Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14036

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Svolgimento del processo
Con sentenza n. 58/14/09 depositata il 27.4.2009 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla società S. s.p.a avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Milano 79/07/2006 che aveva confermato l’avviso in rettifica emesso dalla Circoscrizione doganale di Milano con il quale venivano liquidati i dazi all’importazione di prodotti tessili acquistati da imprese residenti nello Stato della Giamaica, essendo risultata la merce priva del requisito di origine preferenziale.
L’avviso trae origine dalle risultanze della missione comunitaria svolta dall’OLAF (organismo europeo antifrode) in Giamaica, in ottemperanza dell’accordo ACP-UE siglato a Cotonou il 23/6/2000 al fine di accertare l’origine delle merci esportate dalla Giamaica verso l’unione europea dal gennaio 2000 al dicembre 2004, sia la regolarità dei relativi certificati di origine preferenziale EUR 1.
In forza dell’accordo di Cotonou le merci originarie della Giamaica scortate da apposito certificato (EUR 1) che tale origine comprovi, beneficiavano di un trattamento daziario preferenziale all’atto dell’importazione nell’UE, consistente nell’esenzione dal dazio ( fissato nel 12,20% del valore della merce).
L’autorità giamaicana non confermava la validità di tali certificati e gli Stati membri sono stati invitati al recupero dei maggiori diritti doganali dovuti sulle importazioni oggetto di indagine.
Il provvedimento oggetto della presente controversia si fonda sui risultati dell’accertamento operato secondo cui alla merce in questione non poteva essere riconosciuta l’origine preferenziale "Giamaica", poichè i certificati EUR 1 rilasciati dalle autorità giamaicane erano irregolari e, pertanto, non potevano godere del trattamento preferenziale.
La commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello della società rilevando a) la regolarità formale dell’atto di rettifica da non confondere con la prova dei fatti che concernono la pretesa tributaria; b) il verbale allegato all’atto impugnato rappresenta la prima stesura dell’atto di conclusione della missione, di cui anticipa tutti gli elementi essenziali; c) i certificati Eur 1 emessi nel periodo considerato, pur "autentici" non sono validi per quanto riguarda l’origine delle merci, d) competeva al debitore, in forza della sentenza della Corte di giustizia 9.3.2006 (causa C-293/04), a causa della omessa conservazione, per i tre anni previsti dall’accordo di C., d) le dichiarazioni di O.M. non erano valutate attendibili, essendo ex dipendente del gruppo Afasia, direttamente incaricato dell’organizzazione delle spedizioni e della risoluzione dei problemi correlati. La S. spa impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:
a) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), con riferimento alla ritenuta sufficiente motivazione dell’avviso di rettifica, motivato con riferimento al verbale OLAF, senza tuttavia che lo stesso facesse espresso riferimento alla merce importata dalla ricorrente;
b) violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, (art. 9, par. 1 e 2,reg. CE n. 1073/99 e del consiglio de 25.5.1999) avendo ritenuto assolto l’onere della prova da parte dell’Amministrazione col semplice richiamo al verbale della missione Olaf in Giamaica, data 23.3.2005, avendo equiparato al rapporto finale dell’OLAF, qualsiasi atto endoprocedimentale, avendo valore probatorio solamente il rapporto finale;
c) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), in ordine alla ritenuta equiparazione del verbale Olaf alla relazione finale;
d) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5),essendo possibile, comunque, accertare i certificati validi da quelli invalidi, indipendentemente dalla omessa conservazione, per tre anni, dei documenti giustificativi;
e) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), avendo ritenuto la sentenza non rilevanti le dichiarazioni del sig. O.M., omettendo l’esame dei documenti prodotti dalla deducente, ritenuti rilevanti al riguardo;
f) violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, (art. 220, par. 2, lett b) codice doganale comunitario, avendo al CT, escluso la buona fede della ricorrente mentre la frode perpetrata dall’esportatore era così complessa da essere scoperta dalle autorità giamaicane e dagli organismi d’indagine soltanto dopo accurate indagini, interpretando erroneamente tale concetto.
La Agenzia delle Entrate si è costituita nel giudizio di legittimità con controricorso.
Entrambe le parti depositavano memorie.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 7.6.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
1. In relazione al primo motivo di ricorso, va evidenziata la non corretta e, comunque, inesatta formulazione del quesito di fatto, Già questa Corte a Sezioni Unite ha affermato che, in tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, poichè secondo l’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Sez. U, Sentenza n. 20603 del 01/10/2007).
I quesiti risulta così formulato: "…si precisa che il fatto controverso e decisivo per il giudizio, cui il presente motivo si riferisce, è costituito dalla sufficienza , logicità e congruenza della motivazione dell’atto presupposto, asseritamente contenente la motivazione dell’atto di accertamento".
