Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14041

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Svolgimento del processo
La CTR della Lombardia, con la sentenza n. 46/11/09, depositata l’11.5.2009, ha confermato la decisione della CTP di Milano che, su ricorso della S.a.s. C. Di C. A. e C., importatrice dalla Giamaica di prodotti di maglieria, aveva annullato la sanzione ex art. 303 del TULD. I giudici d’appello hanno ritenuto che: 1) l’ipotesi, contestata nella specie, di dichiarazione non veritiera relativa all’origine della merce non era contemplata dalla norma incriminatrice, ed hanno, perciò, escluso la fondatezza dell’interpretazione storico-esegetica sostenuta dalla Dogana, perchè contraria al principio della riserva di legge in materia di sanzioni amministrative; 2) il Fisco aveva violato il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, non stati accertati il dolo o la colpa, o, quanto meno, la negligenza od omissione da parte della Società importatrice, ed essendo il relativo onere probatorio a carico dell’Ufficio.
L’Agenzia delle Dogane ricorre per la cassazione di tale sentenza, sulla scorta di tre motivi, illustrati da memoria, La Società intimata non ha presentato controricorso.
Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione dell’art. 303 del TULD, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente sostiene che la sanzione prevista dall’art. 303 cit. riguarda ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione doganale in ordine ai suoi elementi essenziali, afferenti, cioè, oltre che a valore, quantità, qualità delle merci, anche, all’origine delle merci stesse, atteso che il comma 3 della norma in esame non pone distinzioni di fattispecie e che il comma 1 menziona le difformità di qualità da interpretarsi estensivamente (e non analogicamente) come comprensive, anche, delle diversità di origine. Sotto altro profilo, prosegue la ricorrente, la CTR ha errato nel non considerare i principi generali che disciplinano il sorgere delle obbligazioni doganali e nel non tener conto che il relativo mancato adempimento costituisce fonte della responsabilità sanzionatoria di cui all’art. 303 del TULD, norma a presidio di ogni irregolarità ascrivibile all’operatore in materia di obblighi di dichiarazione.
Il motivo è fondato. E’, bensì, vero, infatti, che l’art. 303 del TULD menziona, nel descrivere l’illecito amministrativo, solo valore, quantità e qualità della merce, ma la mancanza di riferimento testuale all’origine è logicamente e giuridicamente irrilevante. E’ noto, infatti, che il concetto giuridico di qualità è inerente alla natura della merce e, secondo la giurisprudenza civilistica, riguarda le differenze di sostanza, di razza, di materia, di tessuto, di fibra, di colore, di metodo e di origine (cfr. in particolare Cass. n. 2544/1970, in tema di mancanza delle qualità promesse ex art. 1497 c.c.). Del resto, è indiscutibile, sul piano logico, che la qualità di una merce non sia altro che il coacervo degli elementi distintivi di essa e tra i medesimi il dato di origine assume una connotazione del tutto pregnante. Se ciò vale sul piano del linguaggio giuridico civilistico, non si vede perchè il legislatore tributario abbia dovuto adottare, nel 1973, una diversa nozione di qualità, come attinente alla sola sostanza dei beni oggetto d’importazione e non alla loro origine/provenienza da un determinato Paese.
Nella specie, va rilevato che le merci giamaicane, scortate dall’apposito certificato d’origine EUR. 1, beneficiano di esenzione dal dazio all’atto dell’importazione nell’UE, in virtù dell’Accordo di Cotonou (cfr. artt. 1 e 100; Allegato V, art. 1, e correlato Protocollo 1, artt. 2 n. 1, 15 n. 1, 28 n. 1, 31 n. 1-2 comma 1, 32) tra UE e i Paesi dell’Area ACP (Africa, Caraibi, Pacifico): il rilievo centrale della veridicità dell’origine delle merci importate si mostra con tutta evidenza, essendo il presupposto del trattamento daziario preferenziale (v. per un altro esempio il cd. "cumulo regionale" per l’Area ASEAN: Brunei, Indonesia, Laos, Vietnam, etc.).
Ne deriva che, seguendo la tesi della CTR, resterebbe privo di copertura – dunque di deterrenza sanzionatoria – proprio il punto più delicato del complesso sistema con il quale TUE accorda preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di Paesi in via di sviluppo, ai sensi del Reg. 2454/93 (art. 66 e segg.), che individua, appunto, nella prova dell’origine della merce il fulcro centrale della prevenzione antifrodi (v. anche All. V all’Acc. Cotonou, art. 2 n. 1).
Pertanto, tenuto conto del rilievo imprescindibile e prioritario del concetto di "origine" nelle fonti nazionali (D.Lgs. n. 374 del 1902, art. 8 e art. 4, comma 2; artt. 65, 73, 84, 91, 149, 165, 175 179 etc. del TULD) e comunitarie (artt. 1 e 4 del Reg 802/68; Cod. Dog.
