Cass. civ. Sez. II, Sent., 03-08-2012, n. 14096

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Svolgimento del processo

Nel 1992 L.A., L.M. e L.F. convennero in giudizio, dinnanzi al Pretore di Catania, P.M. V., lamentando che quest’ultima stava installando nel cortile condominiale sito in (OMISSIS) un ascensore a distanza illegale rispetto alle vedute esercitate dall’unità immobiliare di essi attori e lesivo del decoro architettonico del fabbricato.

Costituitosi il contraddittorio, la P. contestò la domanda sul rilievo che l’opera era conforme alla normativa di cui alla L. n. 13 del 1989, che derogava alla disciplina delle distanze legali, e che era stata autorizzata dall’assemblea condominiale.

Il Pretore negò il richiesto provvedimento cautelare, rimettendo le parti dinnanzi al Tribunale.

Gli attori riassunsero il giudizio e, ricostituitosi il contraddittorio ed espletata una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale, con sentenza del 7 settembre 1998, respinse la domanda. Il Tribunale ritenne che l’installazione dell’ascensore non fosse lesiva del decoro architettonico dell’edificio; che la delibera assembleare non fosse nulla, non contrastando con il divieto di cui all’art. 1120 c.c., comma 2; che l’ascensore, ancorchè collocato nel cortile condominiale, non ne alterasse al destinazione nè impedisse il pari uso degli altri condomini; che non operava nella specie, tenuto conto della destinazione dell’ascensore e della indispensabilità dello stesso per un’effettiva abitabilità dell’edificio, la disciplina delle distanze legali; che lo stesso legislatore aveva derogato alla detta disciplina con la L. n. 13 del 1989, art. 3 applicabile anche alla disciplina codicistica e non solo alle norme dei regolamenti edilizi.

Avverso questa sentenza proponevano appello L.A., L. F. e L.C. (nelle more era deceduta L. M.), chiedendo la condanna della convenuta alla rimozione dell’opera e al ripristino dello stato dei luoghi. A tale gravame resisteva la P., la quale proponeva anche appello incidentale sulla regolamentazione delle spese.

Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Catania, con sentenza resa pubblica mediante deposito il 17 novembre 2005, ha accolto il gravame.

La Corte territoriale ha ritenuto che nella specie dovessero essere applicate le norme in materia di distanze legali tra i beni di proprietà esclusiva dei singoli condomini e che tale normativa non fosse stata derogata dalla L. n. 13 del 1989 sulla eliminazione delle barriere architettoniche. Ha quindi rilevato che, come emergeva dalla relazione del CTU, il manufatto realizzato dalla P. non rispettava il limite stabilito dal codice civile in materia di distanze legali tra costruzioni. In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto operante la distanza di tre metri dalla proprietà degli attori ex art. 907, nella specie non osservata.

La Corte ha quindi escluso di poter condividere le argomentazioni del Tribunale, che aveva ritenuto non applicabili le norme sulle distanze nel caso di realizzazione di impianti al servizio esclusivo del singolo condomino nel caso in cui si tratti di impianti indispensabili per l’effettiva abitabilità dell’appartamento, secondo l’evoluzione delle esigenze dei cittadini e le moderne concezioni in tema di igiene. Ad avviso della Corte territoriale, infatti, l’ascensore non poteva essere considerato impianto indispensabile per un’effettiva abitabilità dell’appartamento; nè poteva ritenersi che la legge n. 13 del 1989 avesse derogato alla normativa codicistica in materia di distanze dalle vedute, atteso che nessun riferimento all’art. 907 era contenuto in detta legge.

La Corte ha accolto altresì il secondo motivo di gravame, ritenendo che l’installazione dell’ascensore comportasse una alterazione del decoro architettonico dell’edificio, con conseguente nullità della delibera condominiale che detta installazione aveva autorizzato, stante il disposto dell’art. 1120 c.c., comma 2.

Per la cassazione di questa sentenza P.M.V. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi; hanno resistito, con controricorso, L.F. e L.C., i quali hanno anche proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Deve essere preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, in quanto rivolti avverso la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.).

2.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione degli artt. 907 e 1102 cod. civ., nonchè insufficiente motivazione.

La ricorrente rileva che la Corte d’appello erroneamente ha disatteso l’orientamento condiviso dal giudice di primo grado, ritenendolo minoritario nella giurisprudenza di legittimità. Al contrario, osserva la ricorrente, lo stesso orientamento è stato ribadito da Cass. n. 7752 del 1995, applicabile nella specie, non potendosi dubitare che l’ascensore rientri nel concetto di impianti che devono considerarsi indispensabili per una reale abitabilità di un appartamento.