Il motivo, peraltro, difetta anche di autosufficienza non essendo stato allegato o riprodotto l’avviso di rettifica, documento non esaminabile da questa corte, al fine di valutare la correttezza delle affermazioni della ricorrente, avendo la CTR rilevato che la motivazione, sia pure "per relationem" dell’avviso che indica " i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche ..mentre è stato allegato il documento cui rinvia la motivazione stessa ..non dovendosi confondere al regolarità formale dell’atto di rettifica con la prova dei fatti che riguarda la fondatezza della pretesa tributaria.
Peraltro la pronuncia dei Giudici di merito va esente da critica:
quanto alla validità dell’avviso di accertamento avendo la CTR correttamene ritenuto assolto il requisito formale di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7 (attraverso la motivazione "per relationem" alle risultanze delle indagine condotta dall’OLAF (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex pluribus Corte cass. 5 sez. 5.2.2009 n. 2749; id. 5 sez. 9.2.2010 n. 2806; id. 5 sez. 9.4.2010 n. 8504), avendo specificato che l’Amministrazione ha posto il contribuente in grado di conoscere la pretesa tributaria.
quanto alla indicazione ed alla idoneità degli elementi di prova portati a conoscenza della società contribuente ed in base ai quali risultava espressamente motivato l’avviso impugnato, correttamente i Giudici hanno ritenuto esaustive le prove offerte dalla Agenzia con riferimento agli accertamenti delle indagini svolte dall’OLAF, con conseguente trasferimento a carico dell’importatore dell’onere della prova della corrispondenza della merce importata alla indicazione di origine risultante dai certificati EUR-1, tenuto conto: a) che ai Giudici degli Stati membri non è dato prescindere dai "fatti accertati" dall’Ufficio per la lotta antifrode, che "costituiscono elementi di prova nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro" come espressamente disposto dall’art. 9, commi 1 e 2 del reg. CE n. 1073/1999 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999 e più in generale dall’art. 21 paragr. 2 reg. CE n. 515/1997 del Consiglio in data 13.3.1997; b) che per costante giurisprudenza del Giudice comunitario (Corte giustizia 7.12.1993, causa C-12/92 H., punti 17 e 18; id. 9.3.2006, causa C-293/04 B., punto 34; ID. 14.5.1996, cause riunite C-153/94 e C- 204/94, F.& S. punto 16; id. 15.12.2011 ,causa C-409/10, H. H.-A. K., punto 44) la irrisolta incertezza sulla origine della merce (non comprovabile in base ai documenti prodotti dall’esportatore) si risolve nella assenza del presupposto richiesto per fruire della preferenza tariffaria, avendo affermato i Giudici di Lussemburgo che "qualora il controllo a posteriori non consenta di confermare la origine della merce indicata nel certificato EUR-1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, di conseguenza, il certificato EUR-1 e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente".
L’art. 220, paragr. 2, punto b) del reg. CEE n. 2913/92 (nel testo modificato dal reg. CE n. 2700/2000 applicabile ratione temporis) dispone che:
a-) non si procede a contabilizzazione a posteriori quando l’importo del dazio non è stato liquidato "per un errore della autorità doganale, che non poteva ragionevolmente esser scoperto dal debitore, avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione alla dogana";
b-) l’ipotesi predetta ricorre quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un Paese terzo: in tal caso il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore purchè questi abbia agito in buona fede;
c-) in deroga alla disposizione precedente, il rilascio di un certificato irregolare "non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore";
d-) salvo che risultasse provato che le autorità che hanno rilasciato il certificato "erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate" che le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale;
e-) e sempre che risulti dimostrata la "buone fede" del debitore, il quale è tenuto a fornire la prova di aver "agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale" (la prova della buone fede rimane tuttavia, esclusa dalla pubblicazione sulla GUCE di avvisi che segnalino fondati dubbi sulla corretta applicazione del regime preferenziale da parte del Paese beneficiario).
L’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR. 1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione sono annullati in quanto il loro rilascio è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore non può opporsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione facendo valere che non si può escludere che, in realtà, talune di dette merci abbiano l’origine preferenziale suddetta.
Quindi non può essere invocato da parte della società importatrice l’esimente della buona fede per la mancanza di un errore attivo ascrivibile al comportamento delle autorità doganali del paese di esportazione, non rilevando le eccezioni sollevate, nel presente giudizio, dalla predetta società. Al riguardo si è affermato da parte di questa Corte che l’azione di recupero "a posteriori" dei dazi dovuti – per violazione del sistema delle preferenze generalizzate – non è preclusa dall’errore del contribuente che abbia reso dichiarazioni inesatte in quanto determinate dalla falsità delle dichiarazioni o della documentazione provenienti dall’esportatore (nella specie relative all’origine del materiale impiegato nella confezione del prodotto), delle quali nessuna autorità debba preliminarmente verificare o valutare la validità, e che si rivelino mendaci in occasione di un successivo controllo, giacchè tale vicenda esclude la configurabilità di un errore sull’interpretazione o applicazione dei testi doganali, conseguenza del comportamento attivo delle autorità competenti per il recupero o dello Stato membro di esportazione che abbia indotto il debitore a rendere una dichiarazione inesatta e, quindi, la sussistenza di uno dei presupposti richiesti dall’art. 5, n. 2, del Regolamento CEE 24 luglio 1979, n. 1697, così come interpretato dalla Corte di Giustizia CEE nelle sentenze 27 giugno 1991 in causa 348/89 e 14 novembre 2002, in causa C- 251/00, perchè non si proceda alla non contabilizzazione "a posteriori" dei diritti dovuti (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24916 del 25/11/2011) Grava, pertanto, sul debitore "debitore", in forza della giurisprudenza comunitaria, il rischio derivante da un documento commerciale che, in occasione di un successivo controllo si riveli, come nella fattispecie, falso. La Commissione Europea, con decisione in data 3/11/2008 n. 6317 (fase.