Tit. 2 cap. 2, artt. 58, 133, 147, 220) ed, inoltre, della sua inerenza, logica e giuridica, alla nozione di qualità come tradizionalmente affermatasi nell’esperienza civilistica di diritto interno, si deve concludere che il legislatore del 1973, nel far trasmigrare il vecchio art. 118 L.D. nel nuovo art. 303 TULD e nell’omettere il riferimento all’origine delle merci, abbia realizzato, solo, una mera semplificazione testuale, ampiamente giustificata, sul piano lessicale, proprio dall’inerenza del dato di "origine" alla nozione riassuntiva e omnicomprensiva di qualità.
Analogamente si è comportato il legislatore del 2012 nel decreto sulla semplificazione fiscale, che ha solo ridisegnato il regime sanzionatorio dell’art. 303 TULD mediante il D.L. n. 16 del 2012, art. 11, comma 4. Anzi, la Relazione (in Atti parlamentari – Senato della Repubblica – n. 3184 – pag. 63) evidenzia che "la norma rappresenta un presidio per le condotte che pur non essendo ascrivibili a fattispecie penalmente rilevanti, costituiscono grave pregiudizio per la scorrevolezza dei traffici e per l’efficienza dei controlli" e rileva che si tratta di "norme poste a presidio della correttezza e della completezza delle dichiarazioni doganali" e dirette a sollecitare "l’attenzione delle categorie professionali e degli operatori economici che agiscono nel commercio internazionale".
Dunque, dinanzi a una parola dotata di più significati come "qualità", la sua accezione giuridica va contestualizzata in relazione alla disposizione, nella specie sanzionatoria, dove è inserita e al bene giuridico che detta disposizione tutela: ossia, quanto all’art. 303 TULD, la correttezza e la completezza delle dichiarazioni doganali in funzione della circolazione delle merci e dell’efficienza dei controlli, i quali non possono che caratterizzarsi proprio per la particolare attenzione ai luoghi di origine delle merci transfrontaliere.
Il secondo mezzo, denunciando violazione di legge (TULD, art. 303;
D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5; cod. civ., art. 2697), censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha trascurato che l’utilizzatore di certificati di origine preferenziale, falsi o irregolari, è responsabile delle sanzioni ex art. 303 cit., se non provi d’aver adottato la necessaria diligenza professionale nelle verifica dell’operato di terzi con i quali ha operato e dai quali provengono le certificazioni e dichiarazioni stesse.
La doglianza è fondata. In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, al quale deve potersi imputare di aver tenuto un comportamento quanto meno negligente, ancorchè non necessariamente doloso. E’, insomma, sufficiente una condotta cosciente e della volontaria, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, lasciando a costui l’onere di provare il contrario (Cass. 22890/2006; conf. 13068/2011, cfr. 4171/09, sulla non necessità di un intento fraudolento). L’esimente della buona fede rileva, invece, solo se l’errore sia inevitabile, occorrendo che l’ignoranza dei presupposti dell’illecito sia incolpevole, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass. 10607/03, in tema d’importazione di valuta).
Erra dunque il giudice d’appello, nell’affermare che "tale colpevolezza va individuata … con onere probatorio a carico dell’Ufficio … mediante apposita indagine sulla accertata sussistenza (almeno) della colpa per negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di norme di legge, sia pure sotto il profilo … delle leggerezza e superficialità", in quanto, proprio al contrario, la prova liberatoria avrebbe dovuto esser fornita dall’importatrice, ed esser rapportata alla diligenza da lei esigibile, alla luce della giurisprudenza comunitaria, secondo cui l’importatore "non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati" (cfr., in cause riunite T-10/97 e T-11/97, dec. 09/06/1998 p. 60) e l’invalidità di un certificato d’origine "fa parte dei rischi professionali connessi all’attività dell’importatore" (cfr., in causa T-290/97, dec. 18/01/2000 p. 83 e, in causa T-239/00, dec. 04/07/2002 p. 55). Di contro, la scelta effettuata dalla società contribuente riguardo al soggetto fornitore/esportatore con cui concludere rapporti commerciali e l’intensità e la protrazione nel tempo di tali rapporti ponevano la società stessa nelle condizioni di esaminare la merce importata e d’individuarne le origini quanto meno, ad esempio, attraverso la verifica di caratteristiche, nonchè di tecniche e modi di lavorazione (Cass. 5343/06).
L’impugnata sentenza, che non si è attenuta ai principi indicati, va, dunque, cassata, restando assorbito il terzo mezzo, dedotto per meri vizi motivazionali, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può esser decisa nel merito, col rigetto del ricorso introduttivo della contribuente.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; nell’evolversi della vicenda processuale e nella particolarità di talune questioni interpretative si ravvisano giusti motivi per compensare le spese dei gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi, dichiara assorbito il terzo, cassa e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo e condanna la contribuente alle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 2.500,00, oltre alle spese prenotate a debito;
compensa le spese dei gradi di merito.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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