Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14018

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
La Agenzia delle Entrate ha impugnato per cassazione – deducendo con cinque motivi, vizi di violazione di norme di diritto e vizi motivazionali – la sentenza della CTR del Lazio in data 10.9.2009 n. 458 ce, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto dall’Ufficio Roma 6 della Agenzia delle Entrate e dell’appello incidentale proposto dalla contribuente P. s.p.a., dopo aver rigettato la eccezione di decadenza dall’esercizio del potere impositivo ritenendo applicabile la proroga biennale del termine di decadenza concessa dalla L. n. 282 del 2002, art. 10, aveva statuito:
1-) l’annullamento dell’avviso di accertamento in ordine alla ripresa a tassazione delle quote di ammortamento di due immobili di proprietà della società, ritenendo tali beni strumentali all’esercizio della impresa (erogazione di servizi sanitari) in quanto destinati rispettivamente ad uso convegni e seminari per la formazione professionale del personale medico e paramedico nonchè ad uso archivio.
2-) l’annullamento dell’avviso di accertamento in ordine alla ripresa a tassazione dei redditi fondiari non dichiarati, relativi ai predetti immobili, trattandosi di beni strumentali alla impresa non produttivi ai sensi dell’art. 40 TUIR di reddito fondiario.
3-) la conferma della sentenza di prime cure in ordine all’annullamento dell’avviso di accertamento relativamente alla ripresa di costi indeducibili per lire 1.613.110.000 concernenti il contratto di appalto dei lavori di ristrutturazione dei predetti immobili stipulato tra P. s.p.a. e S s.r.l. avendo la CTR ritenuto sfornito di prova l’assunto dell’Ufficio secondo cui la operazione era fittizia per carenza di adeguata struttura organizzativa della società appaltante;
4-) la conferma ella sentenza di prime cure in ordine all’annullamento dell’avviso di accertamento relativamente al disconoscimento della minusvalenza per lire 3.982.232.700 – derivante dalla cessione di quote di partecipazione nella Immobiliare San Vincenzo – in quanto derivante da operazione antieconomica ed elusiva, avendo ritenuto la CTR giustificata la minusvalenza in considerazione delle ingenti perdite registrate dalla società partecipata negli esercizi precedenti;
5-) la riforma della sentenza di prime cure, in accoglimento dell’appello incidentale della società, con l’annullamento dell’avviso di accertamento, in ordina alla ripresa a tassazione di costi pari a lire 89.627.777 sostenuti per la manutenzione ordinaria degli immobili predetti, avendo la CTR riconosciuto la natura strumentale di tali beni;
6-) la riforma della sentenza di prime cure, in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, avendo a CTR ritenuto legittimo l’avviso di accertamento in relazione alla ripresa a tassazione di costi indeducibili pari a lire 690.103.355 sostenuti da P. s.p.a. per commissioni pagate su contratti di factoring aventi ad oggetto crediti vantati dalla società nei confronti della Azienda Usl Roma H: i Giudici di appello rilevavano che la cessione era da ritenersi soggetta al divieto di cui al R.D. n. 2440 del 1923, art. 70 in quanto le prestazioni eseguite non avevano esaurito la esecuzione del contratto da ritenersi ancora "in corso";
7-) la riforma della sentenza di prime cure, in accoglimento dell’appello incidentale della società, con P annullamento dell’avviso di accertamento relativamente alla ripresa a tassazione di costi non inerenti ex art. 75 TUIR, pari a lire 60.000.000, sostenuti negli anni precedenti per consulenze mediche specialistiche: i Giudici di appello ritenevano che la società contribuente era pervenuta a conoscenza del "quantum" della spesa soltanto con la fattura a conguaglio emessa in data 25.7.1999 dal proprio fornitore ancorchè le prestazioni eseguite si riferissero ai precedenti anni 1997 e 1998.
Resiste con controricorso P. s.p.a.,proponendo contestuale ricorso incidentale affidato a quattro motivi o i quali si censura la sentenza di appello per vizi di violazione di norme di diritto e vizi motivazionali in relazione:
– al capo concernente il rigetto della eccezione di decadenza della Amministrazione dal potere impositivo ai sensi della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 10;
– al capo concernente il disconoscimento della deducibilità di costi inerenti relativi al pagamento delle commissioni dovute in dipendenza del contratto di cessione di crediti.
La Agenzia delle Entrate ha illustrato le proprie difese anche con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
p. 1. Questioni pregiudiziali.
La eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza, proposta dalla controricorrente, è infondata oltre che generica.
Nessun obbligo è previsto ex lege della partizione dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità nella esposizione del processo e nella esposizione delle argomentazioni giuridiche.
Il requisito previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3) assolve alla funzione di individuare con esattezza il thema decidendum sul quale si innesta il giudizio di legittimità, e tale funzione risulta assolta dalla descrizione sintetica ma esaustiva dell’atto impositivo, degli atti difensivi delle parti e delle pronunce rese nei gradi merito, contenuta nelle pag. 1-4 del ricorso per cassazione.
Del pari priva di fondamento normativo è la eccezione di inammissibilità formulata sull’inesistente obbligo per la parte ricorrente di riportare integralmente nel ricorso per cassazione il contenuto di tutti gli atti processuali (cfr. Corte cass. SU 3.11.2011 n. 22726 che. per i giudizi tributari. esclude anche la necessità di produrre – a pena di improcedibilità – gli atti e documenti sui quali il ricorso si fonda).
Apodittica generica, e pertanto inammissibile è la eccezione di inammissibilità dedotta sull’asserito mancato svolgimento nel ricorso per cassazione di una critica specifica all’apparato motivazionale della sentenza impugnata.
p. 2. Esame motivi ricorso principale.
1. Con il primo motivo la Agenzia delle Entrate deduce violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 TUIR e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sostenendo al erroneità della statuizione della sentenza di appello in punto di riconoscimento della deducibilità di costi inerenti relativi ai corrispettivi contrattuali versati dalla contribuente a S s.r.l. per la esecuzione di lavori di ristrutturazione di alcuni immobili.