REM 03/2007) ha respinto la richiesta di sgravio di dazio d’importazione presentata, ai sensi dell’art. 239 del codice doganale comunitario, da un operatore spagnolo in relazione all’importazione di prodotti tessili originari della Giamaica e rientranti, come quell’oggetto del presente contenzioso, nell’ambito delle verifiche dell’OLAF. Il giudice nazionale non può discostarsi, stante la immediata operatività, da tale pronuncia (cfr Corte Giust. 20/11/2008, C- 375/07).
Medesimi principi sono stati enunciati dalla citata sentenza Corte di Giustizia UE 15.12.2011 , C-409/10.
Nella citata pronuncia della commissione europea si evidenzia che le autorità giamaicane sono stati ingannate dagli esportatori e, malgrado i controlli effettuati, non potevano scoprire la frode commessa a causa delle manovre compiute dagli esportatori. Quindi, tenuto conto di quanto sopra, la commissione ha ritenuto che non vi sia prova del fatto che le autorità giamaicane dovessero sapere che le merci non rispondevano alle condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale. Occorre quindi concludere che esse non hanno commesso un errore ai sensi dell’art. 220, paragrafo 2, punto b) del regolamento CEE n. 2913/92 (punto 59) Quindi, all’aumento delle importazioni oggetto del contendere, non era stata accertato che prodotti tessili importati dalla Giamaica erano di fatto originari della Cina dovendosi, quindi, escludere ogni errore da parte delle autorità competenti.
Ai sensi dell’art. 239 del regolamento CEE n. 2913/92 si può procedere al rimborso dei dazi all’importazione in situazioni diverse da quelle previste agli artt. 236, 237 e 238 del citato regolamento, risultando le circostanze che non implicano alcuna manovra fraudolenta o negligenza manifesta da parte dell’interessato.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta che tale disposizione costituisce una clausola generali di equità e che l’esistenza di una situazione particolare si configura quando dalle circostanze del caso risulti che il debitore si trova in una situazione eccezionale nei confronti degli altri operatori che esercitano la stessa attività e che in assenza di tali circostanze, egli non avrebbe subito il pregiudizio arrecato dalla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali (Corte di Giust.
sentenza 10.5.2001, racolta p.lt-01337).
Quindi la situazione in cui l’interessato si trova deve essere considerata come una situazione eccezionale rispetto agli altri operatori che esercitano la stessa attività.
Nel caso di specie non si può rimproverare alle autorità giamaicane di non avere scoperto la frode commessa nel periodo in questione dato che avevano messo in opera un sistema di controllo documentale efficace e che, per di più, è stata accertato che le imprese interessate svolgevano l’attività economica di importazione di filati. Di conseguenza non è possibile considerare che l’interessato si trovasse in una situazione particolare ai sensi dell’art. 239 del regolamento Cee cit (punto 69 Comm. Eur. n. 6317/08).
Il debitore non può nutrire un legittimo affidamento sulla validità dei certificati per il fatto che siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalle autorità doganali di uno Stato, dato che le operazioni effettuate dai detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi.
Pertanto, qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine della merce indicata nel certificato, si deve ritenere che la tariffa preferenziale sia stata concessa indebitamente (sentenza S., cit. punto 16).
La prova del carattere originario dei prodotti è fornita mediante il certificato EUR-1 e la procedura di controllo è volta essenzialmente a verificare l’esattezza dell’origine indicata nei certificati precedentemente rilasciati (Corte giustizia 17.7.1997 in causa C- 97/95 P. & F. LD, punto 30). Spetta alla Autorità doganale che intenda recuperare a posteriori il dazio fornire elementi atti ad invalidare la prova documentale in questione, ovvero dimostrare che "il rilascio dei certificati inesatti è imputabile alla inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore" (Corte giustizia 9.3.2006 B. in causa C-293/04, punto 39), salvo che la prova di tale imputabilità non possa essere data per negligenza od impedimento opposto dalla stessa ditta esportatrice.
