Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-08-2012, n. 14015

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
P. s.p.a. ha impugnato per cassazione, per vizi attinenti alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto e vizi motivazionali, la sentenza della Commissione tributaria della regione Lazio in data 10.9.2009 n. 457 che, in parziale accoglimento dell’appello principiale proposto dall’Ufficio Roma 6 della Agenzia della Entrate e dell’appello incidentale proposto dal società contribuente, aveva dichiarato esclusa la definizione agevolata del rapporto tributario rilevando la sussistenza di cause impedienti il condono ex lege n. 289 del 2002, ed aveva quindi:
a) confermato la decisione di prime cure sui capi relativi ali1 annullamento dell’avviso di accertamento – emesso ai fini Irpeg ed Irap per l’anno 2000 – concernente al – il recupero a tassazione del reddito catastale, non dichiarato dalla società, di due immobili, avendo ravvisato i Giudici territoriali il nesso di strumentalità di detti beni – adibiti ad uso convegni e seminati ed ad uso archivio – con l’attività di impresa (gestione di attività sanitaria attraverso una Casa di cura); a2 – il recupero a tassazione di costi per oltre un miliardo di lire portati in diminuzione dal reddito, avendo la CTR ritenuto reale – e non fittizia – la operazione intercorsa tra la P. s.p.a. e la S. s.r.l. avente ad oggetto l’incarico conferito alla seconda di stipulare contratti di subappalto per la esecuzione di lavori di ristrutturazione edile dei locali utilizzati dalla Casa di cura di proprietà della prima;
b) confermato la decisione di prime cure sul capo relativo alla ritenuta legittimità dell’avviso di accertamento concernente a3 – la ripresa a tassazione della minusvalenza determinata dalla cessione della quota di partecipazione azionaria detenuta da P. s.p.a.
nella "Società Immobiliare S. ", trattandosi di operazione elusiva in quanto antieconomica e finalizzata esclusivamente a conseguire soltanto un risparmio di imposta, tenuto conto che la P. s.p.a. al tempo della cessione (anno 2000) era pienamente a conoscenza del valore corrente della partecipazione che quindi avrebbe dovuto inscrivere a bilancio in luogo del costo storico non più rispondente alla realtà;
c) riformato la decisione di prime cure, in senso favorevole alla contribuente, annullando ravviso di accertamento quanto a4 – alla ripresa a tassazione di costi per circa lire 6.151.000 che i Giudici territoriali ritenevano inerenti a beni immobili strumentali all’esercizio della attività di impresa, ed in senso favorevole alla Amministrazione finanziaria ritenendo legittimo l’avviso di accertamento quanto a5 – alla indeducibilità dal reddito di costi per lire 2.913.248.698 relativi al contratto di factoring, stipulato nel novembre 2000, con il quale P. s.p. aveva ceduto a F. s.p.a. crediti vantati nei confronti della Azienda Usi RM H, avendo rilevato i Giudici territoriali la inefficacia della cessione in quanto realizzata in violazione del divieto normativo previsto dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 70 e dalla L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, nel caso di crediti relativi a "contralti di durata", quale quello stipulato dalla società con la ASL per lo svolgimento di prestazioni sanitarie in convenzione e da ritenersi tuttora "in corso".
Resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate proponendo contestuale ricorso incidentale, affidato ad un unico mezzo, con il quale si censura la insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza in ordine alla statuizione che riconosceva la deduzione dal reddito dei costi relativi alla esecuzione dei lavori appaltati dalla S. s.r.l..
Ha resisto al ricorso incidentale la società contribuente depositando controricorso.
