Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14051

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Svolgimento del processo
Con sentenza n. 78/11/09 depositata il 24.6.2009 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Dogane avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano 19731/2007 che accoglieva il ricorso proposto dalla società S. s.r.l. avverso tre provvedimenti di erogazione di sanzione emesso dall’Agenzia delle Dogane di Milano.
Le sanzioni traggono origine dalle risultanze della missione comunitaria svolta dall’OLAF (organismo europeo antifrode) in Giamaica, in ottemperanza dell’accordo ACP- UE siglato a Cotonou il 23/6/2000 al fine di accertare l’origine delle merci esportate dalla Giamaica verso l’unione europea dal gennaio 2000 al dicembre 2004, sia la regolarità dei relativi certificati di origine preferenziale EUR 1.
In forza dell’accordo di Cotonou le merci originarie della Giamaica scortate da apposito certificato (EUR 1)che tale origine comprovi, beneficiavano di un trattamento daziario preferenziale all’atto dell’importazione nell’UE, consistente nell’esenzione dal dazio (fissato nel 12,20% del valore della merce).
L’autorità giamaicana non confermava la validità di tali certificati e gli Stati membri sono stati invitati al recupero dei maggiori diritti doganali dovuti sulle importazioni oggetto di indagine.
Il provvedimento, oggetto della presente controversia si fonda sui risultati dell’accertamento operato secondo cui alla merce in questione non poteva essere riconosciuta l’origine preferenziale "Giamaica", poichè i certificati EUR 1 rilasciati dalle autorità giamaicane erano irregolari e, pertanto, non potevano godere del trattamento preferenziale.
La commissione tributaria regionale della Lombardia, confermando quanto affermato già nella sentenza di primo grado, ha rigettato l’appello dell’Agenzia delle Dogane in quanto: a) l’origine della merce non sarebbe inclusa nella previsione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD, b) mancherebbe l’elemento soggettivo caratterizzato dalla colpa o dolo in capo ai responsabili della società.
L’Agenzia delle Dogane impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:
a) violazione e falsa applicazione di norme di diritto in quanto la CTR avrebbe erroneamente interpretato il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 nella parte in cui non punisce ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione che concerne i suoi elementi essenziali e quindi non solo la quantità e qualità il valore della merce bensì anche l’"origine" delle stesse;
b) violazione e falsa applicazione di norme di diritto in quanto, in applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 ricadrebbe sull’importatore che utilizza irregolari o falsi certificati di origine preferenziale una presunzione di colpevolezza che deve essere superata con la prova di aver adottato la necessaria diligenza professionale;
c) vizio di motivazione della sentenza impugnata in relazione all’iter logico seguito per giungere alla conclusione della non operatività del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303.
La società intimata si è costituita nel giudizio di legittimità con controricorso, depositando anche memoria.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 7.6.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
1) Il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 (secondo cui "Qualora le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra Dogana con bolletta di cauzione, non corrispondano all’accertamento,…") va interpretato nel senso che include anche le difformità concernenti la "origine" delle merci in quanto elemento descrittivo delle qualità dei prodotti, punendo ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione che concerne i suoi elementi essenziali e quindi non solo la quantità, qualità e valore della merce bensì anche l’"origine" della stessa.
Va premesso che trattasi di interpretazione di disposizioni avente carattere amministrativo e non penale, inerenti a violazioni formali, cioè difformità accertate rispetto alla dichiarazione doganale, punite con sanzione amministrativa a seguito della depenalizzazione delle L. n. 707 del 1995 e L. n. 689 del 1981.
Pur soggiacendo le sanzioni amministrative al principio di legalità, sono soggette ad interpretazione estensiva in base alle regole dell’art. 12 preleggi.
Il sistema normativo doganale che in numerose norme del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, distingue l’elemento della "origine/provenienza/destinazione" della merce rispetto agli altri elementi propriamente "descrittivi" della merce (qualità, quantità, valore) (cfr l’art. 208, che determina i criteri per la liquidazione dei diritti alla reimportazione, tiene conto (comma 1) soltanto della "quantità e qualità …e del valore delle merci temporaneamente esportate", ma al comma 3 considera implicitamente anche l’origine/provenienza della merce, prendendo in considerazione il caso in cui 7 prodotti da reimpostare beneficino di un regime preferenziale tariffario").
Il concetto giuridico di "qualità" è inerente alla natura della merce e, secondo la giurisprudenza civilistica, "riguarda le differenze di sostanza, di razza, di materia, di tessuto, di fibra, di colore, di metodo e di origine" (cfr. la fondamentale Cass. 2544/1970, in tema di mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.; coni Cass. 593/1995, 3569/1971). Del resto, è indiscutibile, sul piano logico, che la "qualità" di una merce non sia altro che il coacervo degli elementi distintivi di essa e tra i medesimi il dato di "origine" assume una connotazione del tutto peculiare. Se ciò vale sul piano del linguaggio giuridico civilistico, non si vede perchè il legislatore tributario dovesse adottare nel 1973 una diversa nozione di "qualità", come attinente alla sola "sostanza" dei beni oggetto d’importazione e non alla loro origine/provenienza da un determinato Paese.