La Agenzia deduce che l’avviso di accertamento era puntualmente motivato in relazione alle risultanze delle indagini svolte dalla Guardia di Finanza e compendiate nel PVC in data 25.10.2001 allegato all’avviso notificato, evidenziando elementi indiziari dotati dei requisiti ex art. 2729 c.c. volti a dimostrare ce il contratto di appalto era da ritenersi fittizio (sicchè veniva ripresa a tassazione la differenza tra l’importo contrattuale e quello invece effettivamente sostenuto dalla contribuente per il pagamento dei subappaltatori).
In particolare dal PVC emergeva che S s.r.l. che deteneva il 94% della partecipazione in P. s.p.a., non aveva svolto alcuna prestazione contrattuale atteso che: solo P. s.p.a. disponeva di un ufficio tecnico e di personale adeguato, mentre la appaltatrice non era priva di idonee strutture organizzative per la esecuzione di lavori edili: i lavori erano stati curati esclusivamente dall’Ufficio tecnico di P. s.p.a. che provvedeva anche alla predisposizione dei SS.AA.LL., a curare i rapporti con le imprese subappaltatrici, a tenere aggiornato il libro di cantiere nonchè ad approvare le varianti ai lavori in corso d’opera; i lavori sono stati anche subappaltati a terzi con l’intervento del dott. G.M., padre della amministratrice di S s.r.l. e che, se pure privo di poteri, aveva stipulato i contratti di subappalto;in alcuni casi P. aveva emesso direttamente fattura nei confronti delle società subappaltatrici.
Dal predetto quadro probatorio, secondo la ricorrente principale, emergerebbe una operazione antieconomica volta esclusivamente a far lievitare il costo dei lavori (in misura pari alla differenza tra il corrispettivo del contratto di appalto ed i corrispettivi pattuiti con i subappaltatori) ed a consentire a P. s.p.a. di incrementare l’ammontare dei costi fiscalmente deducibili.
1.1 Il motivo è inammissibile in quanto la ricorrente censurando la sentenza in relazione all’"error in judicando" intende piuttosto far valere l’"error facti" consistente nella omessa od inesatta valutazione del materiale probatorio con conseguente vizio logico inficiante le ragioni poste a sostegno del decisum, vizio quest’ultimo che doveva essere denunciato con riferimento al differente paradigma normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamente affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Corte cass. 1 sez. 11.8.2004 n. 15499; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 16698 "In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata violazione delle risultanze di causa"; vedi Corte cass. 2 sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3 sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9185 sulla inammissibilità del ricorso con cui si denuncia violazione di norma di diritto deducendo nella esposizione del motivo argomenti a fondamento del vizio motivazionale della sentenza; id. 3 sez. 7.5.2007 n. 10295 sulla antinomia tra "error in iudicando" e vizio di motivazione).
Tale incompatibilità ontologica priva, pertanto, la censura di violazione di norma di diritto del necessario supporto argomentativo richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) per l’ammissibilità del motivo.
2. Con il secondo motivo la Agenzia delle Entrate deduce il vizio di insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), alla stregua delle medesime argomentazioni svolte nel precedente motivo.
La censura è fondata.
La CTR laziale ha affermato la deducibilità dei costi relativi al contratto di appalto sulla base di argomentazioni che, da un lato, prescindono dalla disamina e valutazione degli elementi indiziari posti a fondamento dell’avviso di accertamento (ritualmente prodotto nel giudizio di merito in allegato 1 al ricorso introduttivo della contribuente) e rilevati dai verbalizzanti come risulta dal PVC (anch’esso ritualmente acquisito al giudizio di merito come allegato 2 al ricorso introduttivo, ed il cui contenuto è stato trascritto nelle parti salienti nel ricorso per cassazione, pag. 4-7), dall’altro, valorizzano elementi circostanziali che appaiono logicamente inconcludenti rispetto alla questione controversa. Ed infatti i Giudici di appello hanno ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento sulla scorta:
– della incontestata "esistenza" della S come "soggetto effettivamente operante nel settore", giustificando tale asserzione ("..ed infatti…") in base alla partecipazione quasi totalitaria (94% del capitale sociale) di tale società nella controllata P. s.p.a. ed alla posizione assunta dalla prima quale "holding …dotata di autonoma organizzazione amministrativa e di proprio personale" (cfr. motiv. pag. 4 sent. CTR).
– della effettiva stipula dei contratti di subappalto con imprese terze, risultando le fatture emesse corrispondenti alle registrazioni contabili.
– della rilevanza nell’ambito del conto economico del bilancio consolidato di Gruppo dei costi dedotti da P. s.p.a..
– della inconfigurabiiità di un utilizzo fraudolento dell’IVA addebitata a P. s.p.a. a seguito della fatturazione emessa da S s.r.l..
– della mancata indicazione da parte dell’Ufficio della condotta che il contribuente avrebbe dovuto tenere per qualificare la operazione "secundum legem".
2.1 Orbene, avuto riguardo alle motivazione dell’avviso di accertamento e agli elementi indiziari indicati dalla Amministrazione con riferimento alle indagini svolte dai verbalizzanti:
1- del tutto irrilevante è la circostanza della esistenza del soggetto giuridico S s.r.l. e della idoneità della struttura organizzativa ad assolvere ai compiti propri di una "holding": anzi proprio tale elemento consente di rilevare l’anomalia che una holding costituita – secondo l’id quod plerumque accidit – al fine di esercitare poteri di tipo direzionale e strategico delle società controllate, assume tra i propri scopi sociali anche l’esercizio di attività operative in senso stretto (nella specie impresa edilizia).
