Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 31-01-2013) 19-04-2013, n. 18212

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. S.U., M.A., V.N. e Ma.An. impugnano la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria che ha confermato la pronuncia di condanna del giudice di primo grado, resa all’esito di giudizio abbreviato, per i delitti loro rispettivamente ascritti e in particolare:

a) S.U., condannato alla pena di cinque anni e quattro mesi di reclusione e 20.700 Euro di multa, per i delitti di detenzione di 40 gr di eroina, suddivisa in 40 bustine di cellophane occultate all’interno della cassetta del posta nello stabile abitato dallo stesso S. nonchè di estorsione aggravata per avere eseguito un "pestaggio" in danno di C.M. e B.G. (successivamente deceduto), costringendo in tal modo entrambi a consegnare la somma di 250 Euro ciascuno quale risarcimento per la sottrazione dell’eroina custodita nella cassetta postale;

b) M.A., condannato alla pena di cinque anni di reclusione e quattromiladuecento Euro, per i delitti di associazione finalizzata al narcotraffico, con l’attenuante di cui al sesto comma del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, nonchè di cinque episodi di spaccio di stupefacente, quattro con la concessione dell’attenuante della lieve tenuità;

c) V.N., condannato alla pena di quattro anni e quattromiladuecento Euro, per i delitti di associazione finalizzata al narcotraffico, con l’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 nonchè di cessione di sostanza stupefacente e resistenza a pubblico ufficiale;

d) Ma.An. condannato alla pena di cinque anni di reclusione e diciottomila Euro di multa per due episodi, l’uno relativo alla detenzione di una parte dell’eroina sottratta da C. dalla cassetta della posta di S. e, l’altro, relativo alla detenzione di due grammi di eroina consegnati a tale Co..

A fronte dell’impugnazione volta a contestare la sussistenza di prove e l’entità della pena inflitta, la Corte d’appello rileva che la responsabilità di ciascuno degli imputati trova conferma in un quadro probatorio convergente emerso da intercettazioni legittimamente effettuate.

Preliminarmente, la Corte d’appello esamina la questione di inutilizzabilità delle intercettazioni, per violazioni dell’art. 268 c.p.p., comma 3 e ritiene che il pubblico ministero ha disposto che per l’esecuzione delle attività d’ascolto siano utilizzati gli apparecchi situati presso la procura della Repubblica di Reggio Calabria, con il sistema MCR, facoltizzando l’ascolto remoto anche presso gli uffici della polizia giudiziaria delegata, in particolare presso la sala ascolto del Comando provinciale dei Carabinieri.

Al riguardo, la Corte richiama la giurisprudenza di legittimità che si espressa nel senso che, là dove le operazioni di captazione e registrazioni vengano effettuate presso gli uffici di Procura, non vi è in alcun modo divieto di ascolto delle conversazioni in altro luogo, ove gli strumenti tecnici lo consentano.

2. Quanto all’episodio di sottrazione dei 40 grammi di eroina dalla cassetta della posta, il giudice d’appello ha disatteso le censure della difesa e ritenuto che le dichiarazioni di C.F. fossero indiscutibilmente utilizzabili, poichè l’interrogatorio, una volta emerse indizi di reità a suo carico, è stato sospeso ed è proseguito alla presenza del difensore, così ricorrendo l’ipotesi dell’art. 63 c.p.p., comma 1, e non quella del comma 2 dello stesso articolo che rende inutilizzabili le dichiarazioni rese erga omnes, peraltro anche là dove dovesse ricorrere tale ultima situazione, non vi sarebbe inutilizzabilità poichè il dichiarante è stato sentito con la presenza del difensore, dichiarazione utilizzabile per la non operatività dell’art. 185 c.p.p. di estensione dell’inutilizzabilità agli atti successivi. Tali dichiarazioni integrano il quadro probatorio e sono riscontrate da una telefonata, intercettata nell’ambito di altro procedimento per un omicidio, tra B.G. e Ma.An. dalla quale emerge la prova dell’aggressione subita dallo stesso B. e C..