La Agenzia delle Entrate ha illustrato le proprie difese anche con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. I Giudici di appello hanno affidato la sentenza alle seguenti "rationes decidendi":
– gli immobili posseduti dalla società erano utilizzati per esigenze strumentali alla attività di impresa avente ad oggetto la gestione della Casa di cura Villa delle Querce) in quanto adibiti allo svolgimenti di convegni e congressi, nonchè ad archivio della struttura sanitaria, con la conseguenza che tal immobili ex art. 40 TUIR non dovevano considerarsi produttivi di reddito fondiario;
– i costi sostenuti da P. per la esecuzione dei lavori di ristrutturazione edilizia dei predetti immobili doveva ritenersi inerenti e deducibili in quanto 1 – la società S., appaltatrice (e detentrice del 94% del capitale sociale della P.) era dotata di autonoma organizzazione amministrativa e di persole; 2 – la S. per la esecuzione dei lavori aveva stipulato contratti di subappalto regolarmente fatturati ed eseguiti: 3 – a tesi della elusione di imposta sostenuta dalla Agenzia (il costo del contratto di appalto relazionato a quello dei subappalti sarebbe stato fatto appositamente lievitare per aumentare l’importo dei costi deducibili dall’imponibile della P.) era sfornita di adeguata prova:
– la minusvalenza dichiarata dalla contribuente P. in relazione alla cessione nel 2000 della partecipazione azionaria detenuta nella società Immobiliare San Vincenzo, contrastava con la consapevolezza acquisita dalla stessa contribuente, nel precedente anno 1999 con la vendita di una quota di detto pacchetto azionario, dell’effettivo minor valore – rispetto al costo storico – della partecipazione determinato dalle ingenti perdite di bilancio che la società aveva realizzato tra il 1994 ed il 1999: con la conseguenza che essendo ormai noto nell’esercizio 2000 il minore valore della partecipazione, la contribuente – alienante avrebbe dovuto iscrivere in bilancio la partecipazione all’effettivo minore valore corrente e non all’originario valore (costo storico) più elevato e non corrispondente alla realtà economica;
– la riconosciuta natura strumentale degli immobili destinati ad attività di formazione e congressi e ad archivio, determinava la inerenza e quindi la deducibilità dei costi di manutenzione ordinaria sostenuti per tali immobili (lire 6.151.000);
– le commissioni versate da P. sui contratti di cessione dei crediti per sevizi sanitari erogati a favore della Azienda Usl Roma H, non potevano essere considerate costi deducibili, dovendo ritenersi inefficace detta cessione alla stregua delle norme di contabilità di Stato che facevano divieto di cessione dei crediti relativi a prestazioni di servizi oggetto di contratti ancora in corso, e tali erano da ritenersi le convenzioni stipulate tra la P. e l’Azienda sanitaria qualificabili come contratti di durata "che non possono considerarsi esauriti con l’effettuazione di ogni singola prestazione";
– non sussisteva la condizione di "obiettiva incertezza nella applicazione della orma tributaria" per quanto concerneva le riprese a tassazione confermate, e dunque le sanzioni risultavano legittimamente irrogate dall’Ufficio finanziario.
2. Con i primi quattro motivi – tutti rivolti contro il medesimo capo di sentenza – la società ricorrente censura la statuizione della sentenza del Giudice tributario d’appello che ha ritenuto non deducibile dal reddito di impresa il costo di lire 2.913.248.698 (pari all’8% dell’intero importo dei crediti ceduti, dovuto a titolo di commissione e spese alla società cessionaria) sostenuto da P. s.p.a. in dipendenza del contratto stipulato con F. s.p.a. avente ad oggetto la cessione "pro solvendo" di crediti vantati nei confronti della Az. Usl RM H per oltre lire nove miliardi.
Sostiene la società che i Giudici territoriali hanno fatto falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, art. 70 e della L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, degli artt. 1260 ss c.c., artt. 1362 ss.
c.c. e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 TUIR (1 motivo), del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40 (2 motivo), dell’art. 75 – attuale art. 109 – TUIR (4^ motivo), ed inoltre non avevano adeguatamente individuato e valutato gli elementi circostanziali dai quali desumere che il rapporto tra la società e la ASL integrava un contratto di durata con prestazioni la cui attuazione non poteva ritenersi ancora definita, in quanto:
a) tra P. s.p.a. ed Azienda Usl Roma H non sussisteva alcun contratto in quanto il regime di convenzionamento – accreditamento intercorreva solo con la regione Lazio;
b) il divieto di cessione del credito senza la preventiva accettazione della Amministrazione statale, previsto dalle norme di contabilità pubblica richiamate in rubrica, era circoscritto esclusivamente a particolari rapporti contrattuali "di durata" (somministrazione, forniture; appalti) e non anche alla erogazione di prestazioni sanitarie rese in regime di "accreditamento provvisorio" in favore degli assistiti dal SSN, ed inoltre il divieto operava soltanto nel caso in cui il contratto fosse "ancora in corso di esecuzione", fatto questo che non ricorreva nella specie atteso che la originaria convenzione cui era subentrata la regione Lazio prevedeva un termine di efficacia annuale eventualmente prorogabile;
c) in ogni caso la violazione delle norme di contabilità predette determinava soltanto una inefficacia relativa della cessione nei confronti della sola Amministrazione pubblica che rivestiva la qualità di parte del rapporto obbligatorio (nella specie la ASL) e non anche ad altre e diverse Amministrazioni pubbliche – quale nella specie la Amministrazione finanziaria -, rimanendo valida ed efficace la stipula del contratto tra cedente e cessionario;
d) era comunque censurabile la statuizione dei Giudici di appello che ritenendo "venuta meno la cessione dei crediti" concludevano per la "non inerenza" alla attività di impresa dei costi relativi alla commissione corrisposta al Factor, atteso che la questione della inerenza ex art. 75, comma 5 TUIR era inconferente rispetto a quella della efficacia ed opponibilità del contratto di cessione crediti.
2.1 La Agenzia delle Entrate ha rilevato la infondatezza di tutti i motivi sopra indicati, eccependo altresì la inammissibilità dei primi tre motivi.