2- non è in discussione la stipula e la esecuzione dei contratti di subappalto, quanto piuttosto la logica economica di una operazione consistente nell’affidare un contratto di appalto di lavori (e non un mero contratto cd. di committenza) ad una società che per adempiere alla obbligazione di risultato deve necessariamente rivolgersi a terzi, ritrasferendo quindi sulla committente non soltanto i costi del subappalto ma anche i maggiori – ed inutili, secondo la Agenzia – costi del contratto di appalto, raddoppiando in tal modo gli oneri sostenuti da P. s.p.a..
3- inconferente appare la rilevanza contabile nel bilancio di Gruppo dei costi dedotti da P. s.p.a.: la questione è l’anomalo incremento di tali costi realizzato, secondo la tesi della Agenzia, mediante una operazione antieconomica in quanto priva di giustificazione alla stregua dei normali criteri che regolano la attività di impresa.
4- la regolarità della fatturazione e della applicazione dell’IVA non costituisce, secondo lo schema di inferenza logica ex art. 2727 c.c. il fatto presupposto al quale consegue la prova della congruità economica delle operazione: peraltro dalla lettura della sentenza sembrerebbe che la statuizione in questione non sia stata neppure utilizzata ai fini della inferenza probatoria, ma costituisca una asserzione a se stante e peraltro priva di relazione con l’oggetto del giudizio ("nè stante il regime IVA in cui opera la società accertata, si può ipotizzare l’utilizzo fraudolento dell’IVA …" sent. CTR pag. 5-: è appena il caso di rilevare che l’avviso di accertamento concerne il recupero di imposte dirette e non anche dell’IVA).
5- l’obbligo di indicazione della condotta alternativa che il contribuente avrebbe dovuto tenere, non trova alcun fondamento normativo, ed anzi la statuizione della CTR laziale è sintomatica del vizio di legittimità contestato dalla ricorrente, in quanto denota il mancato esame da parte dei Giudici di appello proprio degli elementi fattuali di natura indiziaria risultanti dal PVC – ed indicati al precedente paragr. 1 della motivazione – che se coattamente rilevati ed apprezzati nel giudizio di prevalenza del fonti di prova acquisite al giudizio, avrebbero potuto portare ad una diversa soluzione della controversia.
2.2 Fondato deve ritenersi, pertanto, il motivo di impugnazione per vizio motivazionale, con conseguente cassazione della sentenza in parte qua e rinvio della causa per nuovo esame.
3. Con il terzo motivo la sentenza di appello viene ad essere censurata per vizio di insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
3.1 La Agenzia ricorrente critica la sentenza nella parte in cui aveva giustificato in considerazione delle "ingenti perdite subite negli anni precedenti dalla società partecipata" la minusvalenza realizzata a seguito della cessione della quota pari al 60% della partecipazione azionaria detenuta da P. s.p.a. nella Immobiliare San Vincenzo proprietaria della omonima Clinica.
Sostiene la ricorrente che i Giudici hanno trascurato di considerare i diversi elementi circostanziali addotti a sostegno della ripresa a tassazione, ed emergenti dalle indagini compendiate nel PVC allegato all’avviso di accertamento, dai quali risultava:
– che la partecipazione, acquistata nel 1994, era stata valutata, in assenza di stima peritale, in oltre 14 miliardi di lire.
– che da una relazione tecnica di stima datata 21.12.1992 il valore commerciale della partecipazione era stato determinato in lire 14.000.000.000. – la società partecipata aveva subito rilevanti e costanti perdite di esercizio registrate in misura superiore al patrimonio netto contabile (fino al 2000, con eccezione del solo anno 1995) da una perizia eseguita il 21.12.1999, da un componente del collegio sindacale della società partecipata, il valore della partecipazione veniva svalutato in lire 7.500.000.000. – ne corso dello stesso anno 1999 risultava approvato dalla regione il piano di riconversione sanitaria della struttura.
– sempre, nel corso dello stesso anno 1999 il pacchetto azionario veniva ceduto per la quota del 60% al prezzo di lire 4.500.000.000, "ad una società del gruppo riconducibile sempre al Dr. G. ed ai suoi familiari" (PVC riportato a pag. 16 ricorso), con conseguente iscrizione al bilancio della P. s.p.a. di una minusvalenza pari alla differenza tra i costo storico e il valore del corrispettivo riscosso dalla vendita.
3.2 Dal frazionamento del complesso degli indicati elementi la CTR laziale ha selezionato, quale unico aspetto rilevante, quello delle perite di esercizio della società partecipata in quanto idonee a giustificare la minusvalenza, con ciò incorrendo nella lacuna logica denunciata non esplicitando le ragioni della mancata valutazione degli altri concorrenti elementi indiziari.
Orbene se non è dubbio che spetta al giudice di merito la individuazione delle fonti di prova rilevanti, la selezione tra gli elementi probatori di quelli ritenuti maggiormente attendibili ed il riconoscimento della idoneità dimostrativa degli stessi – trattandosi di scelte che sono espressione del principio del libero convincimento e dunque riservate in via esclusiva all’organo giudicante ex art. 116 c.p.c. -, tuttavia tale discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti deve pur sempre essere esercitata in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento. A tal fine occorre che nell’iter motivazionale venga evidenziato il procedimento selettivo seguito dal giudicante, che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica dei singoli elementi indiziari, per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati, per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi.
Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziano agli elementi acquisiti in giudizio, ovvero come nel caso di specie a trascurare del tutto le ulteriori evidenze indiziarie, senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento.