Inoltre, Ma. ha ammesso di avere fornito lui un cacciavite e una tenaglia a B. e C., utilizzati per aprire la cassetta ove era custodita la droga, anche se poi Ma. ha modificato le proprie dichiarazioni, discordanza che conferma l’accaduto, tenuto conto che lo stesso Ma. ha ricevuto alcune delle quaranta bustine di eroina sottratte ai fratelli S.. La vicenda è stata anche riscontrata da altre persone informate sui fatti, quali C.P., padre di C.F., B.G., e di c.m., pur se de relato. Analoga la posizione processuali dei fratelli S., raggiunti dalle accuse C.. Il complessivo quadro probatorio, ad avviso del giudice d’appello, non richiede alcun ulteriore integrazione e per tal motivo ha respinto la richiesta della difesa dei fratelli S. di risentire C..

2.1. L’episodio, per il quale vi è stata condanna di Ma.

A., relativo alla detenzione di due grammi di eroina poi consegnati a Co., è provato dalle intercettazioni, le cui conversazioni confermano l’appuntamento tra i due sotto la casa dello stesso Ma., vicenda poi conclusasi con il sequestro dello stupefacente.

2.2. Quanto alla posizione di V.N., premesso che l’esistenza dell’associazione è stata accertata con sentenza irrevocabile, la sua partecipazione discende dalla ruolo svolto nell’attività di spaccio di stupefacente nonchè dalle resistenza opposta al maresciallo comandante della stazione dei carabinieri, condotte che dimostrano la sussistenza dell’affectio e della continuità della commercializzazione di stupefacente. La prova è fornita dalle osservazioni di polizia, pedinamenti e controlli dai quali emergeva la corretta interpretazione degli appuntamenti monitorati mediante le intercettazioni telefoniche quali le attività preliminari agli incontri finalizzati allo spaccio di stupefacenti.

2.3. La Corte d’appello descrive e argomenta la prova della partecipazione di M.A. all’associazione, affermando che il ruolo di M. può dirsi accertato, attraverso lo stretto collegamento con N. e Ne., persone con le quali egli interagisce con continuità per l’attività di spaccio di stupefacente. Tali plurimi episodi di spaccio, la cui prova essenzialmente emerge dalle conversazioni intercettate con le utenze di N. di e di Sa.Gi., con i quali svolgeva il traffico di stupefacente. Le conversazioni intercettate consentivano di monitorare i vari incontri con gli acquirenti.

3.1. La difesa di S.U. deduce:

– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 e al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Le dichiarazioni etero – accusatorie di C. avrebbero dovuto essere riscontrate, perchè imputato in un reato connesso, dato incontestato, risultante dagli atti processuali e la stesa Corte d’appello (a pag. 239) lo definisce tale.

In realtà, ad avviso della difesa, B.G., B. A. e c.m. ha riferito solo di essere a conoscenza, de relato, di una lite tra S., da un lato, e, dall’atro, C.F. e B.G., mentre C.P. ha dichiarato di avere dato 250 Euro a S. U..

Si tratta di circostanze che non riscontrano l’esistenza della bustina di stupefacente nella cassetta della posta. E’ solo C. che riferisce tale ultima circostanza, ma l’imputato afferma che nella cassetta della posta vi erano le chiavi di casa.

Per questa ragione è stata richiesta in appello la rinnovazione dell’istruttoria per risentire C.; richiesta rigettata per essere stata ritenuta inutile dalla Corte.

– violazione di legge e difetto di motivazione in relazione agli artt. 521, 393 e 629 c.p.p. per difetto dell’elemento materiale dell’ingiustizia del profitto.

La circostanza che il pagamento di 250 Euro è riferibile alla droga sottratta è stata riferita solo da C.F., mentre C.P., padre di C.F., riferisce che tratta vasi della restituzione di una somme che il figlio aveva ricevuto in prestito da S. che ne chiedeva a sua volta la restituzione.

Non è configurabile, pertanto il delitto di estorsione, bensì quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’ingiustizia del profitto risulta se si accredita la versione dei fatti di C.F. che è priva di ogni riscontro.

3.1.1. La difesa di S.U. ha presentato motivi nuovi, con i quali insite sulla mancanza di riscontri sulla circostanza che all’interno della cassetta della posta vi sarebbe stata droga, perchè nessuno degli altri testi e dichiaranti ne ha parlato.

Si riportano le dichiarazioni rese dagli altri protagonisti della vicenda che riferiscono della rottura della cassetta e della lite tra S. e C., ma nessuno ha fatto riferimento alla droga.