2.2 La eccezione di inammissibilità – peraltro rilevabile ex officio – del primo motivo per difetto di autosufficienza deve ritenersi fondata.
L’intero impianto difensivo della società ricorrente si sviluppa nella contestazione della qualificazione giuridica del rapporto di natura obbligatoria, avente ad oggetto la erogazione di prestazioni di servizi nell’ambito del Servizio sanitario pubblico, che – secondo quanto riferito dalla stessa ricorrente – vede come parti, rispettivamente creditrice e debitrice, detta società (che attraverso la Casa di cura erogava e eroga agli assistiti del Servizio sanitari pubblico – dapprima nazionale, successivamente regionale – prestazioni di ricovero in lungodegenza) e l’ente pubblico – nella specie Az. Usl Roma H – cui è stata notificata la cessione dei crediti. La ricorrente ricostruisce in fatto la intera vicenda negoziale alla stregua degli atti negoziali e dei provvedimenti, succedutisi nel tempo, che hanno dettato la regolamentazione di tale rapporto (è sufficiente in proposito richiamare i titoli dell’indice redatto a pag. 21 dalla parte ricorrente che al paragr. 1.8.1 intitola "La fonte "convenzionale" del rapporto Ira le parli aiutali …Analisi della regolamentazione dei rapporti tra operatori nel settore della sanità: dalla convenzione del 1965 al sistema dell’accreditamento provvisorio"):
dalla originaria convenzione – stipulata nel 1965 tra la Casa di cura ed il Pio Istituto di S. Spirito Ospedali Riuniti di Roma – nella quale è successivamente subentrata, a far data dall’anno 1976, la regione Lazio (ric. pag. 34 ss. ove e riportata nelle parti salienti la trascrizione degli articoli della convenzione, e pag. 38 ove si da atto che l’art. 11 della convezione prevedeva un termine di efficacia con facoltà di tacita proroga annuale), ai successivi provvedimenti autorizzativi emessi dalla autorità regionale nel 1979, fino alla disciplina del cd. "accreditamento" introdotta dal D.Lgs. n. 502 del 1992 e dalla L. n. 724 del 1994 ed attuata con delibere della Giunta regionale del Lazio che hanno recuperato, nella fase provvisoria, le originarie convenzioni stipulate dai soggetti privati e quindi – in attesa della definitiva attuazione della riforma del settore – hanno "confermato" l’accreditamento provvisorio delle Case di cura private, subordinatamente alla stipula di specifiche intese con la regione, dirette alla riconversione delle strutture sanitarie, nonchè alla accettazione del nuovo sistema tariffario previsto dall’ente territoriale (ric. pag. 45-49).
Occorre, tuttavia, rilevare che il "thema controversum", come risulta dalla sentenza di primo grado, nei passi motivazionali trascritti nel ricorso a pag. 11 e 12, non ha avuto ad oggetto l’accertamento della natura convenzionale o legale del rapporto tra la società e l’Azienda Usi (o la regione Lazio), questione neppure accennata negli atti introduttivi del giudizio di primo grado (il cui contenuto è stato riassunto dalla società nel ricorso e dalla Agenzia nel controricorso, ed è stato parzialmente riportato anche nella sentenza di appello), risultando indiscussa la natura "contrattuale" di tal rapporto (cfr. sentenza CIP "nel caso de qua, trattandosi di rapporti contrattuali aventi per oggetto servizi sanitari, non in corso di esecuzione, ma già effettuati, trovano applicazione gli artt. 1260 ss. del c.c."), ma ha avuto ad oggetto esclusivamente la applicazione alla fattispecie del divieto di cessione del credito previsto dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, che i primi Giudici avevano escluso affermando che il credito ceduto si riferiva a "prestazioni già effettuate" e non a "prestazioni in corso di esecuzione", e che invece i Giudici di appello hanno ritenuto applicabile distinguendo in ordine al requisito di efficacia, il "contratto ancora in corso", dalle "singole prestazioni eseguite" in adempimento delle obbligazioni derivanti da detto contratto, affermando che "Nella specie ci troviamo di fronte a contratti di durata, che la società stipulava con la ASL per lo svolgimento di prestazioni sanitarie in convenzione, che non possono di certo considerarsi esauriti con l’effettuazione di ogni singola prestazione. Solo l’esaurimento dell’esecuzione del contratto determina la insussistenza della causa di inefficacia della cessione".
Pertanto le questioni dedotte dalla ricorrente e sottoposte all’esame della Corte, concernenti la asserita inesistenza di un rapporto contrattuale (in quanto sia la convenzione del 1965, sia i provvedimenti regionali di accreditamento provvisorio, attesa la genericità del loro contenuto che non contemplerebbe neppure la natura delle prestazioni di riabilitazione e lunga-degenza erogate dalla Casa di cura, non costituirebbero fonti negoziali od amministrative – idest titoli – idonee a regolare il rapporto: ric. pag. 48. La tesi difensiva della ricorrente risulta, peraltro, logicamente incompatibile con la denuncia – tra le norme indicate in rubrica – anche della violazione dell’art. 1362 c.c. che disciplina i criteri ermeneutici degli atti negoziali), la contestata qualifica di "parte contrattuale" attribuita alla Azienda Usl Roma H (ric. pag.
