Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14032

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
La Commissione Tributaria Provinciale di Varese, con sentenza 233/05/2006 accoglieva il ricorso proposto dalla società D. S. s.r.l. avverso l’avviso in rettifica emesso dalla Circoscrizione doganale Milano (OMISSIS) con il quale venivano liquidati i dazi all’importazione di prodotti tessili acquistati da imprese residenti nello Stato della Giamaica, essendo risultata la merce priva del requisito di origine preferenziale.
Con sentenza n. 58/01/09 depositata il 7.4.2009 la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Dogane, confermando l’avviso di rettifica.
L’avviso trae origine dalle risultanze della missione comunitaria svolta dall’OLAF (organismo europeo antifrode) in Giamaica, in ottemperanza dell’accordo ACP- UE siglato a C. il 23/6/2000 al fine di accertare l’origine delle merci esportate dalla Giamaica verso l’unione europea dal gennaio 2000 al dicembre 2004, sia la regolarità dei relativi certificati di origine preferenziale EUR 1.
In forza dell’accordo di C. le merci originarie della Giamaica scortate da apposito certificato (EUR 1)che tale origine comprovi, beneficiavano di un trattamento daziario preferenziale all’atto dell’importazione nell’UE, consistente nell’esenzione dal dazio (fissato nel 12,20% del valore della merce).
L’autorità giamaicana non confermava la validità di tali certificati e gli Stati membri sono stati invitati al recupero dei maggiori diritti doganali dovuti sulle importazioni oggetto di indagine.
Il provvedimento oggetto della presente controversia si fonda sui risultati dell’accertamento operato secondo cui alla merce in questione non poteva essere riconosciuta l’origine preferenziale "Giamaica", poichè i certificati EUR 1 rilasciati dalle autorità giamaicane erano irregolari e, pertanto, non potevano godere del trattamento preferenziale.
La commissione tributaria regionale della Lombardia riteneva la legittimazione processuale della dirigente S.O.T. di Malpensa, accertando, nel merito, che i modelli EUR 1 contenevano dichiarazioni false circa l’origine della merce, mentre la società non ha esibito alcuna documentazione comprovante l’origine giamaicana delle merci importate. In particolare evidenziavano che, per negligenza imputabile soltanto alla società esportatrice (che non aveva conservato la documentazione), le autorità doganali erano nell’impossibilità di fornire la prova del fatto che i certificati di circolazione delle merci EUR 1 fossero stati rilasciati sulla base della presentazione esatta o inesatta dei fatti da parte dell’esportatore stesso, incombeva al debitore dei dazi dimostrare che tali certificati, rilasciati dalle autorità dei paese terzo, si basavano su un’esatta rappresentazione dei fatti, mentre detta prova non era stata offerta.
I giudici d’appello, premesso che l’OLAF aveva accertato manifeste irregolarità nelle dichiarazioni d’origine EUR 1 rilevavano che non v’era carenza motivazionale degli atti impositivi, bensì carenza di documentazione comprovante l’origine giamaicana delle merci importate e che tale carenza era ascrivibile alla società ricorrente che non aveva esibito la documentazione probatoria che la società esportatrice era tenuta a conservare ai sensi dell’Accordi di C..
La società impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:
a) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) non avendo la CTR rilevato il difetto di legittimazione processuale attiva del direttore della S.O.T., (Sezione Operativa Territoriale) spettando tale rappresentanza al direttore dell’ufficio delle dogane di Varese-Malpensa;
b) omessa o insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla presunta esistenza, nell’atto impugnato in quelli ad esso presupposti del contenuto essenziale degli atti non allegati;
c) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3), reiterando le censure formulate nel capo precedente;
d) omessa o insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata conservazione per il periodo di tre anni dei documenti comprovanti l’origine giamaicana delle merci;
e) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) derogando la decisione ai principi dell’onere della prova, essendo la dogana tenuta a fornire una dimostrazione dei fatti costitutivi dell’obbigazione tributaria;
f) violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla regolamentazione delle spese processuali, liquidate asseritamente in misura eccessiva (Euro 1.000,00) in relazione al valore della controversia.