Spetterà in tal caso all’interessato fornire la prova contraria della esattezza delle indicazioni fornite dall’esportatore al momento della richiesta di rilascio del certificato ovvero la prova che le autorità che hanno emesso il certificato inesatto e successivamente invalidato, al tempo del rilascio dello stesso erano informate o avrebbero dovuto essere informate che la dichiarazione della ditta esportatrice era inveritiera in quanto le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale. Non può procedersi, pertanto, a controllo a posteriori se l’operatore economico interessato ha fornito la prova dell’esistenza dell’errore colpevole commesso dalle autorità che hanno emesso il certificato, ovvero la prova della violazione di obblighi di controllo previsti da norme che vincolano tali autorità, sempre che venga dimostrata altresì la buona fede della impresa importatrice (Corte giustizia 9.3.2006 B. in causa C-293/04, punto 45 e 46).
La sentenza impugnata, riconoscendo la impossibilità per l’Autorità doganale che agisce per il recupero del dazio di fornire la prova diretta della mancanza dei requisiti di origine della merce ha fatto corretta applicazione della regola del riparto dell’onere probatorio desumibili dall’art. 220, par. 2, lett. b del CDC, secondo la interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza comunitaria, statuendo che gravava sulla società debitrice l’onere di dimostrare la origine certa della merce importata e la esattezza della indicazioni risultante dai certificati EUR-1.
La CTR ha correttamente motivato evidenziando che "essendosi , quindi, legittimamente prodotta l’inversione dell’onere della prova, competeva al debitore, che non vi ha provveduto, dimostrare che il certificato EUR 1 è stato rilasciato sulla base della presentazione esatta dei dati da parte dell’esportatore.
In proposito occorre rilevare che in un sistema di cooperazione qual è quello del regime preferenziale basato sulla ripartizione di competenze tra Stato d’esportazione -che per il principio di vicinanza della prova è quello maggiormente deputato ad accertare la origine del prodotto – e Stato d’importazione – che è in grado di verificare la corretta applicazione del regime solo attraverso la collaborazione dello Stato esportatore – (Corte giustizia 14.5.1996 F. S., cause riunite C-153/94 e C-204/94, punto 19), la prova della inesattezza dei certificati può ritenersi raggiunta nel caso in cui, come nella specie, all’esito di indagine condotta in cooperazione con lo Stato esportatore i certificati EUR-1 vengano invalidati (o meglio destituiti di efficacia probatoria) dalle autorità doganali del Paese beneficiario, e dunque non soltanto nel caso in cui sia positivamente accertato che le merci ivi indicate non soddisfano al requisito essenziale della origine, ma anche nel caso in cui all’esito della indagine non sia possibile disporre di elementi sufficienti per confermare l’origine della merce indicata nel certificato, dovendo anche in quest’ultimo caso ritenersi privi di efficacia probatoria i certificati emessi dallo Stato esportatore, avendo in conseguenza indebitamente beneficiato della esenzione doganale i prodotti di "origine ignota" (Corte giustizia 7.12.1993 causa C-12/92 H.).
La inesattezza del certificato rilasciato sulla base di una dichiarazione dell’esportatore non verificabile, integra infatti il presupposto dell’errore imputabile a quest’ultimo che ridonda nella mancata dimostrazione, in sede di controllo a posteriori, del requisito della origine preferenziale (indicativo il caso esaminato da Corte giustizia 14.5.1996, cit., punto 63 e 64, in cui la ditta esportatrice forniva un prodotto realizzato con materia prima, dello stesso genere, che veniva immessa nel medesimo ciclo produttivo ma in parte proveniente dal Paese esportatore ed in parte proveniente da Paesi terzi: poichè soltanto il prodotto realizzato interamente con materia prima del Paese esportatore beneficiava della tariffa doganale agevolata, e non era possibile, attesa la modalità di produzione, distinguere nel prodotto finito la provenienza della materia prima, i Giudici di Lussemburgo hanno ritenuto "inesatta" la dichiarazione dell’esportatore volta ad ottenere il certificato attestante i requisiti per fruire della agevolazione tariffaria, stabilendo che era onere dell’esportatore acquisire preventivamente la documentazione necessaria a comprovare con quale materia prima fosse stato realizzato il prodotto finito esportato , e dunque hanno concluso per la legittimità del recupero a posteriori del dazio nei confronti del debitore).
Non avendo la società responsabile della violazione dimostrato la sua estraneità all’azione illecita e la insussistenza di profili di negligenza, alla luce dei principi sopra espressi, con riferimento ai documenti utilizzati nell’operazione commerciale, deve ritenersi presunta la sua responsabilità per il pagamento dei tributi e delle relative sanzioni.
2. Il secondo e terzo motivo, con cui si lamentano, quale violazione di legge e difetto di motivazione, le medesime censure, sono inammissibili per difetto di autosufficienza non risultando allegato o riprodotto nè il verbale richiamato, nè la relazione finale Olaf al fine di rilevare evenuali discordanze, dovendosi riconoscere valore probatorio al verbale preliminare che, come rilevato dalla CTR, "rappresenta la prima stesura, redatta il 23.3.2005, cioè all’atto della conclusione della missione stessa, e di cui anticipa tutti gli elementi essenziali..".