54), e la inefficacia relativa della cessione del credito – oggetto del divieto stabilito dal R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, comma 3 – posta a beneficio esclusivamente della Amministrazione od ente pubblico che assume la posizione di "parte debitrice" nel rapporto obbligatorio e non anche della Amministrazione delle Finanze che rimane terza rispetto a detto rapporto, ebbene tutte le indicate questioni giuridiche poste a supporto delle censure svolte con il primo motivo di ricorso, non risultano appartenere all’originario "thema controversum", come definito dall’atto impositivo impugnato e dagli atti difensivi delle parti, ed introducono pertanto, per la prima volta nel giudizio di legittimità, questioni del tutto "nuove" rispetto all’originario oggetto del giudizio di merito, andando in conseguenza incontro alla pronuncia di inammissibilità. Qualora, infatti, una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti in fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (giurisprudenza consolidata: cfr. Corte cass. 5 sez. 2.4.2004 n. 6542; id. 3 sez. 18.3.2005 n. 5972; id. 3 sez. 10.5.2005 n. 9765; id. 3 sez. 12.7.2005 n. 14599; id. sez. lav. 11.1.2006 n. 230; id. 3 sez. 20.10.2006 n. 22540; id. 1 sez. 1.3.2007 n. 4843; id.
sez. lav. 28.7.2008 n. 20518; id. 3 sez. 27.5.2010 n. 12912).
Il motivo in esame si palesa inammissibile anche sotto altro profilo.
Ed infatti, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale della Corte, tanto nel caso di deduzione del vizio di irrituale od omessa ammissione di prove ovvero di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, quanto nel caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto in relazione al contenuto di atti o provvedimenti inerenti al rapporto dedotto in giudizio (come nel caso del primo motivo in esame), la parte ricorrente – pur non occorrendo. limitatamente ai giudizi tributari, ai lini della procedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) la produzione del documento: Corte cass. SU 3.11.2011 n. 22726 – è comunque onerata, se intende assolvere al requisito di autosufficienza: 1) della specifica indicazione della prova o del documento ritenuto determinante; 2) della precisa descrizione delle modalità di deduzione nel giudizio; 3) della indicazione della sede processuale in cui la prova è stata richiesta o prodotta e dunque può esser rinvenuta (per quanto concerne l’onere di specificazione delle modalità di acquisizione processuale: cfr.
Corte cass. sez. lav. 7.2.2011 n. 2966; id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239); 4) della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. 1 sez. 17.5.2006 n. 11501), in modo tale da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav.
12.6.2002 n. 8388).
Orbene la parte ricorrente ha omesso del tutto di precisare se e quando i documenti indicati – ed il cui contenuto è stato in parte riprodotto nel ricorso – siano stati ritualmente acquisiti al giudizio e sottoposti ad esame dei Giudici di merito (in particolare la convenzione stipulata nel 1965 la Delib. del Pio Istituto de 3.7.1976, la autorizzazione del 19.4.1979 e gli altri provvedimenti amministrativi citali nel ricorso fino alla Delib. GR 24 marzo 1998), con la conseguenza che in difetto di tale precisazione rimane precluso a questa Corte, che non ha accesso diretto agli atti del giudizio di merito, la necessaria verifica di ammissibilità del motivo.
Rimangono soggette alle medesime pronunce di inammissibilità anche le ulteriori censure dedotte con il primo motivo con le quali, da un lato si contesta la mancata rilevazione da parte dei Giudici di appello del termine di efficacia "annuale" del rapporto (termine che sembrerebbe doversi desumere, secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, dalla convenzione del 1965, prorogata, ma che non è dato appurare se poi disdettata dalla regione e divenuta inefficace:
ricorso pag. 50-51) che non poteva quindi ritenersi "in corso" dall’altro la omessa rilevazione da parte degli stessi Giudici della prova dell’esaurimento delle prestazioni fornita dalle fatture che "riguardano prestazioni rese negli anni dal 1998 al 1999, quindi prestazioni antecedenti rispetto ai periodo annuale di riferimento, almeno considerando il regime della convenzione" (ricorso pag. 55), ed ancora l’errore interpretativo in cui sarebbe incorsa la CTR laziale nel ricondurre la prestazione di servizi sanitari agli schemi negoziali dell’appalto, della somministrazione o della fornitura per i quali soltanto opera il divieto di cessione del credito di cui al R.D. n. 2440 del 1923, art. 70, comma 3.