3.3 Nella specie la obiettiva variazione del valore del partecipazione azionaria nel tempo, non era in contestazione, ciò che risultava controverso era il criterio di determinazione di detta variazione, con specifico riferimento al prezzo di cessione, contestando l’Ufficio alla contribuente di aver realizzato la operazione di vendita delle quote, tra società appartenenti al medesimo Gruppo tutte facenti capo alla famiglia G. (cfr. PVC riportato a pag. 25 ricorso), al fine di incrementare la minusvalenza ed ottenere un risparmio di imposta a favore della P. s.p.a., mediante cessione delle azioni ad un valore sottostimato (calcolato nella perizia del 21.12.1999) rispetto all’effettivo valore di mercato della partecipazione che avrebbe, invece, dovuto essere determinato tenendo conto di "una serie di interventi volti alla ristrutturazione dell’attività della Casa di cura che sono culminati nel la richiesta e successivo ottenimento dell’autorizzazione alla riconversione sanitaria concessa dalla ASL Roma D" e del ravviamento commerciale della società, nonchè del ripiano delle perdite di gestione effettuato dalla stessa P. s.p.a. solo pochi giorni prima della cessione (cfr. PVC riportato a pag. 24 ricorso).
3.4 La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata in parte qua, con conseguente rinvio della causa per una nuova valutazione delle emergenze istruttorie.
4. Con il quarto motivo la Agenzia, ipotizzando che la CTR avesse confermato la sentenza di prime cure nella parte in cui aveva annullato l’avviso di accertamento statuendo che "l’Ufficio, nel caso specifico, non ha rispettato la procedura, prevista a pena di nullità dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e 5…" ha impugnato la sentenza di appello deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
4.1 Il motivo è inammissibile per difetto del requisito di specificità.
La ricorrente, infatti, ha omesso del tutto di individuare il capo della sentenza di appello oggetto di impugnazione, limitandosi a formulare "una mera ipotesi di pronuncia" della CTR laziale "per relationem" ad una statuizione della sentenza di prime cure – che sarebbe stata oggetto di motivo di gravame da parte dell’Ufficio – che neppure viene individuata con precisione, non essendo specificato a quale oggetto della controversia si riferisca.
4.2 Occorre peraltro rilevare che l’effetto sostitutivo della sentenza di appello, operante nell’ambito del "devolutum" (e dunque, nel caso di specie, anche in relazione alla predetta statuizione della sentenza di primo grado in quanto investita dal motivi di gravame dell’Ufficio), consente al Giudice di secondo grado di confermare la decisione impugnata, sostituendone la motivazione, senza con ciò violare il principio del contraddittorio, sempre che la diversa motivazione sia radicata nelle risultanze acquisite al processo (cfr. Corte cass. 1 sez. 6.6.1987 n. 4945; id. 3 sez. 22.1.2002 n. 696; id. 1 sez. 27.6.2011 n. 14127), con la conseguenza che, in ogni caso, la scelta motivazionale adottata dalla CTR laziale confermativa del dispositivo, ma anche non degli argomenti di diritto della sentenza di prime cure, si sostituisce definitivamente ed integralmente a questi ultimi che perdono in conseguenza ogni funzione di supporto al "decisum".
Deve, pertanto, ritenersi inconferente, rispetto al contenuto decisorio della sentenza di appello – confermativa della pronuncia di primo grado con "modifiche o correzioni" della motivazione -, la censura – da dichiararsi quindi inammissibile – volta a far valere vizi di legittimità con riferimento all’originario impianto argomentativo della sentenza di prime cure non ripreso dalla decisione di appello.
5. Con il quinto motivo la Agenzia deduce il vizio di insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La censura investe i capi di sentenza relativi agli immobili di proprietà della contribuente, in ordine alla riconosciuta deducibilità delle quote di ammortamento e delle spese sostenute per manutenzione di tali beni, nonchè alla ritenuta legittimità della sottrazione di tali beni alla imponibilità del reddito fondiario, sul presupposto – erroneo, secondo la ricorrente – dell’impiego strumentale di tali immobili nell’attività di impresa della società.
5.1 La Agenzia ha contestato l’iter logico seguito dai Giudici di appello per affermare la natura strumentale "per destinazione" dei beni, opponendo l’esito negativo delle verifiche in loco eseguite dagli accertatori (PVC all. all’avviso di accertamento: ricorso cass. pag. 32. 34-35. 36-37 ), essendo emerso:
– che i primo immobile (Palazzo Ruspoli – castello di Nemi -) di interesse storico-artistico presentava locali fatiscenti tranne due, allo stato ancora grezzo, in cui era stato realizzalo un impianto luce, tanto che il Comune di Nemi non aveva rilasciato il certificato di agibilità. Inoltre alcun elemento probatorio era stato fornito dalla società in ordine all’utilizzo del bene per scopi culturali, scientifici, congressi o tavole rotonde, mentre dai documenti acquisiti presso il Comune era emerso che in alcuni locali erano state organizzate dal Comune, in base ad intesa verbale con P. s.p.a., cerimonie pubbliche.
– l’altro immobile (villetta a due piani con annessa corte circostante) risultava in stato di completo abbandono ed in esso erano state rinvenute accatastate alla rinfusa vecchie cartelle cliniche ed altri materiali di vario genere.
5.2 La CTR laziale ha affermato che "la persistenza di documentati lavori di manutenzione e restauro nel corso dell’esercizio 1999 non esclude la strumentalità degli stessi…il Palazzo Ruspoli…è stato utilizzato come sede di convegni e seminari, nonchè di cerimonie pubbliche. Inoltre nello stesso contratto di compravendita …ne era prevista la specifica destinazione ad attività convegnistica, mentre la Villa Cioccarello era già adibita ad archivio" (sent. CTR motiv. pag. 3).
5.3 La motivazione appare palesemente inadeguata a sostenere il "decisum".
Premesso che in tema di imposte sui redditi, e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, ai fini della deducibilità delle quote d’ammortamento del costo dei beni materiali, occorre non solo l’effettiva strumentalità dei suddetti beni in relazione alla specifica attività aziendale, ma altresì l’effettiva utilizzazione di essi – in funzione direttamente strumentale – nell’esercizio dell’impresa (cfr. Corte cass. 5 sez. 18/02/2009 n. 3858), deve infatti rilevarsi che i ben aziendali si connotano per una destinazione all’esercizio dell’impresa che, pur nascendo da un atto di volontà dell’imprenditore, deve tradursi in circostanze oggettive, quali in particolare la strumentale destinazione di detti beni all’attività produttiva e la relazione strutturale di ciascun bene con gli altri beni dell’azienda, in modo tale che il loro complesso, organizzato per lo svolgimento dell’attività economica imprenditoriale, sia caratterizzato da potenzialità produttiva e dall’obiettiva attitudine all’esercizio dell’impresa e quindi alla realizzazione delle finalità a cui l’organizzazione tende (cfr.