I motivi sono, comunque, infondati.
La ricorrente sostiene che il Giudice di merito avrebbe illegittimamente ammesso come prova, posta a fondamento della decisione, il verbale delle indagini svolte dall’OLAF nella missione del 2005, mentre la norma comunitaria asseritamente violata attribuisce tale efficacia probatoria esclusivamente al rapporto finale ("al termine della indagine l’Ufficio redige sotto l’autorità dei direttore una relazione finale…Le relazioni così elaborate costituiscono elementi di prova… "), come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "la relazione elaborata dall’OLAF ha piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro così come dispone il reg. CE 1973/99 e dunque gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento sono del tutto idonei a giustificare la pretesa di recupero" (cfr. Corte cass. 5 sez. ord. 2.3.2009 n. 4997;
id. 24.9.2008 n. 23985; id. 28.5.2008 n. 13890).
Occorre premettere che "le norme relative all’onere della prova ed ai mezzi probatori del carattere originario delle merci rientrano nel diritto nazionale solo in quanto non derivino dai diritto comunitario" (Corte giustizia 14.5.1996, F. S., cit, punto 60).
In applicazione del principio indicato al certificato EUR-1 viene riconosciuto dall’ordinamento comunitario uno speciale regime probatorio che si impone agli Stati membri: tale certificato, infatti, costituisce l’unico documento attraverso il quale può essere dimostrata la origine della merce, con la conseguenza che all’importatore che intenda avvalersi delle agevolazioni tariffarie concesse in base ad un regime preferenziale di origine, non è dato provare aliunde il presupposto di fatto cui è condizionata la applicazione del beneficio fiscale. Tuttavia tale efficacia probatoria non è assoluta in quanto le autorità doganali dello Stato in cui la merce viene immessa al consumo possono verificare a posteriori (id est: successivamente al rilascio del predetto documento) la genuinità del documento e la esattezza della origine indicata nel certificato EUR-1 (cfr. Corte giustizia 17.7.1997, P. & F., cit.,punto 30; id. 9.3.2006 B., cit, punti 32-33) venendo il documento ad essere privato di efficacia probatoria, in caso di accertamento della falsa od inesatta rappresentazione dei fatti in esso indicati.
Nella specifica materia doganale all’esame del Collegio (regime preferenziale di origine) non è dato rinvenire altra norma comunitaria volta ad attribuire efficacia di prova legale ad un documento emesso dalle autorità doganali dello Stato esportatore od importatore, essendo invece riconosciuta piena rilevanza probatoria, nell’ambito dell’ordinamento comunitario, alla relazione redatta dall’OLAF all’esito della indagine, come previsto dall’art. 9 comma 2 del reg. CE n. 1073/1999 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999 (relativo alle "indagini svolte dall’Ufficio per la lotta antifrode (OLAF)") che considerare equipollenti la relazione redatta dall’OLAF al termine delle indagini e le relazioni redatte dagli ispettori amministrativi dello Stato membro, tanto ai fini delle "regole di valutazione" applicabili quanto ai fini del "valore" riconoscibile secondo la disciplina legislativa dello Stato membro.
Ne consegue che alla relazione OLAF può essere attribuita efficacia probatoria privilegiata limitatamente ai "fatti accertati" ex art. 9, comma 1 reg. 1073/99 (in quanto accaduti alla presenza degli ispettori).
Se la norma del regolamento comunitario si riferisce espressamente alla "relazione", tuttavia la stessa non pone alcuna limitazione in ordine alla utilizzabilità nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF, come è dato evincere dall’art. 9, comma 3 e dall’art. 10, comma 1 del medesimo regolamento comunitario i quali prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di "ogni documento utile" acquisito e la comunicazione di "qualsiasi informazione" ottenuta nel corso delle indagini.
Ne consegue che, alla stregua della normativa comunitaria e nazionale applicabile al caso di specie, non sono ravvisabili divieti od impedimenti all’utilizzo da parte della CTR della Lombardia – ai fini della selezione e valutazione delle emergenze istruttorie compiute nel giudizio di merito – delle risultanze del "verbale" delle operazioni della missione OLAF redatto in data 23.3.2005, come peraltro riconosciuto anche nei precedenti di questa Corte segnalati nel ricorso, non dubitandosi in tali sentenze che, se la relazione elaborata dall’OLAF ha pieno valore probatorio, anche "gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento" sono idonei a sostenere la pretesa tributaria (cfr: Corte cass. n. 23985/2008, in motivazione). Va dunque esente dalla prospettata censura la sentenza della CTR lombarda che ha posto a fondamento della propria decisione gli accertamenti risultanti dal verbale redatto dall’OLAF in data 23.3.2005.
3. Il quarto motivo pecca anch’esso di autosufficienza avendo omesso di trascrivere compiutamente la società ricorrente il contenuto dei documenti la cui valutazione sarebbe stata omessa in tal modo impedendo alla Corte di verificare in limine la congruità della censura rivolta alla specifica statuizione della sentenza impugnata.