La installazione dell’ascensore è poi favorita dalla L. n. 13 del 1989, che ha stabilito una disciplina di favore per la realizzazione, tra l’altro, di una simile innovazione.

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 907 cod. civ. e della L. n. 13 del 1989, artt. 2 e 3.

La Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere che la richiamata normativa speciale operasse una deroga alla disciplina delle distanze stabilite dal codice civile.

2.3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia omessa e insufficiente motivazione e violazione dell’art. 1120 cod. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia, in contrasto con quanto sostenuto dal c.t.u., ritenuto sussistente un’alterazione del decoro architettonico del fabbricato, tale da determinare la nullità della delibera condominiale che aveva autorizzato la installazione di quell’impianto. Difetterebbe, quindi, una idonea motivazione sulle ragioni che hanno indotto la Corte d’appello a discostarsi dal parere del c.t.u., così come sulla nozione di decoro architettonico nel caso in cui venga in discussione solo una singola parte dell’edificio condominiale, nonchè in ordine alla comparazione tra l’innovazione introdotta e la lesione riscontrata.

3. Con l’unico motivo di ricorso incidentale, i resistenti si dolgono della statuita compensazione delle spese dell’intero giudizio.

3.1. I ricorrenti incidentali propongono altresì un motivo condizionato, volto a riproporre l’eccezione di violazione del precetto di cui all’art. 42 Cost..

4. Occorre premettere che ai fini di individuare il campo di applicazione delle disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, questa Corte ha avuto modo di chiarire che la L. n. 13 del 1989, art. 2 prevede, nei suoi due commi, due distinte ipotesi: quella in cui il condominio sia disponibile ad attuare "le innovazioni" idonee ad eliminare le barriere architettoniche di cui alla L. 30 marzo 1971, n. 118, art. 27, comma 1, e al D.P.R. 27 aprile 1978, n. 384, art. 1, comma 1,. . ." – nel qual caso la norma in discorso dispone – per facilitare il raggiungimento della maggioranza – un abbassamento del quorum che sarebbe richiesto per le innovazioni, richiamando quelli di cui all’art. 1136, commi 2 e 3. In tale ipotesi sono da considerare innovazioni adottabili con la maggioranza ridotta tutte le opere idonee al fine, ferma restando la previsione di cui al comma 3, che fa salvo il disposto dell’art. 1120 c.c., comma 2, e dell’art. 1121 c.c., comma 3.

La seconda ipotesi è quella in cui, sussistendo il rifiuto del condominio di eseguire le opere, viene consentito direttamente al portatore di handicap o chi lo rappresenta di porre in essere una serie di strumenti per ovviare a dette barriere. Soltanto in questa seconda ipotesi – per ragioni logiche di tutta evidenza – la facoltà del portatore di handicap è ristretta agli strumenti minimali idonei a fronteggiare le barriere, indicati come "servoscala" ovvero "strutture mobili e facilmente rimovibili", o modifiche dell’ampiezza delle porte d’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garages (Cass. n. 14384 del 2004, in motivazione).

4.1. Nel caso di specie, dalla sentenza impugnata emerge che la installazione dell’ascensore, richiesta dalla odierna ricorrente ai sensi della L. n. 13 del 1989, era stata autorizzata dall’assemblea del condominio. La stessa Corte d’appello, del resto, pur accogliendo il gravame degli odierni controricorrenti, ha ragionato non già sulla base della insussistenza, nella specie, dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, ma sui limiti che nella giurisprudenza di legittimità si è ritenuto che siano comunque operanti, e quindi annullando la delibera condominiale per violazione dell’art. 1120 c.c., comma 2; con ciò, all’evidenza, non escludendo che la installazione dell’ascensore fosse avvenuta ai sensi della citata normativa.

5. Ciò premesso il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato.

5.1. La Corte d’appello ha accolto il gravame ritenendo, in primo luogo, che in relazione alla installazione di un ascensore in ambito condominiale operassero comunque le norme in tema di distanze legali.

