Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14048

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Svolgimento del processo
La CTR della Lombardia, con la sentenza n. 174/24/09, depositata il 24.11.2009, in riforma della decisione della CTP di Milano, ha rigettato il ricorso della G. S. S.p.A., importatrice dalla Giamaica di prodotti di maglieria, volto ad ottenere l’annullamento della sanzione D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, ex art. 303 TULD. I giudici d’appello hanno ritenuto che: 1) l’inesatta dichiarazione dell’origine delle merci è sanzionato come illecito amministrativo, ai sensi del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, comma 3, TULD, quando provoca un minor gettito per la finanza pubblica di almeno il 5%; 2) l’onere della prova della buona fede o dall’assenza di colpa gravava sulla Società contribuente e non sul fisco; 3) la responsabilità dell’importatrice, tenuta ad adottare ogni opportuno accorgimento onde evitare le frodi non era esclusa da eventuali carenze delle autorità doganali giamaicane, facultate ad effettuare controlli, ma non obbligate a farli.
La Società importatrice ricorre per la cassazione di tale sentenza, sulla scorta di sei motivi. L’Agenzia delle Dogane ha resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione di legge del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente sostiene che la sentenza impugnata ha errato nel ritenere diverse le condotte punite dal 1 comma e dal 3 comma della disposizione in esame, quando, invece, la condotta incriminatrice è individuata dal solo 1 comma, mentre il 3 comma, che non contiene la descrizione di alcuna condotta illecita, costituisce, solo, una circostanza aggravante.
Col secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 12 preleggi, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando che il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 non enuncia, tra i suoi parametri, quello dell’origine della merce, sicchè una corretta interpretazione, secondo il significato proprio delle parole, conduce ad escludere che l’erronea indicazione dell’origine costituisca un illecito passibile di sanzione.
Col terzo motivo, si deduce, nuovamente, la violazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD, nonchè del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 per avere la CTR violato il principio della riserva di legge, previsto dall’ordinamento anche nel settore delle sanzioni amministrative, principio che comporta il divieto di estensione analogica di ogni disposizione sanzionatrice, oltre i casi ed i tempi in essa previsti.
I motivi, che per la loro connessione vanno congiuntamente esaminati, sono infondati, dovendo, tuttavia correggersi la motivazione della sentenza impugnata ex art. 384 c.p.c.. E’, bensì, vero, infatti, che questa Corte, con due decisioni del 1999 (nn. 2590 e 10898), ha chiarito che la fattispecie regolata dal D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD è sostanzialmente unica, in quanto il suo contenuto è delineato nel comma 1 mentre il comma 3 configura, solo, una circostanza aggravante, di tal che il diverso principio affermato nell’impugnata sentenza è erroneo, ma ciò, diversamente dall’assunto dalla contribuente, non è risolutivo: la circostanza che la norma punitiva menzioni, nel descrivere l’illecito amministrativo, solo, valore, quantità e qualità della merce, senza operare un riferimento testuale all’origine è logicamente e giuridicamente irrilevante. E’ noto, infatti, che il concetto giuridico di qualità è inerente alla natura della merce e, secondo la giurisprudenza civilistica, riguarda le differenze di sostanza, di razza, di materia di tessuto, di fibra, di colore, di metodo e di origine (cfr., in particolare, Cass. n. 2544/1970, in tema di mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.). Del resto, è indiscutibile, sul piano logico, che la qualità di una merce non sia altro che il coacervo degli elementi distintivi di essa e tra i medesimi il dato di origine assume una connotazione del tutto pregnante. Se ciò vale sul piano del linguaggio giuridico civilistico, non si vede perchè il legislatore tributario abbia dovuto adottare, nel 1973, una diversa nozione di qualità, come attinente alla sola sostanza dei beni oggetto d’importazione e non alla loro origine/provenienza da un determinato Paese.
Nella specie, va rilevato che le merci giamaicane, scortate dall’apposito certificato d’origine EUR. 1, beneficiano di esenzione dal dazio all’atto dell’importazione nell’UE, in virtù dell’Accordo di Cotonou (cfr. artt, 1 e 100; Allegato 5, art. 1, e correlato Protocollo 1, art. 2, n. 1, art. 15, n. 1, art. 28, n. 1, art. 31, n. 1 – 2 comma 1, art. 32) tra UE e i Paesi dell’Area ACP (Africa, Caraibi, Pacifico): il rilievo centrale della veridicità dell’origine delle merci importate è, del tutto, evidente, essendo, appunto, il presupposto del trattamento daziario preferenziale (v.
per un altro esempio il c.d. "cumulo regionale" per l’Area ASEAN:
Brunei, Indonesia, Laos, Vietnam, etc). Ne deriva che, seguendo la tesi della CTR, resterebbe privo di deterrenza sanzionatoria il punto più delicato del complesso sistema con il quale TUE accorda preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo, ai sensi del Reg. 2454/93 (art. 66 e segg.), che individua, proprio, nella prova dell’origine della merce il fulcro centrale della prevenzione antifrodi (v. anche All. 5 all’Acc. Cotonou, art. 2, n. 1).