Premesso che, tanto nel caso di deduzione del vizio di irrituale od omessa ammissione di prove ovvero di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, quanto nel caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, la parte ricorrente è onerata non soltanto alla specifica indicazione della prova o del documento (eventualmente mediante individuazione della sede processuale in cui la prova è stata richiesta o prodotta: Corte cass. sez. lav. 7.2.2011 n. 2966;
id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303;
id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239) ed alla chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. 1 sez. 17.5.2006 n. 11501), ma deve provvedere altresì alla completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti processuali o dei documenti in modo da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav.
12.6.2002 n. 8388), nella specie dalle scarne e lacunose indicazioni contenute nel ricorso emerge che tali documenti, prodotti nei gradi di merito, concernono:
gli esiti di controlli a posteriori degli anni 2000 – 2003 effettuati da dogane europee dei certificati giamaicani, ritenuti validi (doc all. 7 in grado appello): ma a parte la indeterminatezza di tali "controlli" (non essendo precisato il numero, il tempo, il tipo di accertamento, quali verifiche siano state compiute), e premesso che la prova in questione potrebbe caso mai rilevare ai fini dell’errore imputabile alle autorità doganali (ma solo se supportato dall’elemento della reiterazione "durante un periodo relativamente lungo" e sempre che si tratti di errore non determinato dalle false dichiarazioni dell’esportatore: cfr. Corte giustizia 1.4.1993, causa C-250/91, H. P., punto 20) e non anche ai fini della condizione della "buona fede", non viene specificato se i certificati in questione riguardino merce importata per conto di ditte italiane dallo stesso spedizioniere M.s.p.a. e non è dato apprezzarne la rilevanza probatoria in assenza di incitazioni circa la natura delle richieste di controllo formulate dalle autorità doganali (non è chiarito se italiane o di altri Pesi europei) e l’accertamento compiuto dalle autorità doganali giamaicane (non potendo escludersi, come sembrerebbe desumersi dalla decisione della Commissione UE in data 3.11.2008 riportata nella memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dalla Agenzia resistente – che la questione avesse riguardato solo la genuinità del timbro apposto sul certificato EUR-1 e non anche la esattezza della origine della merce).
la sostanziale corrispondenza delle condizioni di vendita praticate dalle ditte giamaicane rispetto a quelle praticate dagli altri Paesi APC per gli stessi prodotti (doc all. 9 in grado appello): tale elemento è del tutto irrilevante ai fini della prova della diligenza dovuta dall’importatore, in quanto la comparazione ha per oggetto il prodotto finito, e non è stato neppure adombrato che i capi di abbigliamento lavorati dalle ditte giamaicane e quelli invece che tali ditte acquistavano all’estero e si limitavano a riesportare nel territorio doganale europeo, avrebbero dovuto essere assoggettati a diverse condizioni di vendita.
controlli a posteriori di certificati di origine giamaicani effettuati dalle dogane italiane nel 2002 e 2003 e ritenuti validi (doc all. 7 e 8 in primo grado): valgono le stesse osservazioni formulate per analoghi documenti prodotti in grado di appello verbale della missione OLAF: la circostanza che le autorità giamaicane fossero state indotte in errore dalle ditte esportatrice che avevano agito in frode con spiccata professionalità non appare ex se argomento dirimente a fornire un elemento di valutazione tale da sovvertire la decisione dei Giudici di appello, se non altro in considerazione della non assimilabilità della posizione in cui viene a trovarsi la società importatrice che viene in rapporti commerciali, e dunque fa affari, con le ditte esportatrici, rispetto alla posizione rivestita dalle autorità doganali del Paese esportatore in quanto istituzionalmente deputate ad esercitare i controlli sulla esattezza dei dati contenuti nelle dichiarazioni presentate dalle ditte esportatrici (ai fini della autosufficienza del motivo con cui si fa valere il vizio di motivazione, non è sufficiente che sussista un elemento trascurato dal giudice di merito e "potenzialmente" idoneo a condurre ad una diversa decisione, ma è necessario che tale elemento si integralmente ed adeguatamente descritto nel suo contenuto e nella sua decisività, nel senso che la spiegazione logica alternativa fornita sulla base della prova "appaia come l’unica possibile": cfr. Corte cass. sez. v. 2.4.1999 n. 3183;
id. ez. lav. 9.1.2009 n. 261).
Il certificato di origine, ai sensi dell’art. 81 Reg. CEE n. 2454/93 è condizione per l’ottenimento del beneficio daziario all’atto dell’introduzione della merce nella comunità, rappresentato dal certificato EUR 1 che costituisce prova dell’origine della merce, mentre l’autorità doganale del paese importatore, nella fattispecie la dogana italiana, non ha alcuno autonomo potere di determinazione in ordine all’accertamento dell’origine del prodotto, dovendo procedere al riscontro particolare del certificato d’origine.
Tale interpretazione va desunta, in particolare, dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 15.12.2011, C-409/10, emessa nella vicenda all’origine delle operazioni import-export per cui è causa.
