Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14046

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Svolgimento del processo
La CTR della Lombardia, con la sentenza n. 63/11/09, depositata il 25.5.2009, ha confermato la decisione della CTP di Milano che, su ricorso della S.p.A. A. Italia, importatrice dalla Giamaica di prodotti di maglieria, aveva annullato la sanzione ex art. 303 del TULD. I giudici d’appello hanno ritenuto che l’ipotesi, contestata nella specie, di dichiarazione non veritiera relativa all’origine della merce non era contemplata dalla norma incriminatrice, ed hanno, perciò, escluso la fondatezza dell’interpretazione storico-esegetica sostenuta dalla Dogana, perchè contraria al principio della riserva di legge in materia di sanzioni amministrative; considerazione che assorbiva la questione relativa alla mancata prova, il cui onere incombeva all’Ufficio, dell’elemento soggettivo, pure rilevata, in modo condivisibile, dai primi giudici.
L’Agenzia delle Dogane ricorre per la cassazione di tale sentenza, sulla scorta di tre motivi. La Società contribuente resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione dell’art. 303 del TULD, D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente sostiene che la sanzione prevista dall’art. 303 cit. riguarda ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che il comma 3 della norma in esame non pone distinzioni di fattispecie e che il comma 1 menziona le difformità di qualità da interpretarsi estensivamente (e non analogicamente) come comprensive, anche, delle diversità di origine. Sotto altro profilo, prosegue la ricorrente, la CTR ha errato nel non considerare i principi generali che disciplinano il sorgere delle obbligazioni doganali e nel non tener conto che il relativo mancato adempimento costituisce fonte della responsabilità sanzionatoria di cui all’art. 303 del TULD, norma a presidio di ogni irregolarità ascrivibile all’operatore in materia di obblighi di dichiarazione.
Il motivo è fondato. Va ricordato che questa Corte, con due decisioni del 1999 (nn. 2590 e 10898), ha chiarito che la fattispecie regolata dall’art. 303 è sostanzialmente unica, in quanto il suo contenuto e" delineato nel comma 1 mentre il comma 3 configura solo una circostanza aggravante. Ciò, diversamente dall’assunto dalla contribuente, non è risolutivo: è vero che la norma punitiva menziona, nel descrivere l’illecito amministrativo, solo, valore, quantità e qualità della merce, ma la mancanza di riferimento testuale all’origine è logicamente e giuridicamente irrilevante. E’ noto, infatti, che il concetto giuridico di qualità è inerente alla natura della merce e, secondo la giurisprudenza civilistica, riguarda le differenze di sostanza, di razza, di materia, di tessuto, di fibra, di colore, di metodo e di origine (cfr, in particolare Cass. n. 2544/1970, in tema di mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.). Del resto, è indiscutibile, sul piano logico, che la qualità di una merce non sia altro che il coacervo degli elementi distintivi di essa e tra i medesimi il dato di origine assume una connotazione del tutto pregnante. Se ciò vale sul piano del linguaggio giuridico civilistico, non si vede perchè il legislatore tributario abbia dovuto adottare, nel 1973, una diversa nozione di qualità, come attinente alla sola sostanza dei beni oggetto d’importazione e non alla loro origine/provenienza da un determinato Paese.
Nella specie, va rilevato che le merci giamaicane, scortate dall’apposito certificato d’origine EUR.1, beneficiano di esenzione dal dazio all’atto dell’importazione nell’UE, in virtù dell’Accordo di Cotonou (cfr. artt. 1 e 100; Allegato 5, art. 1, e correlato Protocollo 1, art. 2, n. 1, art. 15, n. 1, art. 28, n. 1, art. 31, comma 1, nn. 1-2, art. 32) tra UE e i Paesi dell’Area ACP (Africa, Caraibi, Pacifico): il rilievo centrale della veridicità dell’origine delle merci importate è, del tutto, evidente, essendo, appunto, il presupposto del trattamento daziario preferenziale (v.