Si allegano anche copia dei verbali di quanto riferito da B. G. e B.A., da c.m. e da C.P.. Nessuno fa riferimento alla sottrazione dello stupefacente.

Per affermare la responsabilità di S.U. in ordine ai fatti oggetto di imputazione sarebbe stato necessario avere riscontro che effettivamente nella cassetta si fossero i 40 gr di stupefacente, anzichè le chiavi come asserito da S.U..

3.2. il difensore di M.A. deduce:

– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125 e 192 c.p.p. e art. 81 cpv. c.p., art. 110 c.p., art. 122 c.p., n. 4 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 80, lett. b).

Ad avviso del ricorrente, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza del delitto di associativo in base a meri indizi del tutto non univoci.

Si tratta di interpretazioni suggestive delle conversazioni intercettate, prive di ogni elemento concreto che possa far ritenere la sussistenza di una organizzazione dedita al traffico di stupefacente.

Vi è violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, secondo cui un fatto può essere provato soltanto in base indi gravi, precisi e concordanti; requisito che mancherebbe del tutto.

A differenza di quanto affermato più volte dalla Corte di legittimità, ad avviso del ricorrente, la Corte d’appello ha effettuato opzioni interpretative del tutto unidirezionali, utilizzando parti di intercettazioni volte alla ricerca di riscontri, mentre non sono state considerate conversazioni che avrebbero potuto smentire l’impostazione accusatoria.

La partecipazione al reato associativo finalizzato al narcotraffico va desunta da una serie di condotte significative da valutare nel loro complesso. Nel caso di specie si è pervenuti alla condanna per gli episodi di spaccio esclusivamente sulla base di conversazioni telefoniche tutt’altro che univoche e sul rinvenimento della cannabis indica all’interno della colonna montante delle tubazioni ubicata nelle vicinanze dell’abitazione di M..

L’affermazione di responsabilità è fondata sull’esito di intercettazioni che, per quanto attiene M., possono definirsi incomprensibili.

Ai fini della sussistenza del delitto previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 è richiesta la prova della cessione materiale della sostanza stupefacente, prova che manca nella quasi totalità degli episodi di spaccio ascritti a M..

Non vi certezza del quantitativo ceduto nonchè indeterminatezza della soma ricevuta.

La Corte d’appello ha disatteso quanto affermato dal giudice di legittimità, circa indici rivelatori della finalità di spaccio.

Manca la prova del dolo, poichè non vi è stato accertamento della volontà orientata alla produzione dell’evento.

La Corte d’appello ha affermato a responsabilità per il delitto di spaccio e di partecipazione all’associazione mediante una sorta di automatismo e di sovrapposizione delle due diverse condotte, disattendendo anche in tal caso le pronunce della corte di cassazione per le quali l’accertamento dei due reati richiedono la verifica di presupposti diversi.

Difetta del tutto gli elementi di prova che possano far ritenere l’imputato inserito in un cotesto associativo.

Quanto al diniego della attenuante della lieve entità, la Corte d’appello non efFettua una analisi degli elementi richiesti per la sussistenza di tale diminuente e preferisce concedere la diminuente di cui all’art. 74, comma 6, L. cit..

Non sono stati considerati gli elementi che avrebbero potuto comportate anche la diminuente del lieve entità per gli episodi di spaccio, dimenticando del tutto di tenere conto della natura della sostanza.

3.3 La difesa di Ma.An. deduce:

– violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2 in combinato disposto con l’art. 197, lett. a) nonchè vizio di motivazione sul punto.

Ad avviso della difesa, le dichiarazioni di C., rese l’8 marzo 2006 e 20 marzo 2006, avrebbero dovuto essere dichiarate inutilizzabili per violazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2 al pari di quelle rese nel corso dell’interrogatorio del pubblico ministero il 26 settembre 2006, ricorrendo l’incompatibilità prevista dall’art. 197 c.p.p., lett. a).

Erroneamente la Corte d’appello afferma che non vi erano le condizioni per le quali C. avesse dovuto essere sentito sin dall’inizio come indagato, non risultando elementi a suo carico e per tal motivo avrebbe dovuto essere applicato l’art. 63 c.p.p., comma 1.