Come la Corte ha ripetutamente giudicato in tale contesto, allorchè il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci indicate in un certificato EUR 1, si deve concludere che dette merci sono di origine ignota e che, pertanto, il certificato EUR 1 e la tariffa preferenziale sono stati concessi indebitamente (sentenze 7 dicembre 1993, causa C 12/92, H. e a., Racc. pag. 1 6381, punti 17 e 18; 14 maggio 1996, cause riunite C 153/94 e C 204/94, F. S. e a., Racc. pag. 1 2465, punto 16, nonchè B. C. S., cit., punto 34).
Tale giurisprudenza osta a che l’importatore possa sottrarsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione, facendo valere l’origine ignota delle merci e, quindi, la circostanza che non si possa escludere che talune tra esse abbiano l’origine preferenziale indicata nei certificati EUR.1 annullati.
Risulta, al contrario, dalla giurisprudenza che il recupero a posteriori dei dazi doganali non versati all’atto dell’importazione costituisce una normale conseguenza del fatto che il controllo a posteriori non consente di confermare l’origine delle merci come indicata nel certificato EUR 1 (citate sentenze H. e a., punto 19, e F. S. e a., punto 16).(Corte di Giustizia UE 15.12.2011, C-409/10, n. 45 e 46).
In forza di tale pronuncia e del regolamento comunitario citato deve ritenersi che il D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 TULD, in forza di un’interpretazione comunitariamente orientata, sanzioni anche la irregolare/falsa dichiarazione di origine del prodotto, essendo la società sanzionata responsabile del pagamento dei dazi evasi.
4. Anche il quinto motivo va disatteso.
Premesso che in termini generali una relazione dell’Olaf non può essere messa in discussione dalle dichiarazioni ("affidavit") di un soggetto ( O.M.) -che aveva lavorato alle dipendenze di diverse società esportatrici giamaicane per oltre venti anni (deposizione resa a verbale nella fase anteriore alla introduzione del promovendo giudizio avanti il Tribunale di quel Paese), e che, per diverse ragioni, appare inattendibile, avente un evidente interesse personale:
Esente da censure è la motivazione, incensurabile in sede di legittimità, della CTR al riguardo che ha ritenuto che tali dichiarazioni non possano costituire un attendibile elemento di prova, non essendo possibile apprezzarne il grado di credibilità, anzi in quanto già dipendente del gruppo Afasia e, per sua stessa ammissione, "direttamente incaricato dell’organizzazione delle spedizioni e della individuazione e risoluzione dei problemi correlati alle spedizioni e alla questioni doganali", ritenuto interessato a favorire l’ex datore di lavoro, potendo anche avere interesse ad alleggerire la sua posizione in quanto corresponsabile in un giudizio relativo ai fatti relativi al recupero a posteriori dei dazi.
Peraltro il contenuto delle sue affermazioni risulta anche mancante del requisito della decisività. Dalla dichiarazione si evince che il deponente aveva lavorato presso alcune ditte esportatrici giamaicane, ma non è dato verificare se la società ricorrente abbia o meno intrattenuto i rapporti commerciali oggetto della presenta controversia con alcuna di tali ditte. Non può ritenersi decisiva la affermazione secondo cui i funzionari delle dogane giamaicane "molto raramente hanno esaminato la rimozione dei sigilli dai container importati dalle Aziende giamaicane ma dalla decisione della Commissione UE 3.11.2008, punto 29, sembra piuttosto che il deponente intendesse sostenere che i funzionari doganali non rimuovevano i sigilli dei container per eseguire il controllo della merce – e non che i sigilli dei container fossero alterati, e di conseguenza non hanno quasi mai eseguito ispezioni di qualsivoglia natura in merito al contenuto degli stessi………le richieste di verifica relative alla autenticità dei certificati EUR-1 avanzate dai rispetti dipartimenti doganali della UE non hanno mai indotto…..condurre verifiche e controlli.." : la dichiarazione si presenta, infatti, del tutto generica ed imprecisa anche sotto l’aspetto cronologico ed inoltre non vale a provare la negligenza imputabile alle autorità giamaicane per omessa esecuzione delle ispezioni doganali sulla merce, tenuto conto che tale negligenza potrebbe configurarsi esclusivamente nel caso di violazione di specifiche disposizioni che vincolassero a tale tipo di accertamento, mentre l’art. 32 del Protocollo 1 annesso all’Accordo di Cotonou rimetteva alla scelta discrezionale delle autorità del Paese di esportazione le modalità ed il tipo di controlli doganali da eseguire, non imponendo alcun obbligo di verifica tipizzato. Non appaiono assistite dal requisito di decisività della prova neppure le dichiarazioni concernenti il rilascio di certificati EUR-1 da parte della autorità giamaicane anche dopo la verifica dell’ottobre 2004 che aveva portato – sembra – al sequestro e poi al rilascio di merce (maglioni finiti anzichè filati da lavorazione) relativa a "spedizioni non conformi alle normative doganali" a favore della ditta Antonio Knitters. La circostanza priva di ulteriori elementi chiarificatori (dalla decisione della Commissione UE, citata, risulterebbe che la merce fosse destinata alla zona franca e non alla esportazione verso i Paesi UE) ove anche idonea in astratto a dimostrare la intervenuta conoscenza/conoscibilità della frode da parte della autorità giamaicane, non consente tuttavia di verificare se tale consapevolezza potesse ritenersi acquisita anche al momento del rilascio dei certificati EUR-1 utilizzati dalla società ricorrente, difettando quindi il requisito di decisività della prova.