L’Agenzia delle Dogane si è costituita ne giudizio di legittimità con controricorso, depositando anche successive memorie; anche la società depositava memoria.
Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 7.6.2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.
1) In relazione al primo motivo di ricorso l’art. 7, comma 3, lett. b del regolamento di amministrazione definisce i compiti degli uffici periferici prevede la competenza degli uffici locali alla "gestione del contenzioso"; già le Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze n. 3116 del 2006 e n. 22641 del 2007 hanno riconosciuto agli Uffici periferici dell’Agenzia la legittimazione a stare in giudizio in via concorrente e alternativa rispetto a quella del Direttore presso la sede centrale, in ossequio, tra l’altro, al principio di effettività della tutela giurisdizionale che, al contrario di quanto postulato dalla ricorrente – impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.
All’ufficio S.OT. di Malpensa è preposto un direttore, ai sensi dell’art. 7, comma 1, reg. cit. e tale ufficio periferico dell’Agenzia delle dogane è legittimato attivamente e passivamente a stare in giudizio, nei limiti delle sue attribuzioni, dinanzi alle commissioni tributarie.
Valgono, infatti, per l’Agenzia delle Dogane, gli stessi principi consolidi enunciati da questa Corte per le altre Agenzie (ex multis 14815/2011). Si è detto anche in dottrina che "…ai fini esclusivi del rapporto processuale …la qualità di parte dinnanzi alle commissioni tributarie è assunta dal singolo ufficio dell’amministrazione finanziaria periferica che ha trattato la controversia", ossia, secondo il tenore del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10 "l’ufficio … che ha emanato l’atto impugnato".
Nella specie è pacifico che l’atto impugnato provenisse dalla Circoscrizione doganale di Milano (OMISSIS) – Dogana di Malpensa, che è stata parte, in persona del direttore della Circ. Dog. Milano (OMISSIS) (v.
atto di cost. in fase, contribuente), del giudizio di prime cure conclusosi nel 2006. Nel 2007, con apposita determinazione del direttore dell’Agenzia delle dogane, "è istituita e attivata … la Sezione operativa territoriale di livello dirigenziale di Malpensa, con sede presso l’omonimo aeroporto, dipendente dall’Ufficio delle dogane di Varese", ridenominato Ufficio delle dogane di Varese- Malpensa; contestualmente, "è soppressa la … Dogana di Malpensa" e "la Sezione operativa territoriale di Malpensa assume le competenze territoriali dell’attuale dogana di Malpensa". Dunque, il rapporto processuale instauratosi con la "Dogana di Malpensa" prosegue ipso iure con la "Sezione operativa territoriale di livello dirigenziale di Malpensa". Del resto gli uffici locali – a mente dell’art. 7, comma 3, lett.b), del regolamento di agenzia, "assicurano sul territorio di competenza … la gestione del contenzioso per i diritti doganali", senza necessità di particolare specificazione o delega.
Sul punto e in tesi generale la dottrina sostiene che la sottoscrizione degli atti processuali compete, riguardo agli uffici periferici dell’Agenzia delle dogane", tra gli altri,"al ricevitore (per gli uffici doganali)".
2) Il secondo motivo difetta di autosufficienza, in quanto non viene riprodotta testualmente la motivazione dell’avviso di accertamento, documento al quali questa Corte non può accedere direttamente e la cui conoscenza è necessaria per valutare la fondatezza della censura di difetto di motivazione dell’atto proposta in questa sede (secondo motivo), mentre il quarto motivo sconfina in censure di merito, inammissibili in sede di legittimità.
