Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 31-01-2013) 07-03-2013, n. 10747

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Avverso l’ordinanza della Corte di appello di Catania, in funzione di giudice dell’esecuzione, con la quale, in data 7 maggio 2012, veniva rigettata la sua domanda volta all’applicazione della disciplina di favore di cui all’art. 671 c.p.p., comma 1 in relazione a tre sentenze di condanna, due delle quali pronunciate dall’autorità giudiziaria di Reggio Calabria per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. già unificate ai sensi dell’art. 81 c.p., e l’altra pronunciata dalla Corte di appello di Messina per i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 di cui alla L. n. 497 del 1974 e di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 23 e art. 648 c.p., ricorre per cassazione, assistito dal difensore di fiducia, E. A..

Lamenta, in particolare, la difesa ricorrente che il giudice del merito non avrebbe adeguatamente delibato la istanza rivolta dal detenuto dappoichè ignorata la circostanza di fatto che i reati associativi sono stati contestati in data anteriore al 13.1.1986 con contestazione aperta "fino ad oggi", eppertanto fino al 2001, anno in cui furono pronunciate le relative condanne. Su tale presupposto evidenzia ancora la difesa istante che le condotte giudicate con la sentenza della corte messinese hanno tempi sovrapponigli a quelli del reato associativo e che l’esclusione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 da parte dei giudicanti dei reati fine non inficia in alcun modo il riconoscimento invocato, agendo la disciplina del reato continuato su un piano diverso e distinto da quello proprio del riconoscimento o meno dell’aggravante detta. Di qui, per la difesa ricorrente, il difetto di motivazione per la mancata considerazione delle esposte tesi difensive e la violazione di legge per la mancata applicazione della disciplina di favore invocata.

2. Il P.G. in sede depositava requisitoria scritta chiedendo il rigetto del ricorso.

3. Il ricorso è infondato.

3.1 Giova prendere le mosse, ribadendola, dall’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. 1, 12.05.2006, n. 35797) secondo cui la continuazione presuppone l’anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, situazione ben diversa da una mera inclinazione a reiterare nel tempo violazioni della stessa specie, anche se dovuta a una determinata scelta di vita o ad un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità (cfr., per tutte, Cass., Sez. 2, 7/19.4.2004, Tuzzeo; Sez. 1, 15.11.2000/31.1.2001, Barresi). La prova di detta congiunta previsione – ritenuta meritevole di più benevolo trattamento sanzionatorio attesa la minore capacità a delinquere di chi si determina a commettere gli illeciti in forza di un singolo impulso, anzicchè di spinte criminose indipendenti e reiterate – investendo l’inesplorabile interiorità psichica del soggetto, deve di regola essere ricavata da indici esteriori significativi, alla luce dell’esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte poste in essere. Tali indici, di cui la giurisprudenza ha fornito esemplificative elencazioni (fra gli altri, l’omogeneità delle condotte, il bene giuridico offeso, il contenuto intervallo temporale, la sistematicità e le abitudini programmate di vita), hanno normalmente un carattere sintomatico, e non direttamente dimostrativo; l’accertamento, pur officioso e non implicante oneri probatori, deve assumere il carattere di effettiva dimostrazione logica, non potendo essere affidato a semplici congetture o presunzioni. Detto accertamento, infine, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, quando il convincimento del giudice sia sorretto da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamento dei fatti.

Quanto poi, in particolare, all’evocata relazione ai fini del presente giudizio tra reato associativo e reati mezzo, come da costante insegnamento di questa Corte, la continuazione non è incompatibile con la commissione di reati permanenti, ma il giudice deve valutare volta per volta l’esistenza o meno di tutti o alcuni degli indici rivelatori della sussistenza dell’unicità del disegno criminoso. In particolare, in materia di reato associativo la continuazione coi reati fine deve essere valutata dal giudice di merito tramite una verifica puntuale del fatto che i sodali abbiano preventivamente individuato tali reati nelle loro linee essenziali prima della attuazione della condotta (Cass. Sez. 1, 17/11/2005, n. 46576). E’ pertanto ipotizzabile la sussistenza della continuazione tra reato associativo e reati fine a condizione che questi ultimi siano già stati programmati al momento della applicazione della associazione (Cass. (Ord.), Sez. 1, 28/03/2006, n. 12639; 8.04.2009, rie. Vaccaro).

3.2 Tanto premesso sul piano dei principi, non può non convenirsi con la conclusione che il giudice di merito abbia fatto di essi puntuale applicazione, con provvedimento sintetico ma articolato logicamente, di guisa che oltre lo stesso rimane il giudizio di merito, abbondantemente invocato col ricorso in esame, che anche per tale ragione non può trovare ingresso.

Il giudice a quo infatti ha ben interpretato la nozione di unità del disegno criminoso, propria della disciplina di cui all’art. 81 c.p., negandola sul rilievo che nulla agli atti consente di affermare che ab origine in capo al ricorrente sia stata presente la programmazione criminale accreditata dalla difesa istante.

Ha sostanzialmente precisato il giudice dell’esecuzione che nel caso di specie non può ipotizzarsi che al momento della adesione all’associazione mafiosa il ricorrente avesse ideato, ancorchè a grandi linee, i delitti rientranti nel programma criminale, anche perchè, ed è dato di indubbia significanza nonostante il diverso opinare difensivo, l’analisi della sentenza di condanna per i reati fine consente di annotare finanche l’esclusione dell’aggravante di cui al D.L. n. 203 del 1991, art. 7 eppertanto il legame di essi con la condotta associativa non già al momento iniziale dell’associazione, ma finanche in una fase di attuale permanenza di essa.

4. Il ricorso deve essere quindi rigettato ed al rigetto consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2013

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