Ed infatti, ribadito il difetto del requisito di autosufficienza, non avendo specificato la società se e quando le prove documentali siano state ritualmente acquisite agli atti del giudizio di merito, è appena il caso di osservare al riguardo che tali censure ipotizzano vizi della sentenza riconducibili ad ""errores facti" riferendosi dunque ad un diverso paradigma normativo (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) rispetto a quello invocato e con il quale vengono denunciati "errores in iudicando" (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). E la ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamele affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica:
attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Corte cass. 1 sez. 11.8.2004 n. 15499; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 1669S "In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra runa e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnalo dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa": vedi Corte cass. 2 sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3 sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9185 sulla inammissibilità del ricorso con cui si denuncia violazione di norma di diritto deducendo nella esposizione del motivo argomenti a fondamento del vizio motivazionale della sentenza: id. 3 sez. 7.5.2007 n. 10295 sulla antinomia tra "error in iudicando" e vizio di motivazione).
Qualora poi la critica interpretativa del rapporto obbligatorio dovesse ricondursi alla violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, la censura non potrebbe egualmente superare il vaglio di ammissibilità in quanto, a fronte della puntuale motivazione della sentenza di appello – secondo cui per accertare la perdurante efficacia del rapporto avente ad oggetto la erogazione di servizi sanitari non deve tarsi riferimento alla esecuzione delle singole prestazioni ma alla naturale scadenza del contratto e cioè all’esaurimento del programma negoziale in esso contenuto – si limita a giustapporre la mera – apodittica – asserzione secondo cui la prestazione di servizi sanitari nella specie non sarebbe riconducibili allo schema negoziale dell’appalto, della somministrazione o della fornitura, e comunque nella categoria delle prestazioni di durata, senza tuttavia esplicitare le ragioni critiche che inficerebbero la diversa conclusione interpretativa raggiunta dalla CTR laziale, tanto più considerando che la pronuncia del Giudice di appello si pone in linea con la giurisprudenza di questa Corte che è pervenuta alla conclusione per cui, anche dopo la introduzione del nuovo "sistema dell’accreditamento" degli operatori sanitari nel SSR, il rapporto esistente tra la struttura privata e l’ente pubblico preposto alla attività sanitaria continua ad essere sussumibile nello schema della "concessione di pubblico servizio" (venendo a variare soltanto il titolo costitutivo della concessione – la legge in luogo del provvedimento amministrativo -: cfr. Corte cass. SU 8.7.2005 n. 14335; id. SU ord. 13.2.2007 n. 3046; id. 3 sez. 30.11.2010 n. 24258; id. 3 sez. 25.1.2011 n. 1740) che costituisce un modulo organizzativo diretto all’esercizio di attività – riferibili a compiti istituzionali delle Pubbliche Amministrazioni e nella specie consistenti nella erogazione di servizi sanitari – caratterizzate dall’elemento della "diuturnitas" che contraddistingue la esigenza di assicurare la continuità della durata esecutiva del servizio, proprio in considerazione della natura delle prestazioni di assistenza sanitaria che debbono essere erogate in via generale ed indifferenziata a tutti gli utenti del Servizio sanitario regionale (si palesa, dunque. manifestamente infondata la tesi difensiva secondo cui con l’"’accreditamento" l’operatore sanitario verrebbe ad essere inserito nella organizzazione pubblica perdendo la propria alterità soggettiva rispetto al concedente: il modulo organizzativo della concessione presuppone, infatti, la alterità soggettiva delle parti del rapporto, una delle quali necessariamente di diritto pubblico, mentre l’altra – il concessionario – è di regola un soggetto di diritto privato che permane tale anche nei rapporti con il concedente).
2.3 La eccezione pregiudiziale di inammissibilità risulta fondata anche in relazione al secondo motivo, con il quale si denuncia la violazione dell’art. 39 (norma che delimita il potere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria in ordine ai redditi di impresa imputati alle persone fisiche – ed alle imprese minori – ed i limiti di utilizzo del metodo induttivo) e dell’art. 40 (norma che stabilisce la unitarietà dell’accertamento relativo alla fiscalità diretta nei confronti delle persone giuridiche e rinvia alle disposizioni de precedente art. 39. con riferimento al bilancio ed al rendiconto) del D.P.R. n. 600 del 1973, atteso che la parte ricorrente, nella esposizione del motivo, non esplica le ragioni giuridiche poste a sostegno del dedotto "errar in indicando" asseritamele commesso dai Giudici di merito, con ciò incorrendo nella sanzione della inammissibilità comminata dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4). La società ricorrente si è infatti limitata ad affermare – apoditticamente – che la Amministrazione finanziaria non poteva contestare la efficacia del negozio di cessione del credito (senza peraltro neppure dare conto di tale assunto nè evidenziare il collegamento tra le norme di diritto tributario indicate in rubrica e l’asserito limite imposto ai poteri di accertamento del Fisco) omettendo di individuare le parti della sentenza della CTR laziale investita dalla censura e di formulare una specifica critica delle stesse.