Corte cass. Sez. 5, n. 17927 del 08/09/2005; id. Sez. 5 n. 12169 del 15/05/2008).
La natura strumentale di beni "potenzialmente" destinati ad essere utilizzati nell’attività di impresa può essere accertata laddove tale potenzialità – secondo la costante giurisprudenza della Corte – risulti "concreta ed attuale", dovendo desumersi tale imminente utilizzo del bene da circostanze di fatto o da condotte concludenti dirette in modo non equivoco ad immettere il bene nel ciclo della produzione del reddito.
In ogni caso la "potenziale" strumentalità del bene immobile rileva esclusivamente nel caso in cui l’acquisto del bene si collochi in una fase preparatoria rispetto all’impiego produttivo (tipico il caso della nuova impresa che fa ingresso nel mercato per la prima volta), purchè il contribuente dia dimostrazione dell’effettiva connessione dell’acquisto con l’espletamento della progettata attività imprenditoriale (cfr. Corte cass. 5 sez. 6.11.2001 n. 13738, in materia di Iva): la strumentalità potenziale, pertanto, deve trovare conforto in altre circostanze della concreta vicenda (con onere della prova a carico di chi la invochi), idonee ad evidenziare l’effettiva connessione dell’acquisto con l’espletamento della progettata attività imprenditoriale (cfr. Corte Cass. 5 sez. 24.2.2001 n. 2729;
id. 5 sez. 9.6.2009 n. 13197, entrambe in tema di IVA).
5.4 Tanto premesso la affermazione della CTR laziale secondo cui la esecuzione di lavori di ristrutturazione non è ostativa al riconoscimento della natura strumentale del bene, da un lato, non tiene conto del fatto che gli immobili non erano stati acquistati nell’anno di imposta ma erano già da tempo in possesso della società, con la conseguenza che in tal caso non deve essere accertata la mera "potenzialità" strumentale del bene, ma l’effettivo impiego dello stesso nell’attività d’impresa; dall’altro prescinde immotivatamente da una valutazione complessiva degli altri elementi fattuali che contornano la vicenda (quali in particolare:
l’attuale condiziono di fatiscenza degli immobili, la rilevata inadeguatezza od incompletezza dei lavori di ristrutturazione dell’immobile, la assenza di prove circa il tipo di utilizzazione allegata – indicativo al riguardo che in alcuni locali del castello si sono svolte solo delle cerimonie pubbliche, evidentemente estranee alla attività d’impresa -), al fine di verificare compiutamente se il concreto stato degli immobili ne impedisse o meno l’uso in funzione strumentale all’esercizio della impresa, gravando sul contribuente che intenda far valere la natura strumentale dell’immobile l’onere di fornire la prova della sua destinazione esclusiva all’utilizzazione nell’attività propria dell’impresa (cfr.
Corte cass. 5 sez. 1.12.2006 n. 25609), potendosi prescindere – ai fini dell’accertamento della strumentalità – dall’utilizzo diretto del bene da parte dell’azienda soltanto nel caso in cui risulti provata l’insuscettibilità (senza radicali trasformazioni) di una destinazione del bene diversa da quella accertata in relazione all’attività aziendale (cfr. Corte cass. 5 sez. 4.6.2007 n. 12999).
Tale accertamento è mancato, infirmando la correttezza logica della sentenza impugnata che deve, in conseguenza, essere cassata in parte qua, con rinvio della causa per nuovo esame.
6. L’accoglimento nei limiti indicati in motivazione del ricorso principale, impone l’esame dei motivi dedotti dalla società resistente con il ricorso incidentale condizionato.
6.1 Con i primi due motivi – aventi ad oggetto il medesimo capo di sentenza e che possono, pertanto, essere trattati congiuntamente – la società censura la sentenza di appello deducendo il vizio di violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 10, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonchè il vizio di insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La ricorrente incidentale si duole dell’errore in cui sarebbe incorsa la CTR laziale avendo ritenuto legittimo e tempestivo l’avviso di accertamento notificato in data 9.6.2006, posto che la società, per l’anno 1999, aveva presentato "dichiarazione integrativa" ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 8 ed era decorso il termine di decadenza, scaduto il 31.12.2005, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’esercizio dei poteri di accertamento, senza che l’Ufficio finanziario avesse contestato tale dichiarazione, non potendo quindi beneficiare l’Ufficio impositore della proroga biennale del predetto termine disposta ai sensi dell’art. 10 della medesima legge in quanto applicabile solo al caso in cui il contribuente non si fosse avvalso della definizione agevolata dei rapporti tributari prevista dalle disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 7, 8 e 9, e non anche nel caso in cui – come nella specie – il contribuente si era avvalso di tali norme, presentando la dichiarazione, pur se in presenza di cause ostative al condono (nella specie la intervenuta notifica del PVC).
6.2 Infondato deve ritenersi il primo motivo, nel quale viene a fondersi il secondo motivo, privo di autonomia, in quanto non investe alcun "error facti" ma soltanto l’omessa o lacunosa esposizione degli argomenti giuridici a sostegno del decisum che, qualora accertate, non determinano la cassazione della sentenza ma comportano esclusivamente la emendabilità della motivazione in diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.