Ad avviso della difesa, C., proprio perchè in era in stretto contatto con B.G., ucciso in un agguato, non poteva non essere ritenuto un soggetto di interesse investigativo, tenuto conto che B. era stata più volte indagato per traffico di stupefacenti.

Ciò avrebbe dovuto comportare l’applicazione dell’art. 63 c.p.p., comma 2, e, pertanto inutilizzabilità delle dichiarazioni rese erga omnes.

La Corte ritiene la non operatività della regola dell’art. 185 c.p.p., alle dichiarazioni rese successivamente a quelle inizialmente inutilizzabili, con l’assistenza del difensore, in realtà non tiene conto che quest’ultime dichiarazioni non sono state realmente rese ma sono state sinteticamente confermative delle precedenti. Tale situazione – secondo la quale la presenza del difensore è in grado di ratificare ciò che prima costitutiva una ipotesi di radicale inutilizzabilità – non può che comportare una ipotesi di inutilizzabilità radicale, è in contrasto con il principio di tassatività delle nullità e con la regola dell’art. 195 c.p.p..

– violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3 in combinato disposto con l’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. c) nonchè mancanza ed erronea motivazione in ordine alla valutazione dei riscontri.

Ad avviso della difesa, anche a ritenere utilizzabili le dichiarazioni di C., mancano specifici riscontri, nel senso che le dichiarazioni di C.P., di B. G., di c.m. non sono da considerare riscontri individualizzanti perchè ciascuno riferisce situazioni esterne all’episodio relativo all’esistenza dello stupefacente nella cassetta della posta.

– violazione degli artt. 62 e 63 c.p.p. in relazione agli artt. 192 e 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. c) nonchè mancanza ed erronea motivazione.

Le diverse dichiarazioni di Ma., rese il 12 maggio 2006 e il 16 gennaio 2007, non sono un semplice mutamento di versione, come ritenuto dalla Corte d’appello, poichè non si tiene conto che le prime sono state rese senza difensore in un momento in cui gli indizi esistenti a suo carico avrebbero dovuto imporre la presenza del difensore. Tale circostanza rende geneticamente inutilizzabili tali dichiarazioni e ciò a prescindere dalla loro veridicità o meno. Per tale ragioni esse non possono costituire riscontri alle dichiarazioni di C..

– violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 in combinato disposto con l’art. 110 c.p. in relazione all’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. c) nonchè mancanza ed erroneità della motivazione sul punto.

La censura riguarda l’affermazione di responsabilità per l’episodio di spaccio, fondata sulle dichiarazione di due tossicodipendenti. Ad avviso della difesa, tali dichiarazioni sono inutilizzabili perchè rese in assenza dei rispettivi difensori dei due tossicodipendenti.

Peraltro, non risulta che le due dichiarazioni abbiano avuto rilievo investigativo, perchè in occasione dell’arresto dei due dichiaranti Ma. non fu portato in Questura e il processo per direttissima non lo riguardò affatto.

L’ulteriore circostanza che la Corte ha ritenuto di valorizzare è quella emersa dalle intercettazioni e cioè che vi è stato un contributo nell’azione delittuosa da parte di Ma., poichè l’incontro è avvenuto proprio sotto casa dello stesso e l’intervento di Ma. ha tentato di distogliere l’attenzione su Ca. e Ci..

Ad avviso della difesa, si tratta di mere congetture prive di ogni ragionevole giustificazione. Al riguardo, manca del tutto la motivazione in ordine al coinvolgimento di Ma. se non nei limiti di una mera connivenza.

– violazione dell’art. 133 c.p. in combinato disposto con l’art. 125 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. c).

Non risulta descritte le ragioni della determinazione della pena, poichè non è chiaro l’aumento per la recidiva contestata. Ne discende l’impossibilità per la difesa di verifica re l’adeguatezza degli aumenti di pena.

3.4. La difesa di V.N. deduce.

– violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 81, 132 e 133 c.p..

Si censura la mancata unificazione nel vincolo della continuazione anche del delitto di resistenza; delitto che, per la condanna anche per la partecipazione all’associazione, manifesta una unicità di disegno criminoso volto alla stabilità del controllo del traffico di stupefacenti.