Per altro va segnalato che la Corte di Giustizia UE, con sentenza 15.12.2011, C-409/10, ha dichiarato che non si può esigere dalle autorità doganali dello Stato di importazione la prova che l’esportatore ha effettuato false dichiarazioni, qualora risulti che quest’ultimo non ha conservato, malgrado l’obbligo derivante dalla disciplina applicabile, i documenti relativi alle merci di cui trattasi per almeno tre anni. Infatti, in tali condizioni, dette autorità sono prive della possibilità di dimostrare se le informazioni fornite dall’esportatore ai fini del rilascio dei certificati EUR. 1 fossero corrette o no (sentenza B. C. S., cit, punto 40).(punto 51 Corte di Giustizia UE 15.12.2011 , C-409/10).
3) Il terzo e quinto motivo sono anch’essi infondati in quanto trascurano di evidenziare che la pretesa di recupero dei dazi è congruamente e sufficientemente dimostrata ove si basi, come nel caso di specie, sulle risultanze di atti ispettivi richiamati degli organismi antifrode comunitari come l’OLAF (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 1583 del 3/02/2012). Spetterà poi al contribuente che contesti il fondamento di tale pretesa fornire la prova contraria della sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (Cass. 24/09/2008 n. 23985).
L’art. 220, n. 2, lett. b), del codice doganale deve essere interpretato nel senso che, in una situazione in cui i certificati EUR. 1 rilasciati per l’importazione di merci nell’Unione sono annullati in quanto il loro rilascio è viziato da irregolarità e l’origine preferenziale indicata su di essi non ha potuto essere confermata all’atto di un controllo a posteriori, l’importatore non può opporsi al recupero a posteriori dei dazi all’importazione facendo valere che non si può escludere che, in realtà, talune di dette merci abbiano l’origine preferenziale suddetta.
Quindi non può essere invocato da parte della società importatrice l’esimente della buona fede per la mancanza di un errore attivo ascrivibile al comportamento delle autorità doganali del paese di esportazione, non rilevando le eccezioni sollevate, nel presente giudizio, dalla predetta società.
Al riguardo si è affermato da parte di questa Corte che l’azione di recupero "a posteriori" dei dazi dovuti – per violazione del sistema delle preferenze generalizzate – non è preclusa dall’errore del contribuente che abbia reso dichiarazioni inesatte in quanto determinate dalla falsità delle dichiarazioni o della documentazione provenienti dall’esportatore (nella specie relative all’origine del materiale impiegato nella confezione del prodotto), delle quali nessuna autorità debba preliminarmente verificare o valutare la validità, e che si rivelino mendaci in occasione di un successivo controllo, giacchè tale vicenda esclude la configurabilità di un errore sull’interpretazione o applicazione dei testi doganali, conseguenza del comportamento attivo delle autorità competenti per il recupero o dello Stato membro di esportazione che abbia indotto il debitore a rendere una dichiarazione inesatta e, quindi, la sussistenza di uno dei presupposti richiesti dall’art. 5, n. 2, del Regolamento CEE 24 luglio 1979, n. 1697, così come interpretato dalla Corte di Giustizia CEE nelle sentenze 27 giugno 1991 in causa 348/89 e 14 novembre 2002, in causa C- 251/00, perchè non si proceda alla non contabilizzazione "a posteriori" dei diritti dovuti (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24916 del 25/11/2011) Grava , pertanto, sul debitore "debitore", in forza della giurisprudenza comunitaria, il rischio derivante da un documento commerciale che, in occasione di un successivo controllo si riveli, come nella fattispecie, falso. La Commissione Europea, con decisione in data 3/11/2008 n. 6317 (fase.
REM 03/2007) ha respinto la richiesta di sgravio di dazio d’importazione presentata, ai sensi dell’art. 239 codice doganale comunitario, da un operatore spagnolo in relazione all’importazione di prodotti tessili originari della Giamaica e rientranti, come quell’oggetto del presente contenzioso, nell’ambito delle verifiche dell’OLAF. Il giudice nazionale non può discostarsi, stante la immediata operatività, da tale pronuncia (cfr Corte Giust. 20/11/2008, C- 375/07) Medesimi principi sono stati enunciati dalla citata sentenza Corte di Giustizia UE 15.12.2011 C-409/10.