La tesi difensiva sostenuta dalla società secondo cui la proroga biennale per l’esercizio della potestà di accertamento opererebbe esclusivamente nel caso di inerzia del contribuente e non anche nel caso in cui sia stata presentata la dichiarazione integrativa, anche se palesemente inefficace sussistendo – come nel caso di specie, in cui alla società era stato già notificato il PVC – cause ostative alla definizione agevolata del rapporto tributario, contrasta con la interpretazione della L. n. 289 del 2002, art. 10 fornita da questa Corte, secondo cui, in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, opera, "in assenza di deroghe contenute nella legge", sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perchè raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge: da un lato, non potendo desumersi argomenti in contrario della generica locuzione normativa "i contribuenti che non si avvalgono", venendo in ogni caso ad essere circoscritta la iniziativa volontaria del contribuente di avvalersi della dichiarazione integrativa nell’ambito dei limiti legali previsti per il suo esercizio, dovendo quindi ricomprendersi nella indicata espressione anche la ipotesi in cui la legge non consenta di avvalersi di detta integrazione ai fini del condono (cfr.
Corte cass. 5 sez. 23.7.2020 n. 17395); dall’altro apparendo incompatibile con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) la diversa interpretazione, prospettata dalla ricorrente, secondo cui la norma riserverebbe – illogicamente – un trattamento differenziato ai contribuenti che non hanno inteso avvalersi del condono rispetto a quelli (che risulterebbero così avvantaggiati dal più breve termine di decadenza per l’accertamento) nei cui confronti difettano gli stessi presupposti di legge per esercitare la facoltà di integrazione della dichiarazione e fruire del condono.
6.3 Con il terzo e quarto motivo – aventi ad oggetto il medesimo capo di sentenza e che possono, pertanto, essere trattati congiuntamente – la società censura la sentenza di appello deducendo il vizio di violazione e falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, della L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, artt. 1260 e 1362 ss.
c.c., D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, TUIR, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonchè vizio di insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La società ricorrente incidentale impugna la statuizione della sentenza del Giudice tributano d’appello che ha ritenuto non deducibile dal reddito di impresa il costo di lire 690.103.355 – e non come erroneamente riportato nel ricorso incidentale lire 2.913.248.698 – sostenuto da P. s.p.a. in dipendenza del contratto stipulato con FINGER s.p.a. avente ad oggetto la cessione "pro solvendo" di crediti vantati nei confronti della Az. Usl RM H. Sostiene la società che i Giudici territoriali hanno fatto falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, e della L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, degli artt. 1260 ss. c.c., artt. 1362 ss.
c.c. e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, TUIR, dell’art. 75 – attuale art. 109 – TUIR, ed inoltre non avevano adeguatamente individuato e valutato gli elementi circostanziali dai quali desumere che il rapporto tra la società e la ASL integrava un contratto di durata con prestazioni la cui attuazione non poteva ritenersi ancora definita, in quanto:
a) tra P. s.p.a. ed Azienda Usl Roma H non sussisteva alcun contratto in quanto il regime di convenzionamento-accreditamento intercorreva solo con la regione Lazio;
b) il divieto di cessione del credito senza la preventiva accettazione della Amministrazione statale, previsto dalle norme di contabilità pubblica richiamate in rubrica, era circoscritto esclusivamente a particolari rapporti contrattuali "di durata" (somministrazione, forniture; appalti) e non anche alla erogazione di prestazioni sanitarie rese in regime di "accreditamento provvisorio" in favore degli assistiti dal SSN, ed inoltre il divieto operava soltanto nel caso in cui il contratto fosse "ancora in corso di esecuzione", fatto questo che non ricorreva nella specie atteso che la originaria convenzione cui era subentrata la regione Lazio prevedeva un termine di efficacia annuale eventualmente prorogabile;
c) in ogni caso la violazione delle norme di contabilità predette determinava soltanto una inefficacia relativa della cessione nei confronti della sola Amministrazione pubblica che rivestiva la qualità di parte del rapporto obbligatorio (nella specie la ASL) e non anche ad altre e diverse Amministrazioni pubbliche – quale nella specie la Amministrazione finanziaria -, rimanendo valida ed efficace la stipula del contratto tra cedente e cessionario.
6.4 La censura difetta del requisito di autosufficienza, venendo a prospettare inammissibilmente questioni nuove, non esaminate nei precedenti gradi di merito.
L’intero impianto difensivo della ricorrente incidentate si sviluppa nella contestazione della qualificazione giuridica del rapporto di natura obbligatoria, avente ad oggetto la erogazione di prestazioni di servizi nell’ambito del Servizio sanitario pubblico, che – secondo quanto riferito dalla stessa ricorrente incidentale – vede come parti, rispettivamente, creditrice e debitrice, detta società (che attraverso la Casa di cura erogava e eroga agli assistiti del Servizio sanitari pubblico – dapprima nazionale. successivamente regionale – prestazioni di ricovero in lungodegenza) e l’ente pubblico – nella specie Az. Usl Roma H – cui è stata notificata la cessione dei crediti. La ricorrente incidentale ricostruisce in fatto la intera vicenda negoziale alla stregua degli atti negoziali e dei provvedimenti, succedutisi nel tempo, che hanno dettato la regolamentazione di tale rapporto: dalla originaria convenzione – stipulata nel 1965 tra la Casa di cura ed il Pio Istituto di S. Spirito Ospedali Riuniti di Roma – nella quale è successivamente subentrata, a far data dall’anno 1976, la regione Lazio, ai successivi provvedimenti autorizzativi emessi dalla autorità regionale nel 1979, fino alla disciplina del cd. "accreditamento" introdotta dal D.Lgs. n. 502 del 1992, e L. n. 724 del 1994 ed attuata con delibere della Giunta regionale del Lazio che hanno recuperato, nella fase provvisoria, le originarie convenzioni stipulate dai soggetti privati e quindi – in attesa della definitiva attuazione della riforma del settore – hanno "confermato" l’accreditamento provvisorio delle Case di cura private, subordinatamente alla stipula di specifiche intese con la regione, dirette alla riconversione delle strutture sanitarie, nonchè alla accettazione del nuovo sistema tariffario previsto dall’ente territoriale.