per un altro esempio il c.d. "cumulo regionale" per l’Area ASEAN:
Brunei, Indonesia, Laos, Vietnam, etc). Ne deriva che, seguendo la tesi della CTR, resterebbe privo di copertura -dunque di deterrenza sanzionatoria- il punto più delicato del complesso sistema con il quale TUE accorda preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo, ai sensi del Reg. 2454/93 (art. 66 e segg.), che individua, proprio, nella prova dell’origine della merce il fulcro centrale della prevenzione antifrodi (v. anche All. V all’Acc. Cotonou, art. 2 n. 1).
Pertanto, tenuto conto del rilievo imprescindibile e prioritario del concetto di "origine" nelle fonti nazionali (D.Lgs. n. 374 del 1902, art. 8 e art. 4, comma 2; artt. 65, 73, 84, 91, 149, 165, 175 e 179 etc del TULD) e comunitarie (artt. 1 e 4 del Reg 802/68; Cod. Dog.
Tit. 2 cap. 2, artt. 58, 133, 147, 220) ed, inoltre, della sua inerenza, logica e giuridica, alla nozione di qualità come tradizionalmente affermatasi nell’esperienza civilistica di diritto interno, si deve concludere che il legislatore del 1973, nel far trasmigrare il vecchio art. 118 L.D. nel nuovo art. 303 TULD e nell’omettere il riferimento all’origine delle merci, abbia realizzato, solo, una mera semplificazione testuale, ampiamente giustificata, sul piano lessicale, proprio dall’inerenza del dato di "origine" alla nozione riassuntiva e omnicomprensiva di qualità.
Analogamente si è comportato il legislatore del 2012 nel decreto sulla semplificazione fiscale, che ha solo ridisegnato il regime sanzionatorio dell’art. 303 TULD mediante il D.L. n. 16 del 2012, art. 11, comma 4. Anzi, la Relazione (in Atti parlamentari -Senato della Repubblica – n. 3184 – pag. 63) evidenzia che "la norma rappresenta un presidio per le condotte che pur non essendo ascrivibili a fattispecie penalmente rilevanti, costituiscono grave pregiudizio per la scorrevolezza dei traffici e per l’efficienza dei controlli" e rileva che si tratta di "norme poste a presidio della correttezza e della completezza delle dichiarazioni doganali" e dirette a sollecitare "l’attenzione delle categorie professionali e degli operatori economici che agiscono nel commercio internazionale".
Dunque, dinanzi a una parola dotata di più significati come "qualità", la sua accezione giuridica va contestualizzata in relazione alla disposizione, nella specie sanzionatoria, dove è inserita e al bene giuridico che detta disposizione tutela: ossia, quanto all’art. 303 TULD, la correttezza e la completezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, i quali non possono che caratterizzarsi proprio per la particolare attenzione ai luoghi di origine delle merci transfrontaliere.
Il secondo mezzo, denunciando violazione di legge (TULD, art. 303;
D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5; art. 2697 c.c.), censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha trascurato che l’utilizzatore di certificati di origine preferenziale, falsi o irregolari, è responsabile delle sanzioni ex art. 303 cit., se non provi d’aver adottato la necessaria diligenza professionale nelle verifica dell’operato di terzi con i quali ha operato e dai quali provengono le certificazioni e dichiarazioni stesse.
La doglianza è fondata. In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta, anche, la consapevolezza del contribuente, al quale deve potersi imputare un comportamento quanto meno negligente, ancorchè non necessariamente doloso. E’, insomma, sufficiente una condotta cosciente e della volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, ponendogli l’onere di provare il contrario (Cass. 22890/2006; conf.
13068/2011, cfr. 4171/09, sulla non necessità di un intento fraudolento). L’esimente della buona fede, rileva, invece, solo se l’errore sia inevitabile, occorrendo che l’ignoranza dei presupposti dell’illecito sia incolpevole, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass. 10607/03, in tema d’importazione di valuta).
