Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14045

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Svolgimento del processo
La CTR della Lombardia, con la sentenza n. 36/07/09, depositata l’8.5,2009, ha confermato la decisione della CTP di Milano che, su ricorso della C. J. E. S.r.l. società unipersonale, importatrice dalla Giamaica di prodotti di maglieria, aveva annullato la sanzione ex art 303 del TULD. I giudici d’appello hanno ritenuto che: 1) l’ipotesi, contestata nella specie, di dichiarazione non veritiera relativa all’origine della merce non era contemplata dalla norma incriminatrice, ed hanno, perciò, escluso la fondatezza dell’interpretazione storico-esegetica sostenuta dalla Dogana, perchè contraria al principio della riserva di legge in materia di sanzioni amministrative; 2) l’Ufficio non aveva fornito la prova dell’elemento soggettivo dell’illecito, che doveva comunque ritenersi escluso nella forma tanto del dolo che della colpa, non potendo imputarsi alla società importatrice, alla stregua delle circostanze di fatto accertate, alcuna imprudenza o negligenza.
L’Agenzia delle Dogane ricorre per la cassazione di tale sentenza, sulla scorta di tre motivi, La Società resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione dell’art. 303 del TULD, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente sostiene che la sanzione prevista dall’art. 303 cit. riguarda ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che il comma 3 della norma in esame non pone distinzioni di fattispecie e che il comma 1 menziona le difformità di qualità da interpretarsi estensivamente (e non analogicamente) come comprensive anche delle diversità di origine. Sotto altro profilo, prosegue la ricorrente, la CTR ha errato nel non considerare i principi generali che disciplinano il sorgere delle obbligazioni doganali e nel non tener conto che il relativo mancato adempimento costituisce fonte della responsabilità sanzionatoria di cui all’art. 303 del TULD, norma a presidio di ogni irregolarità ascrivibile all’operatore in materia di obblighi di dichiarazione.
Il secondo mezzo, denunciando violazione di legge (TULD, art. 303;
D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5; art. 2697 c.c.), censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha trascurato che l’utilizzatore di certificati di origine preferenziale, falsi o irregolari, è responsabile delle sanzioni ex art. 303 cit., se non provi d’aver adottato la necessaria diligenza professionale nelle verifica dell’operato di terzi con i quali ha operato e dai quali provengono le certificazioni e dichiarazioni stesse.
Con il terzo motivo, deducendo insufficienza e carenza motivazionale (indicando tuttavia erroneamente in rubrica quale norma-parametro il n. 3, art. 360 c.p.c., comma 1, anzichè il numero 5), la ricorrente sostiene che la CTR non ha fornito adeguata giustificazione della esclusione dalla previsione normativa dell’art. 303 TULD della condotta di "inesatta indicazione della origine" delle merce, oggetto del primo mezzo, e censura, inoltre, la sentenza laddove ha escluso l’elemento soggettivo dell’illecito tributario, in palese contrasto con la giurisprudenza comunitaria, che ha ripetutamente affermato la responsabilità dell’importatore per gli atti commessi da terzi con i quali ha perfezionato l’operazione soggetta a dazio.
Il ricorso è inammissibile. La sentenza impugnata è fondata su plurime autonome rationes decidendi: i giudici di appello, infatti, non solo hanno ritenuto non riconducibile la fattispecie concreta (dichiarazione doganale contenente erronea indicazione della origine della merce in quanto fondata su certificato EUR-1 inesatto) alla condotta illecita descritta dall’art. 303 TULD, ma hanno, altresì, rigettato l’appello accertando, con giudizio in fatto censurabile soltanto sotto il profilo del vizio di illogicità, l’esclusione della colpa della società in considerazione di circostanze fattuali concrete esaminate ed indicate nella sentenza (impossibilità di distinguere i prodotti fabbricati e commercializzati dalle ditte giamaicane esportatrici; idonea capacità organizzativa e produttiva delle imprese manifatturiere giamaicane; osservanza delle disposizioni comunitarie e nazionali nella attività di importazione dei prodotti). In sostanza i Giudici d’Appello hanno ritenuto che sussistesse in atti, attraverso le indicate circostanze di fatto emergenti dalla istruttoria, la prova positiva, idonea a superare la presunzione di colpa stabilita dalla norma sanzionatoria dell’illecito amministrativo doganale.
Orbene costituisce principio giurisprudenziale consolidato che, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, il cui accoglimento non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata (cfr. Corte cass. 3 sez. 11.1.2007 n. 389; id. Sez. 6-L, Ord. 3.112011 n. 22753). Nella specie, l’Agenzia delle Dogane ha impugnato, bensì, tutte le autonome statuizioni della sentenza, ciascuna delle quali idonea ex se a sorreggere la decisione, ma, in relazione al vizio motivazionale, dedotto col terzo motivo, ha omesso di indicare, come non ha mancato di far rilevare la controricorrente, il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rendeva inidonea a giustificare la decisione, requisito prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c., qui applicabile ratione temporis.
Ne consegue che il motivo è inammissibile, tenuto conto che l’onere di indicare chiaramente il fatto controverso ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già illustrando il relativo motivo di ricorso, ma formulando al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso (cfr. Corte cass. SU 14.10.2008 n. 2511. Vedi Corte cass. SU 1.10.2007 n. 20603, id. 3 sez. 7.4.2008 n. 8897).
Essendo stata investita dal ricorso con un motivo inammissibile, l’autonoma ratio decidendi, con la quale viene disconosciuta la colpa della società contribuente nella inesatta dichiarazione del requisito di origine preferenziale della merce importata, ne consegue la superfluità dell’esame degli altri due motivi, a loro volta inammissibili per carenza di interesse alla impugnazione, in quanto insufficienti – ove anche ritenuti fondati – a rimuovere l’indicato supporto logico motivazionale che, comunque, assiste il "decisum".
Il ricorso va, in conclusione, dichiarato inammissibile e l’Agenzia ricorrente va condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.100,00, di cui Euro 100,00 per spese, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 7 giugno e il 10 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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