In particolare, la Corte d’appello ha fatto richiamo alla sentenza di questa Corte n. 6109 del 1994, secondo cui la L. 9 gennaio 1989, n. 13, art. 2 contenente disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati, dopo aver previsto la possibilità, per l’assemblea condominiale in prima o f in seconda convocazione, di approvare le innovazioni finalizzate allo scopo predetto con le maggioranze indicate dall’art. 1136 c.c., commi 2 e 3, – così derogando alla norma di cui all’art. 1120 c.c., comma 1, che richiama l’art. 1136 cod. civ., comma 5 e quindi le più alte maggioranze qui contemplate – dispone, al comma 3, che "resta fermo" quanto previsto, tra l’altro, dall’art. 1120 c.c., comma 2, il quale vieta le innovazioni che rendano talune parti comuni all’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino, con la precisazione che la norma in questione vuole certamente favorire quelle innovazioni che aumentano la funzionalità ed il valore dell’edificio, ma pone il limite invalicabile dell’inservibilità della parte comune anche nei confronti di un singolo condomino, inservibilità che va interpretata come sensibile menomazione dell’utilità che il condomino ne ritraeva secondo l’originaria costituzione della comunione. Ne consegue che se non possono essere lesi da delibere dell’assemblea condominiale, adottate a maggioranza, i diritti dei condomini attinenti alle cose comuni, a maggior ragione non possono essere lesi, da delibere non adottate all’unanimità, i diritti di ciascun condomino sulla porzione di proprietà esclusiva, indipendentemente da qualsiasi considerazione di eventuali utilità compensative".

La Corte d’appello ha quindi osservato che il manufatto realizzato dalla ricorrente – che senz’altro rientrava nella nozione di costruzione – non rispettava il limite stabilito dal codice civile in materia di distanze legali tra costruzioni, come accertato dal c.t.u.. In proposito, ha richiamato quelle pronunce a tenore delle quali l’art. 907 cod. civ. è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio, non derogando l’art. 1102 cod. civ. al disposto dell’art. 907 c.c. (Cass. n. 10563 del 2001; Cass. n. 23023 del 2000).

Ha poi affermato di non condividere il diverso orientamento della giurisprudenza di questa Corte, del quale aveva invece fatto applicazione il Tribunale, a tenore del quale la disciplina sulle distanze legali nel caso di utilizzazione di parti comuni dell’edificio condominiale per la realizzazione di impianti al servizio esclusivo dell’appartamento del singolo condomino che siano indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene. La Corte territoriale ha ritenuto tale orientamento minoritario e non condivisibile, sulla base del rilievo che l’impianto di ascensore non può essere considerato "impianto indispensabile per un’effettiva abitabilità dell’appartamento", dovendo tale nozione riferirsi agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari.

La Corte etnea ha, ancora, escluso che una deroga alla disciplina sulle distanze possa essere rinvenuta nella disciplina contenuta nella L. n. 13 del 1989, art. 3 e ciò sul rilievo che il citato art. 3, comma 1, dispone che le opere di cui all’art. 2 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi che disciplinano le distanze dal confine e tra fabbricati, ma non menziona la normativa codicistica sulle vedute che deve, a contrario, ritenersi applicabile, e, al comma 2, prevede l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune. In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che tale norma si riferisca al caso in cui tra il manufatto da realizzare e i fabbricati non compresi nel condominio (e quindi, alieni) manchi uno spazio o un’area di proprietà o di uso comune, consentendo in contrario la deroga nel caso in cui vi sia l’interposizione di uno spazio o di un’area di proprietà o di uso comune. Ha quindi escluso che da una disciplina specifica sia ricavabile un principio di carattere generale nel senso della disapplicazione della normativa sulle distanze legali tutte le volte in cui vengano realizzate le opere di cui alla L. n. 13 del 1989.

La Corte d’appello, inoltre, ha rilevato che il manufatto realizzato dalla odierna ricorrente determina una menomazione apprezzabile dell’uso del cortile comune, trattandosi di una struttura fissa avente una dimensione non trascurabile.

Sotto altro profilo, la Corte d’appello ha ritenuto leso il decoro architettonico dell’edificio condominiale.

5.2. La ricorrente, con il primo e il secondo motivo censura la sentenza impugnata per la valutazione effettuata in ordine alla violazione della disciplina delle distanze legali; con il terzo motivo, contesta la valutazione effettuata dalla Corte d’appello in ordine alla lesione del decoro architettonico, rilevandone il contrasto con l’accertamento in proposito svolto dal consulente tecnico d’ufficio in primo grado.

5.2.1. Quanto alle censure svolte con il primo motivo, il Collegio ritiene che le stesse colgano nel segno là dove viene contestata l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui l’ascensore non può essere considerato impianto indispensabile per l’effettiva abitabilità dell’appartamento.

Nella sua assolutezza, l’affermazione appare infatti apodittica e avulsa da ogni riferimento al caso di specie, nel quale i lavori per la installazione dell’ascensore erano dichiaratamente volti alla eliminazione delle barriere architettoniche, ai sensi della L. n. 13 del 1989.