L’elemento della "origine" della merce assume rilevanza determinante nel diritto doganale in quanto direttamente correlata alla applicazione di norme antidumping ovvero di norme di esenzione od agevolative (nei regimi c.d. preferenziali).
In tali fattispecie doganali, si caratterizza infatti come elemento "costitutivo" del diritto alla applicazione del dazi ovvero del diritto alla esenzione dal dazio e, avuto riguardo all’ampio spettro delle ipotesi di illecito sanzionate dal TULD – con specifico riferimento ai vizi della dichiarazione, la individuazione di una "zona franca" deve trovare evidente giustificazione alla stregua dei principi di ragionevolezza e coerenza logica interna della stessa norma sanzionatoria, diversamente venendo a prospettarsi dubbi sulla stessa legittimità costituzionale della stessa.
Occorre in proposito considerare come anche la norma legge che non presenti equivoci o dubbi interpretativi nel significato fatto palese delle parole, debba tuttavia rispondere ad intrinseci criteri di logicità, non potendo sottrarsi al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. al quale deve necessariamente conformarsi, all’occorrenza attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata del contenuto precettivo, in difetto incorrendo nel vizio di legittimità costituzionale per violazione dell’indicato parametro. Inoltre non è dato ricavare alcuna chiara "voluntas legis" intesa a giustificare la sottrazione dalla fattispecie illecita della inesattezza della dichiarazione sulla origine dei prodotti. Alla stregua del criterio ermeneutico indicato è dunque possibile eliminare la aporia riscontrata, conformando la norma sanzionatoria al principio costituzionale di ragionevolezza, ritenendo estesa la previsione dell’illecito di cui al D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD anche alle inesattezze contenute nella dichiarazione concernenti la origine, la provenienza e la destinazione delle merci (D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 4, comma 2, lett. e), in quanto ipotesi da ritenersi implicitamente considerate nella fattispecie normativa sanzionatoria.
Tenuto conto del rilievo imprescindibile e prioritario del concetto di "origine" nelle fonti comunitarie e nazionali e della sua inerenza, logica e giuridica, alla nozione di "qualità" come tradizionalmente affermatasi nell’esperienza civilistica di diritto interno, si deve concludere che il legislatore del 1973, nel far migrare il vecchio art. 118 LD nel nuovo art. 303 TULD e nell’omettere il riferimento all’origine delle merci, abbia solo realizzato una mera semplificazione testuale, ampiamente giustificata, sul piano lessicale, proprio dall’inerenza del dato di "origine" alla nozione riassuntiva e omnicomprensiva di "qualità".
Dunque, dinanzi a una parola polisensa come "qualità", il suo significato giuridico va contestualizzato in relazione alla disposizione, nella specie sanzionatoria, dove è inserita e al bene giuridico che detta disposizione tutela: ossia, quanto al D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, la correttezza e la completezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, i quali non possono che caratterizzarsi proprio per la particolare attenzione ai luoghi di origine delle merci transfrontaliere.
Tale interpretazione si impone anche non solo in forza dei principi nazionali di interpretazione del diritto, quanto per la natura cogente della normativa comunitaria e delle pronunce della Corte di giustizia di materia.
Ai sensi dell’art. 66 e seg. del Reg. CEE n. 2454/93 del 2.7.1993 della commissione, la comunità europea accorta preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di paesi in via di sviluppo.
In forza di tale regolamento, applicabile tutti paesi dell’unione europea, i parametri in base ai quali una determinata merce viene assoggettata ai diritti di confine sono: qualità, quantità, valore e origine.
Pertanto l’esatta classificazione dell’origine della merce concorre nella tassazione in maniera determinante, contribuendo a realizzare misure protezionistiche, quali l’antidunping oppure misure a sostegno delle economie dei paesi sviluppati e, in tal caso, si parla di origine preferenziale quando la norma comunitaria prevede una deroga di favore al dazio e alla fiscalità dovrebbe essere assoggettata una determinata merce provenienti da paesi extracomunitari.
Il certificato di origine, ai sensi dell’art. 81 Reg. CEE n. 2454/93 è condizione per l’ottenimento del beneficio daziario all’atto dell’introduzione della merce nella comunità, rappresentato dal certificato EUR 1 che costituisce prova dell’origine della merce, mentre l’autorità doganale del paese importatore, nella fattispecie la dogana italiana, non ha alcuno autonomo potere di determinazione in ordine all’accertamento dell’origine del prodotto, dovendo procedere al riscontro particolare del certificato d’origine.