Pertanto, tenuto conto del rilievo imprescindibile e prioritario del concetto di "origine" sia nelle fonti nazionali (D.Lgs. n. 374/902, art. 8 e art. 4, comma 2; D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, artt. 65, 73, 84, 91, 149, 165, 175 179 etc TULD) che in quelle comunitarie (artt. 1 e 4 del Reg 802/68; Cod. Dog. Tit. 2 cap. 2, artt. 58, 133, 147, 220) ed, inoltre, della sua inerenza, logica e giuridica, alla nozione di qualità come tradizionalmente affermatasi nell’esperienza civilistica di diritto interno, si deve concludere che il legislatore del 1973, nel far trasmigrare il vecchio art. 118 L.D. nel nuovo D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD e nell’omettere il riferimento all’origine delle merci, abbia realizzato, solo, una mera semplificazione testuale, ampiamente giustificata, sul piano lessicale, proprio dall’inerenza del dato di "origine" alla nozione riassuntiva e omnicomprensiva di qualità.
Analogamente si è comportato il legislatore del 2012 nel decreto sulla semplificazione fiscale, che ha, solo, ridisegnato il regime sanzionatorio del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD mediante il D.L. n. 16 del 2012, art. 11, comma 4. Anzi, la Relazione (in Atti parlamentari – Senato della Repubblica – n. 3184 – pag. 63) evidenzia che "la norma rappresenta un presidio per le condotte che pur non essendo ascrivibili a fattispecie penalmente rilevanti, costituiscono grave pregiudizio per la scorrevolezza dei traffici e per l’efficienza dei controlli" e rileva che si tratta di "norme poste a presidio della correttezza e della completezza delle dichiarazioni doganali" e dirette a sollecitare "l’attenzione delle categorie professionali e degli operatori economici che agiscono nel commercio internazionale".
Dunque, dinanzi a una parola dotata di più significati come "qualità", la sua accezione giuridica va contestualizzata in relazione alla disposizione, nella specie sanzionatoria, dove è inserita e al bene giuridico che detta disposizione tutela: ossia, quanto al D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 del TULD, la correttezza e la completezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, i quali non possono che caratterizzarsi, proprio, per la particolare attenzione ai luoghi di origine delle merci transfrontaliere.
Il quarto motivo denuncia la violazione del D.P.R. n. 472 del 1997, artt. 5 e 6 in relazione all’elemento soggettivo minimo della colpa.
La ricorrente afferma l’inapplicabilità della sanzione nei casi in cui l’inosservanza di adempimenti tributari derivi dalla condotta fraudolenta di soggetti diversi dall’incolpato, ed aggiunge che l’assunto dei giudici d’appello secondo cui la non imputabilità sarebbe "prevista solo per i pagamenti non eseguiti e non per tutte le violazioni tributarie (D.Lgs. N. 472 del 1997, artt. 5 e 6)" contrasta col principio secondo cui, per affermare la colpevolezza, è necessario un comportamento colposo del contribuente. Col quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione del D.P.R. n. 472 del 1997, art. 5 in relazione all’art. 220, par. 2 lett. b) del CDC, e dell’art. 15 dell’accordo di Cotonou nonchè dell’art. 2700 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando, da una parte, che il controllo delle dichiarazioni effettuate dall’esportatore spetta esclusivamente all’autorità doganale del Paese emittente il certificato EUR.l, cui incombe, proprio, un obbligo di controllo, e dall’altra, che tali certificati costituiscono a tutti gli effetti atti fidefacienti che esplicano i loro effetti fino a che non siano revocati dal Paese che li ha emessi. Col sesto mezzo, la ricorrente denuncia vizi motivazionali circa la carenza di prova, ritenuta dai giudici d’appello, in ordine al comportamento diligente da lei posto in essere "per assicurarsi il rispetto delle condizioni previste dall’Accordo di Cotonou da parte dei propri fornitori", evidenziando che, secondo il verbale dell’OLAF del 23.3.2005, le stesse autorità giamaicane avevano avute difficoltà ad individuare la truffa, sicchè nessun rimprovero di negligenza poteva esserle mosso.
I motivi, che, per la loro connessione e per comodità espositive, vanno congiuntamente esaminati, sono infondati, anche se, anche in questo caso, va, parzialmente, corretta la motivazione della sentenza impugnata, ex art. 384 c.p.c.. In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, cui deve potersi imputare un comportamento quanto meno negligente, ancorchè non necessariamente doloso. E’, insomma, sufficiente una condotta cosciente e della volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, addossandogli l’onere di provare il contrario (Cass. 22890/2006; conf. 13068/2011, cfr.