Occorre, tuttavia, rilevare che il "thema controversum", come risulta dalla sentenza di primo grado, nei passi motivazionali trascritti nel controricorso (pag. 10-13), non ha avuto ad oggetto l’accertamento della natura convenzionale o legale del rapporto tra la società e l’Azienda Usl (o la regione Lazio), questione neppure accennata negli atti introduttivi del giudizio di primo grado (il cui contenuto è stato riassunto dalla società nel controricorso e dalla Agenzia nel ricorso, ed è stato parzialmente riportato anche nella sentenza di appello), risultando indiscussa la natura "contrattuale" di tal rapporto (cfr. sentenza CIP "nel caso de qua, trattandosi ili rapporti contrattuali aventi per oggetto servizi salutari, non in corso di esecuzione, ma già effettuati, trovano applicazione gli artt. 1260 ss. del c.c."), ma ha avuto ad oggetto esclusivamente la applicazione alla fattispecie del divieto di cessione del credito previsto dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, che i primi Giudici avevano escluso affermando che il credito ceduto si riferiva a "prestazioni già effettuate" non a "prestazioni in corso di esecuzione", e che invece i Giudici di appello hanno ritenuto applicabile distinguendo in ordine al requisito di efficacia, il "contratto ancora in corso", dalle "singole prestazioni eseguite" in adempimento delle obbligazioni derivanti da detto contratto, affermando che "Nella specie ci troviamo di fronte a contratti di durata, che la società stipulava con la ASL per lo svolgimento di prestazioni sanitarie in convenzione, che non possono di certo considerarsi esauriti con l’effettuazione di ogni singola prestazione. Solo l’esaurimento dell’esecuzione del contratto determina la insussistenza della causa di inefficacia della cessione".
Pertanto le questioni dedotte dalla ricorrente incidentale e sottoposte all’esame della Corte, concernenti la asserita inesistenza di un rapporto contrattuale (in quanto sia la convenzione del 1965.
sia i provvedimenti regionali di accreditamento provvisorio, attesa la genericità del loro contenuto che non contemplerebbe neppure la natura delle prestazioni di riabilitazione e lunga-degenza erogate dalla Casa di cura, non costituirebbero tonti negoziali od amministrative – idest titoli – idonee a regolare il rapporto. La tesi difensiva della ricorrente risulta. peraltro, logicamente incompatibile con la denuncia – tra le norme indicate in rubrica – anche della violazione dell’art. 1362 c.c. che disciplina i criteri ermeneutici degli atti negoziali), la contestata qualifica di "parte contrattuale" attribuita alla Azienda Usl Roma H, e la inefficacia relativa della cessione del credito – oggetto dei divieto stabilito dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, comma 3 – posta a beneficio esclusivamente della Amministrazione od ente pubblico che assume la posizione di "parte debitrice" nel rapporto obbligatorio e non anche della Amministrazione delle Finanze che rimane terza rispetto a detto rapporto, ebbene tutte le indicate questioni giuridiche poste a supporto delle censure svolte con i motivi in esame, non risultano appartenere all’originario "thema controversum", come definito dall’atto impositivo impugnato e dagli atti difensivi delle parti, ed introducono pertanto, per la prima volta nel giudizio di legittimità, questioni del tutto "nuove" rispetto all’originario oggetto del giudizio di merito, andando in conseguenza incontro alla pronuncia di inammissibilità.
Qualora, infatti, una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti in fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione Stessa (giurisprudenza consolidata: cfr. Corte cass. 5 sez. 2.4.2004 n. 6542; id. 3 sez. 18.3.2005 n. 5972; id. 3 sez. 10.5.2005 n. 9765; id. 3 sez. 12.7.2005 n. 14599; id. sez. lav. 11.1.2006 n. 230; id. 3 sez. 20.10.2006 n. 22540; id. 1 sez. 1.3.2007 n. 4843; id.
sez. lav. 28.7.2008 n. 20518; id. 3 sez. 27.5.2010 n. 12912).
6.5 I motivi in esame si palesano inammissibili anche sotto altro profilo. Ed infatti, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale della Corte, tanto nel caso di deduzione del vizio di irrituale od omessa ammissione di prove ovvero di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, quanto nel caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto in relazione al contenuto di atti o provvedimenti inerenti al rapporto dedotto in giudizio (come nel caso del primo motivo in esame), la parte ricorrente – pur non occorrendo.
limitatamente ai giudizi tributari. ai fini della procedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) la produzione del documento: Corte cass. SU 3.11.2011 n. 22726 – è comunque onerata, se intende assolvere al requisito di autosufficienza: 1) della specifica indicazione della prova o del documento ritenuto determinante; 2) della precisa descrizione delle modalità di deduzione nel giudizio; 3) della indicazione della sede processuale in cui la prova è stata richiesta o prodotta e dunque può esser rinvenuta (per quanto concerne l’onere di specificazione delle modalità di acquisizione processuale: ctr. Corte cass. sez. lav.
7.2.2011 n. 2966; id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239); 4) della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. 1 sez. 17.5.2006 n. 11501), in modo tale da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159;
id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id.
3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav. 12.6.2002 n. 8388).
Orbene la ricorrente incidentale ha omesso del tutto di precisare se e quando i documenti indicati – ed il cui contenuto è stato in parte riprodotto nel controricorso – siano stati ritualmente acquisiti al giudizio e sottoposti ad esame dei Giudici di merito (in particolare la convenzione stipulata nel 1965 la delibera del Pio Istituto del 3 luglio 1976, la autorizzazione del 19.4.1979 e gli altri provvedimenti amministrativi citati nel ricorso fino alla delibera GR del 24.3.1998), con la conseguenza che in difetto di tale precisazione rimane precluso a questa Corte, che non ha accesso diretto agli atti del giudizio di merito, la necessaria verifica di ammissibilità del motivo.