– con riferimento al capo 12 si deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Non è chiarito come sia stata raggiunta la prova del ruolo di autista nell’ambito dell’associazione.

Non vi è prova che Co. di sia incontrato con tale A. per la cessione di stupefacente.

– violazione di legge in relazione all’art. 268 c.p.p., comma 3.

Le modalità di ascolto remoto delle comunicazioni in luogo di diverso dai locali della Procura si pone in contrasto con la prescrizione di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, in quanto il pubblico ministero non ha motivato sul punto.

Motivi della decisione

1. I ricorsi di S.U., V.N. e M. A. nei confronti dei quali è stata confermata dal giudice d’appello la responsabilità, sottopongono all’esame di questa Corte questioni di diritto che richiedono un esame preliminare, poichè le ulteriori censure articolate non costituiscono altro che una mera contestazioni delle scelte di ricostruzione dei singoli episodi in base a elementi di prove dei quali si contesta l’utilizzabilità.

1.1. Una prima questione ha oggetto l’ascolto remoto delle conversazioni intercettate, le cui operazioni di registrazione sono state regolarmente effettuate mediante gli impianti in dotazione della Procura della Repubblica.

Al riguardo, la Corte d’appello si è espressa nel senso della regolarità di tali operazioni.

In realtà, la difesa ha altresì rilevato che nel provvedimento non vi era alcuna motivazione in relazione al successivo ascolto delle conversazioni presso il Comando provinciale dei Carabinieri.

La questione posta è stata risolta dalle Sezioni unite, nel senso indicato dal giudice d’appello.

In particolare, si è affermato che condizione necessaria per l’utilizzabilità delle intercettazioni è che l’attività di registrazione – che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata – avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l’utilizzo di impianti ivi esistenti, mentre non rileva che negli stessi locali vengano successivamente svolte anche le ulteriori attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati così registrati, che possono dunque essere eseguite "in remoto" presso gli uffici della polizia giudiziaria.

Le Sezioni unite hanno altresì precisato, con riguardo all’attività di riproduzione – e cioè di trasferimento su supporti informatici di quanto registrato mediante gli impianti presenti nell’ufficio giudiziario -, che trattasi di operazione estranea alla nozione di "registrazione", la cui "remotizzazione" non pregiudica le garanzie della difesa, alla quale è sempre consentito l’accesso alle registrazioni originali.

La deroga, in tal caso, non investe la prescrizioni contenuta nel richiamato art. 28 c.p.p., comma 3 – poichè le operazioni di registrazione sonno effettuate regolarmente con gli impianti in dotazione della Procura -, bensì soltanto un ulteriore aspetto dell’attività di indagine sulla base di quanto ascoltato anche dagli organi di polizia.

Per tale motivo non è richiesta alcuna specifica motivazione dal parte del pubblico ministero.

1.2. Ulteriori questioni riguardano l’utilizzabilità delle "dichiarazioni indizianti" rese da C.M. e C. F. in relazione alla vicenda che vede il coinvolgimento di Ma.An., B.G. (poi deceduto) e S. U..

La soluzione della Corte d’appello, oltre che corretta per i profili giuridici, è stata adeguatamente giustificata con una specifica e argomentata descrizione della posizione di C.G. al momento in cui egli raccontò agli inquirenti l’episodio che ha formato oggetto di imputazione.

E’ argomentato nella sentenza impugnata che C.G. in data 3 e 20 marzo 2006 fu sentito dagli organi di polizia nel corso delle indagini relative all’assassinio di B.G., fatti del tutto diversi e non collegati a quelli poi emersi dalle dichiarazioni di C. rispetto alle quali gli inquirenti – rilevato che nel corso del suo racconto C. riferiva fatti che avrebbero potuto costituire indizio di reato a proprio carico – ebbero a sospendere l’interrogatorio in qualità persona informata sui fatti, invitando il predetto a nominare un difensore di fiducia.

Le precedenti dichiarazioni rese da C. erano da ritenere inutilizzabili contra se e non anche erga alios, dovendosi applicare l’art. 62 c.p.p., comma 1 e non la disposizione del secondo comma del citato articolo, che rende inutilizzabili erga omnes le dichiarazioni rese da colui che ab origine avrebbe dovuto essere interrogato quale indagato.