Ne consegue che la censura, formulata sotto il prospettato vizio di violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3) difetta dei requisiti di specificità (che se pure non espressamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 deve egualmente desumersi dalla tassativa individuazione della tipologia dei vizi ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1-5 – alla stregua dei quali soltanto può essere condotto il sindacato di legittimità – che assume ad indispensabile presupposto la precisa individuazione dell’errore di fatto o di diritto cui deve rivolgersi "specificamente" la critica del ricorrente), completezza e riferibilità alla decisione impugnata (cfr. Corte cass. 3 sez. 5.6.2007 n. 13066; id. 5 sez. 3.8.2007 n. 17125) e va dichiarata inammissibile alla stregua del consolidato enunciato giurisprudenziale secondo cui i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza non possono essere affidati a deduzioni generali e ad affermazioni apodittiche, con le quali la parte non prenda concreta posizione, articolando specifiche censure esaminabili dal giudice di legittimità sulle singole conclusioni tratte dal giudice del merito in relazione alla fattispecie decisa.
Invero, il ricorrente – incidentale, come quello principale – ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il "devolutum" della sentenza impugnata, con la conseguenza che, quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile poichè non consente alla Corte di Cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunciata violazione (cfr. Corte cass. Sez. 3 n. 72 del 18/01/2001).
2.4 Inammissibile è il terzo motivo con il quale la ricorrente censura la sentenza per vizio di motivazione per difetto della mancata indicazione della prova, da ritenersi decisiva, che i Giudici di appello avrebbero omesso di valutare od avrebbero inesattamente apprezzato.
Costituisce jus receptum – alla stregua della consolidata giurisprudenza della Corte – che la censura del vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo e controverso presuppone che la parte ricorrente evidenzi in modo specifico il rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica della controversia, tale da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto il mancato esame si elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo soltanto se le risultanze processuale non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la "ratio decidendi" venga a trovarsi priva di base (cfr. Corte cass. 3 sez. 21.4.2006 n. 9368).
Nella specie la ricorrente ha omesso del tutto di indicare le prove decisive che inficerebbero la soluzione giuridica adottata dalla CTR (e se tali dovessero ritenersi i documenti di cui al precederne paragr. 2.2 della motivazione, il motivo ricadrebbe nella sanzione di inammissibilità, in diletto della indicazione delle modalità di rituale acquisizione di tali convenzioni e provvedimenti amministrativi al giudizio di merito) venendo a risolversi la censura nella mera affermazione della non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal Giudice di merito alla diversa opinione prospettata dalla parte, e dunque in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate dal Giudice di appello nell’esercizio del discrezionale apprezzamento delle risultanze processuali (cfr. Corte cass. sez. lav. 23.5.2007 n. 12052).
2.5 Deve dichiararsi inammissibile anche il quarto motivo, in quanto volto a censurare, non un’autonoma "ratio decidendi" ma una affermazione meramente esplicativa (in quanto logicamente consequenziale) della statuizione – fondata su autonoma "ratio decidendi" – con la quale è stata affermata la indeducibilità dei costi relativi ad un contratto di cessione del credito che non poteva "convenirsi" ai sensi della L. n. 2448 del 1865, art. 9, all. E (legge abolitrice cont. amm.) richiamata dal R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 70, comma 3: la nozione di "inerenza" della spesa, ai sensi dell’allora vigente art. 75, comma 5 TUIR, viene, infatti, in questione come mero corollario della "regula juris" applicata dal Giudice territoriale, che deve essere rinvenuta esclusivamente nel R.D. n. 2440 del 1923, predetto art. 70 e L. n. 2248 del 1865, art. 9, all. F. Secondo i Giudici di merito non è dato ravvisare costi deducibili dal reddito di impresa, laddove si sia in presenza di spese effettuate in relazione a negozi giuridici che non possono ritenersi perfezionati o comunque siano improduttivi di effetti giuridici (nella specie "essendo venuta meno la cessione": cfr.
motivazione pag. 6 sentenza CTR): dunque il nucleo fondamentale della motivazione a supporto del "decisum" non si fonda sulla contestazione della riferibilità della operazione negoziale alla attività di impresa (operazione che se si fosse perfezionata avrebbe consentito la deduzione della relativa spesa), ma sulla affermazione della inesistenza stessa del fatto generatore della componente passiva reddituale, statuizione che è già stata impugnata con gli altri motivi di ricorso.
3. Con gli ulteriori motivi, dal quinto al nono, la società ricorrente censura la sentenza in ordine al capo di decisione concernente il disconoscimento di componenti negativi di reddito determinati dalla minusvalenza realizzata con la cessione, nell’anno 2000, della residua quota di partecipazione azionaria, acquistata nell’anno 1994. detenuta nella società proprietaria della Clinica San Vincenzo.