6.6 Rimangono soggette alle medesime pronunce di inammissibilità anche le ulteriori censure con le quali, da un lato si contesta la mancata rilevazione da parte dei Giudici di appello del termine di efficacia "annuale" del rapporto (termine che sembrerebbe doversi desumere, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, dalla convenzione del 1965, prorogata, ma che non è dato appurare se poi disdettata dalla regione e divenuta inefficace) che non poteva quindi ritenersi "in corso", dall’altro la omessa rilevazione da parte degli stessi Giudici della prova dell’esaurimento delle prestazioni fornita dalle fatture che "riguardano prestazioni rese nel corso del 1995, quindi prestazioni antecedenti rispetto al periodo annuale di riferimento, almeno considerando il regime della convenzione" (controricorso pag. 111: l’affermazione si pone, tuttavia in contrasto con quanto precedentemente riferito dalla stessa società a pag. 106 del ricorso incidentale ove. in relazione alla asserita durata annuale della convenzione, si sostiene che la cessione riguarda invece "crediti afferenti il 1998 ed il 1999"), ed ancora l’errore interpretativo in cui sarebbe incorsa la CTR laziale nel ricondurre la prestazione di servizi sanitari agli schemi negoziali dell’appalto, della somministrazione o della fornitura per i quali soltanto opera il divieto di cessione del credito di cui al R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, comma 3.
Ed infatti, ribadito il difetto del requisito di autosufficienza, non avendo specificato la società se e quando le prove documentali siano state ritualmente acquisite agli atti del giudizio di merito, è appena il caso di osservare al riguardo che tali censure ipotizzano vizi della sentenza riconducibili ad "errores facti" riferendosi dunque ad un diverso paradigma normativo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) rispetto a quello invocato e con il quale vengono denunciati "errores in iudicando" (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). E la ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamente affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica:
attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Corte cass. 1 sez. 11.8.2004 n. 15499; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 16698 "In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa: viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’ima e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa": vedi Corte cass. 2 sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9185 sulla inammissibilità del ricorso con cui si denuncia violazione di norma di diritto deducendo nella esposizione del motivo argomenti a fondamento del vizio motivazionale della sentenza; id. 3 sez. 7.5.2007 n. 10295 sulla antinomia tra "errar in indicando" e vizio di motivazione).
Qualora poi la critica interpretativa del rapporto obbligatorio dovesse ricondursi alla violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, la censura non potrebbe egualmente superare il vaglio di ammissibilità in quanto, a fronte della puntuale motivazione della sentenza di appello – secondo cui per accertare la perdurante efficacia del rapporto avente ad oggetto la erogazione di servizi sanitari non deve farsi riferimento alla esecuzione delle singole prestazioni ma alla naturale scadenza del contralto e cioè all’esaurimento del programma negoziale in esso contenuto – si limita a giustapporre la mera – apodittica – asserzione secondo cui la prestazione di servizi sanitari nella specie non sarebbe riconducibile allo schema negoziale dell’appalto, della somministrazione o della fornitura, e comunque nella categoria delle prestazioni di durata, senza tuttavia esplicitare le ragioni critiche che inficerebbero la diversa conclusione interpretativa raggiunta dalla CTR laziale, tanto più considerando che la pronuncia del Giudice di appello si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte che è pervenuta alla conclusione per cui, anche dopo la introduzione del nuovo "sistema dell’accreditamento" degli operatori sanitari nel SSR, il rapporto esistente tra la struttura privata e l’ente pubblico preposto alla attività sanitaria continua ad essere sussumibile nello schema della "concessione di pubblico servizio" (venendo a variare soltanto il titolo costitutivo della concessione – la legge in luogo del provvedimento amministrativo -: cfr. Corte cass. SU 8.7.2005 n. 14335; id. SU ord. 13.2.2007 n. 3046; id. 3 sez. 30.11.2010 n. 24258; id. 3 sez. 25.1.2011 n. 1740) che costituisce un modulo organizzativo diretto all’esercizio di attività – riferibili a compili istituzionali delle Pubbliche Amministrazioni e nella specie consistenti nella erogazione di servizi sanitari – caratterizzate dall’elemento della "diuturnitas" che contraddistingue la esigenza di assicurare la continuità della durata esecutiva del servizio, proprio in considerazione della natura delle prestazioni di assistenza sanitaria che debbono essere erogate in via generale ed indifferenziata a tutti gli utenti del Servizio sanitario regionale (si palesa, dunque. manifestamente infondata la tesi difensiva secondo cui con l’"accreditamento" l’operatore sanitario verrebbe ad essere inserito nella organizzazione pubblica perdendo la propria alterità soggettiva rispetto al concedente: il modulo organizzativo della concessione presuppone, infatti, la alterità soggettiva delle parti del rapporto, una delle quali necessariamente di diritto pubblico, mentre l’altra – il concessionario – è di regola un soggetto di diritto privato che permane tale anche nei rapporti con il concedente).
6.7 Pertanto il ricorso incidentale, in presenza delle evidenziate lacune espositive va incontro, per inosservanza del requisito di autosufficienza, alla conseguente pronuncia di inammissibilità.
7. In conclusione il ricorso principale trova accoglimento quanto al secondo, terzo e quinto motivo, dichiarati inammissibili gli altri motivi: il ricorso incidentale deve essere rigettato; la sentenza impugnata va cassata con rinvio della causa alla Commissione tributaria della regione Lazio in diversa composizione che provvedere a nuovo esame emendando i vizi logici riscontrati, nonchè a liquidare le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte:
– accoglie il ricorso principale, quanto al secondo, terzo e quinto motivo, dichiarati inammissibili gli altri motivi; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Commissione tributaria della regione Lazio in diversa composizione che provvederà a nuovo esame emendando i vizi logici riscontrati, nonchè a liquidare le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 febbraio 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012
Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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