l’ammissione o meno della consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice ed è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato: come si è visto, le ragioni per le quali non era stato disposto un accertamento tecnico sono facilmente desumibili dalla motivazione di cui si è detto.

Anche il ricorso incidentale va rigettato.

Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese della presente fase.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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