3.1 Con il quinto motivo la ricorrente censura per violazione e falsa applicazione dell’art. 2426 c.c., nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 59, comma 4 e art. 61, comma 3 (TUIR), nel testo vigente ratione temporis, la sentenza di appello nella parte in cui ha disconosciuto la minusvalenza contabilizzata dalla P. s.p.a. a seguito della cessione di quota della partecipazione azionaria detenuta nella Immobiliare San Vincenzo, motivando sulla illegittima iscrizione in bilancio del valore della partecipazione al costo storico anzichè al minore valore di mercato emerso in occasione della precedente cessione di quota effettuata nel 1999.
Sostiene la società che correttamente aveva mantenuto al costo storico la residua partecipazione azionaria detenuta nella Immobiliare San Vincenzo, sebbene questa avesse sopportato ingenti perdite di esercizio nel periodo 1992-1999 annualmente ripianate dalla P. s.p.a., in quanto sussistevano prospettive di miglioramento dei risultati gestionali determinate dalla approvazione, nell’anno 1999, da parte della competente Azienda Usi e della regione Lazio, del piano di riconversione della struttura sanitaria, come rilevato anche dalla Guardia di Finanza nel verbale redatto in esito alla verifica fiscale (riprodotto pag. 67-69 ricorso).
Premesso che la società nella esposizione degli argomenti a supporto della censura non indica le ragioni in diritto della asserita violazione delle norme civili e tributarie indicate in rubrica, in particolare omettendo di evidenziare con quale disposizione di legge contrasterebbe l’assunto del CTR secondo cui la immobilizzazione avrebbe dovuto essere iscritta in bilancio al minor valore – come peraltro prescritto dall’art. 2426 c.c., comma 1 n. 3), il motivo si palesa inammissibile in quanto è inteso a censurare, attraverso il paradigma della violazione di norme di diritto, la valutazione di merito espressa dalla CTR in ordine alla prova della acquisita conoscenza, da parte della società, della perdita di valore dei titoli azionari verificatasi nel periodo intercorso tra l’acquisto (1994) e le vendite (1999-2000).
La CTR laziale ha, infatti, accertato che la contribuente nel 1994 aveva acquistato la partecipazione azionaria nella società proprietaria ella Clinica San Vincenzo, e da allora la gestione era risultata deficitaria; che la contribuente nel 1996 aveva iniziato "la procedura per ottenere la autorizzazione alla riconversione sanitaria della Casa di cura, ottenendo la definitiva approvazione del piano di riconversione nel 1999", che nello stesso anno 1999 la contribuente aveva ceduto una quota di tale partecipazione realizzando una minusvalenza, "giustificata dalle ingenti perdite subite negli anni precedenti", sicchè la quota di partecipazione azionaria, rimasta in possesso della contribuente, doveva iscriversi in bilancio non più al costo storico ma al minore valore realizzato con la vendita del 1999, con la conseguenza che la minusvalenza realizzata con la successiva cessione effettuata nell’anno 2000 delle quote irrealisticamente valutate al costo storico non poteva essere riconosciuta.
Tanto premesso rileva il Collegio che la omessa od errata valutazione dei fatti probatori acquisiti al giudizio comporta un difetto nella ricostruzione della fattispecie concreta dedotta in giudizio e dunque un "errore di fatto" incompatibile con il vizio di violazione di norme di diritto denunciato dalla ricorrente che integra, invece, un "errore di diritto" nell’attività di giudizio, in quanto si traduce nella inesatta o errata individuazione od interpretazione della norma (o della fattispecie astratta in essa considerata) che deve essere applicata al rapporto come esattamene cognito nei suoi elementi fattuali, ovvero in un errore di sussunzione (che si verifica quando i fatti, come oggettivamente rilevati, non appaiono riconducibili alla fattispecie astratta contemplata dalla norma, ovvero pur essendo a quella riconducibili vengono tuttavia regolati dal Giudice sulla base di effetti giuridici diversi da quelli considerati dalla norma applicata).
Ne segue che la contestazione del giudizio di merito espresso dalla CTR laziale in ordine alla oggettiva perdita di valore della partecipazione azionaria ed all’apprezzamento da parte della stessa società partecipante di tale minor valore nella vendita del 1999 (effettuata nel mese di dicembre di tale anno: ricorso pag. 66) nonostante il perfezionamento nel medesimo anno della procedura di riconversione (perfezionamento seguito alla Delib. regionale n. 374 del 21 aprile 1999: ricorso pag. 69), con conseguente analoga irrilevanza della approvazione del piano di riconversione ai fini del valore attribuito alla residua quota di partecipazione ceduta nell’anno 2000, bene avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso la denuncia de vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e non attraverso il vizio di violazione di norma di diritto sostanziale: la incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamele affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica, dovendo distinguersi la attività interpretativa della fattispecie normativa astratta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Corte cass. 1 sez. 11.8.2004 n. 15499; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 16698; vedi Corte cass. 2 sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3 sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9185; id. 3 sez. 7.5.2007 n. 10295).