Nella citata pronuncia della commissione europea si evidenzia che le autorità giamaicane sono stati ingannate dagli esportatori e, malgrado i controlli effettuati, non potevano scoprire la frode commessa a causa delle manovre compiute dagli esportatori. Quindi, tenuto conto di quanto sopra, la commissione ha ritenuto che non vi sia prova del fatto che le autorità giamaicane dovessero sapere che le merci non rispondevano alle condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale. Occorre quindi concludere che esse non hanno commesso un errore ai sensi dell’art. 220, paragrafo due, punto b) del regolamento CEE n. 2913/92 (punto 59) Quindi, all’aumento delle importazioni oggetto del contendere, non era stata accertato che prodotti tessili importati dalla Giamaica erano di fatto originari della Cina dovendosi, quindi, escludere ogni errore da parte delle autorità competenti.
Ai sensi dell’art. 239 del regolamento CEE numero 2913/92 si può procedere al rimborso dei dazi all’importazione in situazioni diverse da quelle previste agli artt. 236, 237 238 del citato regolamento, risultando le circostanze che non implicano alcuna manovra fraudolenta o negligenza manifesta da parte dell’interessato.
Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta che tale disposizione costituisce una clausola generali di equità e che l’esistenza di una situazione particolare si configura quando dalle circostanze del caso risulti che il debitore si trova in una situazione eccezionale nei confronti degli altri operatori che esercitano la stessa attività e che in assenza di tali circostanze, egli non avrebbe subito il pregiudizio arrecato dalla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali (Corte di Giust.
sentenza 10.5.2001, racolta p. 11 – 01337).
Quindi la situazione in cui l’interessato si trova deve essere considerata come una situazione eccezionale rispetto agli altri operatori che esercitano la stessa attività.
Nel caso di specie non si può rimproverare alle autorità giamaicane di non avere scoperto la frode commessa nel periodo in questione dato che avevano messo in opera un sistema di controllo documentale efficace e che, per di più, è stata accertato che le imprese interessate svolgevano l’attività economica di importazione di filati. Di conseguenza non è possibile considerare che l’interessato si trovasse in una situazione particolare ai sensi dell’art. 239 del regolamento cee cit (punto 69 Comm. Eur. n. 6317/08).
Il debitore non può nutrire un legittimo affidamento sulla validità dei certificati per il fatto che siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalle autorità doganali di uno Stato, dato che le operazioni effettuate dai detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi.
Pertanto, qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine della merce indicata nel certificato, si deve ritenere che la tariffa preferenziale sia stata concessa indebitamente (sentenza S., cit. punto 16).
Non avendo la società responsabile della violazione dimostrato la sua estraneità all’azione illecita e la insussistenza di profili di negligenza, alla luce dei principi sopra espressi, con riferimento ai documenti utilizzati nell’operazione commerciale, deve ritenersi presunta la sua responsabilità per il pagamento dei tributi e delle relative sanzioni.
4) Anche il quarto motivo va disatteso.
Come emerge anche dalla lettura della sentenza di appello, la indagine OLAF aveva concluso per la impossibilità di pervenire alla prova della origine preferenziale della mercè indicata nei certificati EUR-1 in quanto le società giamaicane esportatrici non avevano conservato, come era loro dovere (secondo quanto disposto dall’art. 28 del Protocollo 1 dell’Accordo di C.), i documenti necessari ad effettuare la verifica, con la conseguenza che le autorità doganali giamaicane avevano comunicato che i certificati erano da ritenersi genuini ma inesatti nel contenuto ideologico in quanto inidonei ad attestare la origine dei prodotti. Tale dichiarazione proveniente dalle stesse autorità che avevano rilasciato i certificati EUR-1 prescinde dalla necessità della preventiva sottoscrizione del rapporto conclusivo dell’OLAF, e pur potendo dare luogo ad eventuale formale revoca del certificato, prescinde anche da tale provvedimento, in quanto diretta a rappresentare la assoluta ed insuperabile inefficacia probatoria di tali documenti in ordine alla dimostrazione dell’origine preferenziale della merce: il che è a dire che la merce indicata nel certificato – valido quanto a requisiti formali e di legittimazione – potrebbe risultare in tutto od in parte effettivamente fabbricata nel Paese esportatore beneficiario della esenzione, ma potrebbe anche essere priva di tale caratteristica in quanto fabbricata aliunde e meramente riesportata dalle ditte giamaicane nel territorio doganale europeo.