Non può che essere ribadita la regala iuris che in tutti i casi in cui l’autorità procedente già era (o avrebbe potuto essere con una condotta diligente) o sia venuta a conoscenza degli indizi di reità esistenti a carico del dichiarante e proceda o continui nell’esame senza dare informare il dichiarante della sua posizione, senza formalizzarla e senza assistenza difensiva, la sanzione è sempre quella della inutilizzabilità assoluta ed erga omnes delle dichiarazioni stesse. Si è in presenza di una ipotesi patologiche, in cui deliberatamente o colpevolmente si ignorano i già esistenti indizi di reità nei riguardi dell’escusso, con pericolo di dichiarazioni accusatone "sospette" (Sez. Un., 9 ottobre 1996, dep. 21 aprile 2010 n. 1282).

Del resto, su questo punto la giurisprudenza di questa Corte ha successivamente ribadito che le dichiarazioni rese dalla persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita nella qualità di indagata sono inutilizzabili erga omnes e la verifica della sussistenza di tale qualità va condotta non secondo un criterio formale (esistenza della notitia criminis, iscrizione nel registro degli indagati), ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggetti va mente attribuibile al soggetto in base alla situazione esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese" (Sez. 6, 22 aprile 2009, dep. 9 giugno 2009 n. 23776; Sez. Un., 23 aprile 2009, dep. 9 giugno 2009 n. 23868).

In tema di prova dichiarativa, allorchè venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e quindi al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuzione allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità" (Sez. Un., 25 febbraio 2010, de. 21 aprile 2010 n. 15208).

La verifica è stata compiutamente e in termini argomentati effettuata dal giudice d’appello, e, pertanto, le dichiarazioni rese da C., sono state correttamente ritenute utilizzabili erga alios.

Peraltro, nel caso concreto rileva anche che C. ha, poi in presenza del proprio, difensore riconfermato quelle circostanze che definivano il proprio ruolo nella vicenda, pur se limitandosi a richiamare quanto detto in precedenza.

2.Le altre censure di S.U., V.N. e Ma.An. – al pari di quelle di M.A., che pone solo mere critiche alle soluzioni di merito – si limitano a contestare la ricostruzione dei singoli episodi rispetto ai quali, una volta superate gli ostacoli giuridici all’utilizzabilità di specifici mezzi di prova, si rilevano del tutto estranee al sindacato di questa Corte di legittimità, là dove con la motivazione sia stato svolto un logico ragionamento probatorio coerente con gli elementi utilizzabili ai fini del giudizio.

Il ragionamento probatorio della Corte d’appello è articolato – come esposto in sintesi e nei punti significativi in narrativa – con rigore argomentativo dapprima sulle ragioni per le quali le situazioni riferite ai singoli imputati non potessero essere ridimensionata nel senso indicato da ciascuno di essi e poi sulle risposte ai punti critici delle scelte operate dal giudice di primo grado.

2.1.Quanto all’episodio che vede C. chiamante in correità, la Corte d’appello, si è già detto in narrativa, pone in rilevo che la il racconto di C. trova riscontro in molteplici elementi i quali, unitariamente considerati, screditano la versione dei fatti oggetto dell’imputazione.

Vi è un quadro probatorio, costituito anche da una conversazione – intercettata nell’ambito di altro procedimento per un omicidio – tra B.G. e Ma.An. dalla quale emerge la prova dell’aggressione subita dallo stesso B. e C.; aggressione che Ma. ha ammesso, giustificando anche la circostanza di avere fornito lui un cacciavite e una tenaglia a B. e C., utilizzati per aprire la cassetta ove era custodita la droga; anche se poi Ma. ha modificato le proprie dichiarazioni, discordanza che, con coerenza argomentativa, per il giudice d’appello conferma l’accaduto, tenuto conto che lo stesso Ma. ha ricevuto alcune delle quaranta bustine di eroina sottratte ai fratelli S..

La vicenda – si sottolinea in sentenza – risulta anche riscontrata da quanto riferito da altre persone informate sui fatti, quali C.P., padre di C.F., B. G., e di c.m., pur se de relato.

Analoga la posizione processuali dei fratelli S., raggiunti dalle accuse C..