Tale interpretazione va desunta, in particolare, dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 15.12.2011, C-409/10, emessa nella vicenda all’origine delle operazioni import-export per cui è causa.
Come la Corte ha ripetutamente giudicato in tale contesto, allorchè il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci indicate in un certificato EUR. 1, si deve concludere che dette merci sono di origine ignota e che, pertanto, il certificato EUR. 1 e la tariffa preferenziale sono stati concessi indebitamente (sentenze 7 dicembre 1993, causa C 12/92, Huygen e a., Racc. pag. I 6381, punti 17 e 18; 14 maggio 1996, cause riunite C 153/94 e C 204/94, Faroe Seafood e a., Racc. pag. I 2465, punto 16, nonchè Beemsterboer Coldstore Services, cit., punto 34).
Tale giurisprudenza osta a che l’importatore possa sottrarsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione, facendo valere l’origine ignota delle merci e, quindi, la circostanza che non si possa escludere che talune tra esse abbiano l’origine preferenziale indicata nei certificati EUR. 1 annullati. Risulta, al contrario, dalla giurisprudenza che il recupero a posteriori dei dazi doganali non versati all’atto dell’importazione costituisce una normale conseguenza del fatto che il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci come indicata nel certificato EUR. 1 (citate sentenze Huygen e a., punto 19, e Faroe Seafood e a., punto 16).(Corte di Giustizia UE 15.12.2011, C-409/10, n. 45 e 46).
In forza di tale pronuncia e del regolamento comunitario citato deve ritenersi che l’art. 303 TULD, in forza di un’interpretazione comunitariamente orientata, sanzioni anche la irregolare/falsa dichiarazione di origine del prodotto, essendo la società sanzionata responsabile del pagamento dei dazi evasi. 12.
2) Anche il secondo motivo è fondato.
L’importatore che utilizza irregolari o falsi certificati di origine preferenziale delle merci per usufruire dei benefici daziali indebiti è responsabile per relative sanzioni, ai sensi dell’articolo cinque D.Lgs. n. 472 del 1997 qualora non provi di aver adottato la necessaria diligenza professionale nella verifica della correttezza dell’operato di terzi con i quali è entrato in contatto e dei quali provengono le certificazioni e dichiarazioni utilizzati.
Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 come per tutte le sanzioni amministrative tributarie, pone una responsabilità per fatto proprio, cioè l’aver utilizzato false attestazioni di origine, contenute nei certificati EUR 1, in violazione dell’art. 98, comma 1, lett. b) Reg. Cee 2454/93 e non limita la responsabilità per le sanzioni al solo "dolo o o colpa" richiedendosi una indagine completa sul profilo della negligenza dell’autore della violazione anche per l’operato delle persone che da lui dipendono o con lui collaborano.
Viene sanzionata dalla normativa in materia non la mera indicazione non veritiera dell’origine della merce ma la utilizzazione di tali false attestazioni da parte dell’importatore per ottenere benefici daziari indebiti, trattandosi di responsabilità per fatto proprio (utilizzazione di false attestazioni di origine) e non per violazione di obblighi altrui.
Il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5 applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3 stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. Ciò va inteso nel senso della sufficienza della coscienza e della volontà, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, lasciando a costui l’onere di provare di aver agito senza colpa, sicchè va esclusa la rilevabilità d’ufficio di una presunta carenza dell’elemento soggettivo, sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22890 del 25/10/2006; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13068 del 15/06/2011).
Quindi, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3 l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza.
La CTR ha escluso la colpa della società in considerazione di circostanze generiche neanche esaminate e indicate nella sentenza, affermando erroneamente che il relativo onere gravasse sull’Ufficio.
3) Il terzo motivo deve invece essere dichiarato inammissibile in quanto:
– difetta del requisito di specificità, in quanto la ricorrente denuncia il vizio motivazionale ma indica quale parametro di sindacato di legittimità l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) che contempla il differite vizio di "error juris" – non è corredato della chiara formulazione sintetica del punto controverso come previsto dall’art. 366 bis c.p.c. norma processuale applicabile "ratione temporis" (cfr. Corte cass. SU 14.10.2008 n. 2511. Vedi Corte cass. SU 1.10.2007 n. 20603, id. Ili sez. 7.4.2008 n. 8897).
– risolve l’intera esposizione dell’asserito vizio motivazionale negli argomenti in diritto già svolti a sostegno del primo motivo, contestando la interpretazione letterale dell’art. 303 TULD compiuta dai Giudici di appello.
6. In conclusione il ricorso deve essere accolto quanto al primo ed al secondo motivo, inammissibile il terzo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2 con il rigetto del ricorso introduttivo proposto dalla società contribuente.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo, dichiarate interamente compensate tra le parti le spese dei gradi di merito.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo della società contribuente;
condanna la parte resistente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.500,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito, dichiarando interamente compensate le spese relative ai gradi di merito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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