In particolare, la Corte territoriale non sembra avere adeguatamente apprezzato che, nella valutazione del legislatore, quale si desume dalla citata L. n. 13 del 1989, art. 1 (operante a prescindere dalla effettiva utilizzazione degli edifici considerati da parte di persone portatrici di handicap: Corte cost. n. 167 del 1999), l’installazione dell’ascensore o di altri congegni, con le caratteristiche richieste dalla normativa tecnica, idonei ad assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, costituisce elemento che deve essere necessariamente previsto dai progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Da tale indicazione si desume agevolmente che, nella valutazione del legislatore, e contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, l’ascensore o i congegni similari (ma negli edifici con più di tre livelli fuori terra, solo l’ascensore) costituiscono dotazione imprescindibile per l’approvazione dei relativi progetti edilizi; in altri termini, l’esistenza dell’ascensore può senz’altro definirsi funzionale ad assicurare la vivibilità dell’appartamento, sia cioè assimilabile, quanto ai principi volti a garantirne la installazione, agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari. Vero è che tale qualificazione è dal legislatore imposta per i nuovi edifici o per la ristrutturazione di interi edifici, mentre per gli edifici privati esistenti valgono le disposizioni di cui alla L. n. 13 del 1989, art. 2; tuttavia, la assolutezza della previsione di cui all’art. 1 non può non costituire un criterio di interpretazione anche per la soluzione dei potenziali conflitti che dovessero verificarsi con riferimento alla necessità di adattamento degli edifici esistenti alla prescrizioni dell’art. 2.

In questo senso, non vi è dunque ragione per escludere, in via di principio, come ha fatto la Corte d’appello, l’operatività, anche riguardo all’ascensore, del principio secondo cui negli edifici condominiali l’utilizzazione delle parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate dall’art. 1102 cod. civ., comportanti il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l’osservanza delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà. Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. n. 7752 del 1995; Cass. n. 6885 del 1991;

Cass. n. 11695 del 1990).

Appare quindi evidente il denunciato vizio di motivazione in ordine alla affermazione della non riconducibilità dell’ascensore agli impianti indispensabili per l’effettiva abitabilità di un appartamento.

5.2.2. Ma le censure della ricorrente sono fondate anche con riferimento alla questione della applicabilità, nel caso di specie, delle norme sulle distanze dalle vedute, di cui all’art. 907 cod. civ..

Nella giurisprudenza di questa Corte si è infatti affermato il principio per cui le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purchè siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime;

nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabili alla costruzione di un balcone le norme in tema di vedute e non anche quella dell’art. 1102 cod. civ.) (v., da ultimo, Cass. n. 6546 del 2010).

La Corte d’appello non poteva quindi ritenere violato, nel caso di specie, l’art. 907 cod. civ., senza previamente accertare se il manufatto realizzato dalla ricorrente su cose comuni (parte del cortile e muro comune) avesse rispettato i limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. nell’uso della cosa comune, non apparendo a tal fine sufficiente l’affermazione che il manufatto determina una menomazione apprezzabile dell’uso del cortile comune, trattandosi di una struttura fissa avente una dimensione non trascurabile. Ciò tanto più in quanto dalla stessa sentenza impugnata emerge che il giudice di primo grado, recependo l’accertamento svolto dal consulente tecnico d’ufficio, aveva concluso nel senso della insussistenza del pregiudizio per l’utilizzazione del cortile comune.

Nè può ritenersi che la disciplina di cui all’art. 907 cod. civ. potesse operare per effetto del richiamo ad essa contenuto nella L. n. 13 del 1989, art. 3, comma 2. In proposito, deve rilevarsi che l’art. 3 citato dispone, al comma 1, che le opere di cui all’art. 2 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati e, al comma 2, che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune. Nel suo complesso, tale disposizione non può ritenersi applicabile all’ipotesi in cui venga in rilievo, non un fabbricato distinto da quello comune, ma una unità immobiliare ubicata nell’edificio comune. In sostanza, il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 2, ai "fabbricati alieni" impone di escludere che la disposizione stessa possa trovare applicazione in ambito condominiale. Difetta, dunque, nel caso di specie, il presupposto di fatto per l’operatività della richiamata disposizione di cui all’art. 907 cod. civ., e cioè l’altruità del fabbricato dal quale si esercita la veduta che si intende tutelare.

D’altra parte, la Corte d’appello, nell’effettuare la valutazione demandatale, non ha tenuto conto dei rilievi del consulente tecnico d’ufficio, secondo cui doveva escludersi pregiudizio per il godimento dell’aria e della luce da parte dell’abitazione dei resistenti.

5.2.3. Fondato è infine anche il motivo di ricorso concernente l’apprezzamento, effettuato dalla Corte d’appello, in ordine alla lesione del decoro architettonico.