Tale dichiarazione, provenendo dalle stesse autorità doganali del Paese esportatore, risponde al principio di diritto comunitario secondo cui "il controllo a posteriori dei certificati EUR-1 rilasciati dallo Stato di esportazione, le conclusioni alle quali sono pervenute le autorità di quest’ultimo, si impongono alle autorità dello Stato membro di importazione. Infatti la cooperazione sancita da un protocollo relativo alla origine dei prodotti può funzionare soltanto se lo Stato di importazione accetta le valutazioni legalmente effettuate al riguardo dallo Stato di esportane (sentenze 17 luglio 1997 , causa C-97/95, P. & F., punto 33;……25 febbraio 2010, causa C-386/08 B., punto 62)" (cfr. Corte giustizia UE 15.12.2011, causa C-409/10, H. H.-A. K., punto 29) e deve ritenersi pienamente conforme al disposto dell’art. 32, comma 5 del Protocollo 1 dell’accordo internazionale sottoscritto a C. in data 23.6.2000 secondo cui "i risultati del controllo" effettuato dalle autorità doganali del Paese di esportazione (anche a seguito di inchiesta condotta in cooperazione con la Comunità europea) "devono essere comunicati al più presto alle autorità doganali che lo hanno richiesto, indicando chiaramente se i documenti sono autentici, se i prodotti in questione possono essere considerati originari degli Stati ACP……e se soddisfano gli altri requisiti del presente Protocollo" (cfr. Corte giustizia 15.12.2011, C-409/10, che riporta il testo del Protocollo):
risultando dunque nettamente distinti gli aspetti concernenti la "autenticità" e la "capacità rappresentativa" del documento.
La questione prospettata dalla società deve, pertanto, ritenersi infondata alla stregua della giurisprudenza comunitaria richiamata e dell’inequivoco tenore della indicata disposizione del Protocollo 1 dell’accordo di C. che prevede la comunicazione dei "risultati dei controlli" eseguiti dalle autorità doganale dello Stato esportatore, senza che vengano prescritte specifiche formalità – tanto meno di natura provvedimentali – con le quali debbono essere esternati tali risultati, bene potendo dette autorità limitarsi a comunicare – come nella specie si è verificato – che i certificati, se pure genuini quanto alla provenienza e formazione del documento, non potevano tuttavia dimostrare la effettiva origine dei prodotti che doveva, pertanto, ritenersi ignota.
Deve pertanto ribadirsi il principio di diritto secondo cui nè il rifiuto del beneficio di applicazione di tariffe preferenziali, nè il recupero "a posteriori" dei dazi esentati o ridotti, sono subordinati all’annullamento o alla revoca del documento (certificato EUR-1) da parte delle autorità del Paese emittente, in quanto l’adozione delle misure recuperatorie del dazio è legittimata anche in base alle sole risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi comunitari, secondo il disposto dell’art. 26 del predetto Regolamento CEE n. 2913 del 1992 e dell’art. 94, par. 5, del Regolamento CEE n. 2454 del 1993 (cfr. Corte cass. 5 sez. 4.4.2012 n. 5400).
5) L’ultimo motivo è inammissibile, atteso che il ricorso contiene il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso senza indicare le singole voci tariffarie contestate.
La parte, la quale intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi tariffari, ha l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in eccesso rispetto alla tariffa massima (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18086 del 07/08/2009).
La liquidazione delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino, ratione temporis, le tariffe professionali all’epoca vigenti, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 14542 del 4/07/2011).
Va, conseguentemente, rigettato il ricorso.
Le spese processuali vanno poste a carico della ricorrente, in base al principio di soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del grado di giudizio che liquida in Euro 540,00 per onorari, oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 6 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012
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