Il complessivo quadro probatorio – nella corretta logica ricostruttiva descritta nella sentenza impugnata – non richiede alcun ulteriore integrazione.e per tal motivo è stata respinto la richiesta della difesa di S. di risentire C..

La versione della difesa secondo cui all’interno della casetta vi fossero solo delle chiavi, oltre che meramente assertiva e chiaramente pretestuosa, non giustifica la complessiva vicenda culminata in un pestaggio.

In conclusione, si è in presenza di una descrizione accurata e coerente con i mezzi prova descritti in sentenza e sulle quali il giudice d’appello è giunto a condividere la conclusine raggiunta dal giudice di primo grado.

In tale contesto ricostruttivo, trovano adeguata risposta le assertive versioni alternative ipotizzate dalla difesa di S. U. volte a ricondurre i fatti a tutt’altra causale e a pretendere che al più si potrebbe inquadrare il tutto in un arbitrario esercizio delle proprie ragioni.

2.2. L’ulteriore episodio di cessione di eroina, già descritto in narrativa, risulta provato da conversazioni intercettate che vedono protagonisti il Ma. e Co. e ulteriore riscontro nell’intervento degli organi di polizia che hanno sequestrato l’eroina custodita in un pacchetto di sigarette, rinvenuto a poca distanza dal luogo ove erano Ma. e Co..

Anche qui, la versione alternative di fatti, risulta smentita dagli specifici elementi descritti dal giudice d’appello sui quali è sviluppato un corretto ragionamento probatorio.

2.3. Quanto all’appartenenza di V.N. all’associazione finalizzata al narcotraffico, il percorso argomentativo del giudice d’appello è del tutto aderente ai mezzi di prova descritti in sentenza, tra quali vi sono pedinamenti e osservazioni di organi di polizia che confermano gli appuntamenti che periodicamente V., nel corso delle conversazioni intercettate, programmava per gli incontri con altri sodali finalizzati allo spaccio.

La Corte d’appello, dopo avere esaminato gli atti anche nella prospettiva offerta con i motivi d’appello, condivide, attraverso un proprio argomentato apprezzamento dei mezzi di prova – tra l’altro costituiti da inequivoche conversazioni intercettate – le conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado.

Anche l’affermazioni di responsabilità per il delitto di resistenza è fondata su quanto riferito dal comandante della locale Stazione dei Carabinieri; resistenza, tra l’altro, funzionale a ostacolare il controllo e le operazioni di polizia nei confronti di altri due correi Co. e Ab..

3. A differenza degli altri ricorsi, quello di M.A., cui sono ascritti la partecipazione ad associazione finalizzata al narcotraffico nonchè episodi di cessione di stupefacente, è inammissibile poichè volto solo a propone questioni, peraltro in termini generici e non pertinenti rispetto al complessivo giudizio espresso, riguardanti valutazioni di merito effettuate dal giudice d’appello e adeguatamente motivate.

Peraltro, al di là della genericità dei contenuti essenziali che si rivelano meramente assertivi, le censure sono dirette esclusivamente a ottenere una rilettura delle risultanze processuali e un rivalutazione.

4. Altrettanto inammissibili le censure di V. e Ma.

riguardanti la determinazione della pena. La Corte d’appello (cfr.

pp. 71 ss della sentenza) ha sviluppato un proprio ragionamento in ordine alla determinazione della pena in relazione a ciascun imputato, condividendo la graduazione delle stesse operata dal giudice di primo grado e ripercorrendo le valutazioni effettuate in tal modo giungendo alla conclusione che il trattamento sanzionatone) è stato correttamente determinato nei limiti entro cui le singole vicende ascritte agli imputati ne consentivano una ragionevole graduazione.

Le censure, pertanto, non sono altro che dirette a contestare valutazioni di merito correttamente espresse dal giudice d’appello e coerenti con le risultanze processuali esposte nella sentenza.

6. In conclusione, i ricorsi di S.U., V.N. e Ma.An. sono, dunque, infondati e vanno rigettati con la condanna al pagamento delle spese processuali.

Il ricorso di M.A. è inammissibile per manifesta infondatezza e per avere proposto censure non consentite nel giudizio di legittimità e, a norma dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, a versare una somma, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n. 186.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso di M.A. e rigetta i residui ricorsi, condannando tutti i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e il M. anche al versamento della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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