4171/09, sulla non necessità di un intento fraudolento). L’esimente della buona fede, rileva, invece, solo se l’errore sia inevitabile, occorrendo che l’ignoranza dei presupposti dell’illecito sia incolpevole, non superabile, cioè, con l’uso della normale diligenza (Cass. 10607/03, in tema d’importazione di valuta).
Ora, se il riferimento, in sè criptico, al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6 contenuto nell’impugnata sentenza, non è, in effetti, pertinente, non essendo stata dedotta alcuna fattispecie riconducibile alle ipotesi in essa disciplinate, occorre rilevare che correttamente i giudici d’appello hanno ritenuto che la prova liberatoria non era stata fornita dall’importatrice. In particolare, la circostanza che, a norma dell’art. 15, comma 5, del protocollo 5 dell’Accordo di Partenariato, il rilascio dei certificati d’origine preferenziale avvenga sulla scorta delle dichiarazioni dall’esportatore, ed il fatto che le autorità doganali che rilasciano il certificato siano tenute ad adottare "tutte le misure necessarie per verificare il carattere originario dei prodotti e l’osservanza degli altri requisiti" del protocollo, attiene alla predisposizione delle misure stesse, ma non implica che la dogana del paese d’esportazione sia responsabile dell’inesattezza della dichiarazione relativa all’origine dei capi, a causa del mancato controllo, controllo che, invero, può procedere "per sondaggio" o su richiesta dello stato importatore, e che costituisce, comunque, una facoltà – e non obbligo, nè tanto meno per ogni dichiarazione – per lo stato che riceve la dichiarazione, il quale può, appunto, "richiedere qualsiasi prova e di procedere a qualsiasi controllo" che ritenga utile ad accertare la veridicità delle dichiarazioni stesse (art 33, co. 5, Prot. cit). La natura "vincolante" relativa al valore dei certificati EUR. 1 di cui alla sentenza della Corte di Giustizia in data 9.2.2006, resa nei procedimenti riuniti C-23/04 e C-25/04, invocata dalla ricorrente, non è qui pertinente, attenendo all’obbligo degli stati d’importazione "di prendere in considerazione le decisioni giurisdizionali", pronunciate nello Stato di esportazione, sui ricorsi avverso i risultati del controllo di validità dei certificati, effettuato dalle autorità doganali dello Stato di esportazione. Del pari, non evocata a proposito è la sentenza della Corte di Giustizia in data 25.7.2008, resa nel procedimento C-204/07, che attiene all’incidenza del mancato assolvimento del dovere di vigilanza e di controllo della Commissione nella valutazione dell’esistenza della "situazione particolare", ai fini dell’applicazione della clausola generale di equità, di cui all’art. 239 c.d.c..
Non può sottacersi, poi, che la sanzione è riconnessa all’utilizzo negligente dei certificati invalidi (in relazione all’origine delle merci), e che l’onere della prova, per andarne esente, implicava l’allegazione, prima, e la dimostrazione, poi, di una condotta positiva da parte della società importatrice e volta ad assicurare il rispetto di tutte le condizioni per la fruizione del trattamento preferenziale, prova che non consta esser stata dedotta e che lungi dall’esser diabolica – come sostiene la ricorrente laddove si interroga su "quali comportamenti … avrebbe dovuto tenere per andare esente da colpa" – ben avrebbe potuto esser dedotta, ad esempio, mediante la richiesta e l’esecuzione di verifiche, presso il soggetto fornitore/esportatore, di caratteristiche, tecniche e modi di lavorazione della merce acquistata ed importata (cfr. Cass. n 5343 del 2006). Ed, infatti, la diligenza esigibile dalla Società, "operante nel settore della maglieria di pregio" (così nel ricorso), va determinata alla luce della giurisprudenza comunitaria e di questa Corte, secondo cui l’importatore "non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati" (cfr., in cause riunite T-10/97 e T-11/97, dec. 09/06/1998 par.60) e l’invalidità di un certificato d’origine "fa parte dei rischi professionali connessi all’attività dell’importatore" (cfr., in causa T-290/97, dec. 18/01/2000 par. 83 e, in causa T-239/00, dec. 04/07/2002 par. 55), non essendo la Comunità europea tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, che rientrano, appunto, nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici possono e devono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (cfr. Cass. 14509/08).
Il ricorso va, in conclusione, respinto, restando assorbito ogni ulteriore profilo del prospettato vizio motivazionale, e la ricorrente va condannata, per il principio della soccombenza, al pagamento delle spese in favore dell’Ufficio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 10.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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