La ricorrente ha infatti dedotto, riportando il contenuto della consulenza tecnica espletata in primo grado, che il consulente tecnico d’ufficio aveva positivamente escluso la lesione del decoro architettonico, svolgendo argomentate osservazioni in proposito. La Corte d’appello ha motivato il proprio diverso convincimento rilevando che la gabbia di un moderno ascensore in plexiglas inserito in un cortile interno di un edificio ottocentesco, l’alterazione dei finestroni prospettanti nel cortile e la loro trasformazione in bocche di ingresso della colonna dell’ascensore, la distruzione delle antiche mensole e cornici in pietra bianca scolpita determinano una modifica sensibile della linea estetica originaria del fabbricato, e quindi il decoro architettonico risulta pregiudicato. La circostanza che le mensole e le cornici in pietra bianca fossero privi di particolari valenze formali (v. pag. 6 della rel. dep. dal c.t.u. il 23.12.1994) è ininfluente.

Orbene, dalla sentenza impugnata emerge che la valutazione espressa dal consulente tecnico d’ufficio scaturiva da una considerazione complessiva della situazione di fatto e delle caratteristiche architettoniche e costruttive dell’edificio. In particolare, il c.t.u. aveva escluso che le mensole e le cornici in pietra bianca fossero dotate di valenze formali. L’accertamento della sussistenza o no della rilevanza "formale" di alcuni elementi di un edificio, ai fini di cui all’art. 1120 c.c., comma 2, è particolarmente importante, atteso che questa Corte ha avuto modo di affermare che in tema di innovazioni nel condominio degli edifici, l’alterazione del decoro architettonico può derivare anche dalla modifica dell’originario aspetto di singoli elementi o di singole parti dell’edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili per sè di considerazione autonoma (Cass. n. 5899 del 2004). Sul punto, la motivazione della sentenza impugnata non appare sufficiente, tanto più in quanto priva di alcuna considerazione in ordine all’oggetto della valutazione, consistente, appunto, nella installazione di un impianto ascensore.

Del resto, nella giurisprudenza di questa Corte si è più volte affermato che il controllo del giudice del merito sui risultati dell’indagine svolta dal consulente tecnico d’ufficio costituisce un tipico apprezzamento di fatto, in ordine al quale il sindacato di legittimità è limitato alla verifica della sufficienza e correttezza logico giuridica della motivazione. In particolare, ove il giudice di primo grado si sia conformato alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, il giudice di appello può pervenire a valutazioni divergenti da quelle, senza essere tenuto ad effettuare una nuova consulenza, qualora, nel suo libero apprezzamento, ritenga, dandone adeguata motivazione, le conclusioni dell’ausiliario non sorrette da adeguato approfondimento o non condivisibili per altre convincenti ragioni (Cass. n. 19661 del2006; Cass. n. 20820 del 2006;

Cass. n. 25569 del 2010).

Nel caso di specie, costituendo la valutazione del decoro architettonico oggetto di uno specifico quesito rivolto al c.t.u., ed avendo il c.t.u. espresso il proprio convincimento fornendo una molteplicità di elementi, il dissenso espresso dal giudice di secondo grado avrebbe dovuto essere sorretto da un esame più approfondito dei vari profili evidenziati dal c.t.u., risolvendosi altrimenti la valutazione, proprio per la natura della indagine devoluta al c.t.u., nella espressione di un soggettivo canone estetico.

In conclusione, il ricorso principale va accolto.

6. Il motivo del ricorso incidentale avente ad oggetto la regolamentazione delle spese del giudizio risulta assorbito dall’accoglimento del ricorso principale, dovendosi procedere a nuova regolamentazione delle spese in sede di rinvio.

E’ assorbito altresì il motivo di ricorso incidentale condizionato, con il quale i resistenti hanno riproposto, peraltro del tutto immotivatamente, l’eccezione di violazione del precetto di cui all’art. 42 Cost., non essendosi su tale eccezione pronunciato il giudice di appello. Anche su tale eccezione, invero, dovrà pronunciarsi il giudice dell’appello nel caso in cui, all’esito del rinnovato esame del gravame, pervenga a conclusioni sfavorevoli agli appellanti.

7. Il ricorso principale va dunque accolto, con assorbimento del ricorso incidentale, anche condizionato, e con cassazione della sentenza impugnata, che deve essere disposta con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania, la quale dovrà procedere a nuovo esame della controversia, provvedendo ad emendare i rilevati vizi motivazionali, nonchè alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, assorbito l’incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’appello di Catania.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di Cassazione, il 18 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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