5. Anche l’ultimo motivo va disatteso, anche se occorre correggere la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..
Richiamate le considerazioni a riguardo già espresse al punto 1), va evidenziato che la buona fede dell’importatore è un elemento costitutivo della fattispecie disciplinata dall’art. 220 paragr. 2 lett. b) CDC volta ad escludere il recupero del dazio, la cui prova è posta a carico dell’importatore, dovendo questi "dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per i trattamento preferenziale", osserva il Collegio che le prove addotte dalla ricorrente e che i Giudici di merito avrebbero omesso di valutare incorrendo nel dedotto vizio logico della motivazione, risultano prive del requisito di decisività richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La società ricorrente ha omesso di trascrivere compiutamente il contenuto dei documenti la cui valutazione sarebbe stata omessa in tal modo impedendo alla Corte di verificare in limine la congruità della censura rivolta alla specifica statuizione della sentenza impugnata.
Premesso che, tanto nel caso di deduzione del vizio di irrituale od omessa ammissione di prove ovvero di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, quanto nel caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, la parte ricorrente è onerata non soltanto alla specifica indicazione della prova o del documento (eventualmente mediante individuazione della sede processuale in cui la prova è stata richiesta o prodotta: Corte cass. sez. av. 7.2.2011 n. 2966;
id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303;
id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239) ed alla chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. 1 sez. 17.5.2006 n. 11501), ma deve provvedere altresì alla completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti processuali o dei documenti in modo da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav.
12.6.2002 n. 8388).
Nella specie dalle scarne e lacunose indicazioni contenute nel ricorso emerge che tali documenti, prodotti nei gradi di merito, concernono:
gli esiti di controlli a posteriori degli anni 2000 – 2003 effettuati da dogane europee dei certificati giamaicani, ritenuti validi: ma a parte la indeterminatezza di tali "controlli" (non essendo precisato il numero, il tempo, il tipo di accertamento, quali verifiche siano state compiute), e premesso che la prova in questione potrebbe caso mai rilevare ai fini dell’errore imputabile alle autorità doganali (ma solo se supportato dall’elemento della reiterazione "durante un periodo relativamente lungo" e sempre che si tratti di errore non determinato dalle false dichiarazioni dell’esportatore: cfr. Corte giustizia 1.4.1993, causa C-250/91, H. P., punto 20) e non anche ai fini della condizione della "buona fede", non viene specificato se i certificati in questione riguardino merce importata per conto di ditte italiane dallo stesso spedizioniere e non è dato apprezzarne la rilevanza probatoria in assenza di incitazioni circa la natura delle richieste di controllo formulate dalle autorità doganali (non è chiarito se italiane o di altri Pesi europei) e l’accertamento compiuto dalle autorità doganali giamaicane (non potendo escludersi, come sembrerebbe desumersi dalla decisione della Commissione DE in data 3.11.2008 riportata nella memoria ex art. 378 c.p.c. depositata dalla Agenzia resistente – che la questione avesse riguardato solo la genuinità del timbro apposto sul certificato EUR- 1 e non anche la esattezza della origine della merce).
La circostanza che le autorità giamaicane fossero state indotte in errore dalle ditte esportatrice che avevano agito in frode con spiccata professionalità non appare ex se argomento dirimente a fornire un elemento di valutazione tale da sovvertire la decisione dei Giudici di appello, se non altro in considerazione della non assimilabilità della posizione in cui viene a trovarsi la società importatrice che viene in rapporti commerciali, e dunque fa affari, con le ditte esportatrici, rispetto alla posizione rivestita dalle autorità doganali del Paese esportatore in quanto istituzionalmente deputate ad esercitare i controlli sulla esattezza dei dati contenuti nelle dichiarazioni presentate dalle ditte esportatrici (ai fini della autosufficienza del motivo con cui si fa valere il vizio di motivazione, non è sufficiente che sussista un elemento trascurato dal giudice di merito e "potenzialmente" idoneo a condurre ad una diversa decisione, ma è necessario che tale elemento si integralmente ed adeguatamente descritto nel suo contenuto e nella sua decisività, nel senso che la spiegazione logica alternativa fornita sulla base della prova "appaia come l’unica possibile": cfr.
Corte cass. sez. v. 2.4.1999 n. 3183; id. ez. lav. 9.1.2009 n. 261).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.000,00 per onorari oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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