Erra, dunque, il giudice d’appello, nel ritenere che non sussisteva la prova dell’elemento soggettivo, il cui onere faceva capo all’Ufficio, dato che, proprio al contrario, la prova liberatoria avrebbe dovuto esser fornita dall’importatrice ed esser rapportata alla diligenza da lei esigibile alla luce della giurisprudenza comunitaria e nazionale, secondo cui l’importatore "non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati" (cfr., in cause riunite T-10/97 e T-11/97, dec. 09/06/1998 60) e l’invalidità di un certificato d’origine "fa parte dei rischi professionali connessi all’attività dell’importatore" (cfr., in causa T-290/97, dec. 18/01/2000 83 e, in causa T-239/00, dec. 04/07/2002 55), non essendo la Comunità Europea tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, che rientrano, appunto, nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici possono e devono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (cfr. Cass. 14509/08). In particolare, la circostanza che, a norma dell’art. 15, comma 5, del protocollo 5 dell’Accordo di Partenariato, il rilascio dei certificati d’origine preferenziale avvenga sulla scorta delle dichiarazioni dall’esportatore, ed il fatto che le autorità doganali che rilasciano il certificato siano tenute ad adottare "tutte le misure necessarie per verificare il carattere originario dei prodotti e l’osservanza degli altri requisiti" del protocollo, attiene alla predisposizione delle misure stesse, ma non implica, come afferma la Società, che la dogana del paese d’esportazione sia responsabile dell’inesattezza della dichiarazione relativa all’origine dei capi, a causa del mancato controllo; controllo che, invero, può procedere "per sondaggio" o su richiesta dello stato importatore, e che costituisce, comunque, una facoltà – e non obbligo, nè tanto meno per ogni dichiarazione – per lo stato che riceve la dichiarazione, il quale può, appunto, "richiedere qualsiasi prova e di procedere a qualsiasi controllo" che ritenga utile ad accertare la veridicità delle dichiarazioni stesse (art. 33, comma 5, Prot. cit. La sentenza della Corte di Giustizia in data 25.7.2008, resa nel procedimento C- 204/07, invocata dalla controricorrente, non è qui pertinente, attenendo all’incidenza del mancato assolvimento del dovere di vigilanza e di controllo della Commissione nella valutazione dell’esistenza della "situazione particolare", ai fini dell’applicazione della clausola generale di equità, di cui all’art. 239 del CDC).
Non può sottacersi, poi, che la sanzione è riconnessa all’utilizzo negligente dei certificati invalidi (in relazione all’origine delle merci), e che l’onere della prova, per andarne esente, implicava l’allegazione, prima, e la dimostrazione, poi, di una condotta positiva da parte della società importatrice, operante nel settore della maglieria di pregio, volta ad assicurare il rispetto di tutte le condizioni per la fruizione del trattamento preferenziale, prova che non consta esser stata dedotta e che lungi dall’esser diabolica – come sostiene la controricorrente laddove afferma che avrebbe dovuto "effettuare dei complessi riscontri" – ben avrebbe potuto esser dedotta, ad esempio, mediante la richiesta e l’esecuzione di verifiche, presso il soggetto fornitore/esportatore, di caratteristiche, tecniche e modi di lavorazione della merce acquistata ed importata (cfr. Cass. n 5343 del 2006).
L’impugnata sentenza, che non si è attenuta ai principi indicati, va, dunque, cassata, restando assorbito il terzo mezzo, dedotto per meri vizi motivazionali, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può esser decisa nel merito, col rigetto del ricorso introduttivo della contribuente.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; nell’evolversi della vicenda processuale e nella particolarità di talune questioni interpretative si ravvisano giusti motivi per compensare le spese dei gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi, dichiara assorbito il terzo, cassa e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo e condanna la contribuente alle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.000,00, oltre alle spese prenotate a debito;
compensa le spese dei gradi di merito.
Cosi deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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