3.2. La statuizione concernente il recupero a tassazione della minusvalenza derivante dalla predetta cessione nell’anno 2000 della quota del pacchetto azionario, viene impugnata dalla società anche in relazione alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis (sesto motivo), in quanto i Giudici di merito non avrebbero potuto accogliere la tesi della PA, secondo cui dalla "oggettiva antieconomicità" della operazione doveva inferirsi lo scopo elusivo della stessa – in quanto rivolta soltanto ad ottenere un risparmio di imposta -, atteso che il potere di accertamento era stato esercitato dalla PA illegittimamente per violazione delle disposizioni di tale norma che prescrivevano, a pena di nullità dell’avviso, l’obbligo di preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente (comma 4);
l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente (comma 5); l’obbligo di iscrizione a ruolo della somme soltanto dopo il deposito della sentenza di primo grado (comma 6).
Anche tale motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non risultando che gli indicati vizi di nullità dell’avviso di accertamento siano stati ritualmente dedotti dalla contribuente ed acquisiti all’oggetto del giudizio nei precedenti gradi di merito.
Costituisce infatti principio di diritto consolidato quello per cui ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questiono innanzi a giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. Corte cass. 1 sez. 22.12.2005 n. 28480; id. 3 sez. 31.1.2006 n. 2140; id. 3 sez. 20.10.2006 n. 22540;
id. 1 sez. 30.11.2006 n. 25546; id. sez. lav. 28.7.2008 n. 20518).
3.3 Con i successivi motivi settimo, ottavo e nono, la ricorrente deduce i vizi, rispettivamente, di insufficiente, di omessa e di contraddittoria motivazione, in relazione ad un fatto decisivo e controverso, rilevando, sempre in relazione alla statuizione concernente il disconoscimento della minusvalenza derivante dalla cessione nell’anno 2000 della partecipazione azionaria:
a) che la motivazione dei Giudici di appello non dava conto delle ragioni per cui la partecipazione azionaria dovesse essere iscritta al minor valore di mercato, omettendo di considerare le favorevoli prospettive reddituali derivanti dalla approvazione del piano di riconversione (come rilevato anche ne PVC redatto dalla Guardia di Finanza);
b) che la CTR aveva omesso di indicare le ragioni per cui la operazione doveva ritenersi antieconomica, non tenendo conto che la società partecipata si trovava cronicamente in situazione di perdita gestionale (come risultava documentato dagli atti allegati al ricorso introdiitlivo in primo grado) ed anche se P. s.p.a. avesse svalutato la partecipazione nell’anno precedente, la minusvalenza sarebbe stata egualmente di pari importo;
c) che i Giudici di appello affermando che la società avrebbe dovuto provvedere alla riappostazione in bilancio del valore corrente della partecipazione, avevano presupposto dalla omessa iscrizione del corretto valore la natura elusiva della operazione, ma poi contraddittoriamente avevano disconosciuto la minusvalenza per violazione del principio di competenza.
La censura sub a) e inammissibile in quanto volta a richiedere alla Corte una non consentita revisione del giudizio di fatto espresso dalla CTR Saziale in ordine alla incidenza della approvazione del piano di riconversione sulla valutazione della partecipazione di una società che produceva costanti ed ingenti perdite di esercizio.
Nella specie, i Giudici di merito hanno dato atto che nell’anno 1999 si era perfezionata la approvazione del piano di revisione sanitaria, rilevando che la cessione di quote realizzata nello stesso anno aveva egualmente determinato una minusvalenza, in tal modo avendo ritenuto implicitamente ininfluente l’intervenuta approvazione del piano su valore azionario corrente, con la conseguenza che la critica svolta dalla società si esaurisce in una inammissibile richiesta di nuova valutazione delle risultanze processuali.
Nel giudizio di cassazione, infatti, la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata – mediante la mera contrapposizione di una diversa ricostruzione dei fatti – onde ottenere la revisione, da parte del giudice di legittimità, degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito, e le censure poste a fondamento del ricorso non possono, pertanto, risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, od investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (cfr. Corte cass. sez. lav.
20.4.2006 n. 9233; id. 1 sez. 30.3.2007 n. 7972; id. sez. lav.
2.2.2007 n. 2272).
La censura sub b) è infondata in quanto la società, da un lato, trascura di rilevare che la CTR laziale ha avuto ben presente la situazione deficitaria della società partecipata, avendo desunto il carattere elusivo della operazione proprio dal mantenimento in bilancio di una valore irreale della partecipazione, non corrispondente a quello correttamente determinabile proprio in conseguenza delle ingenti perdite di esercizio registrate; dall’altro non specifica affatto in che modo la minusvalenza, realizzata con la successiva cessione di quote nell’anno 2000 sarebbe rimasta immutata anche iscrivendo il corretto valore della partecipazione nel bilancio dell’anno precedente e dunque non consente di apprezzare quale sia l’errore commesso dai Giudici di appello nella attività di ricostruzione della fattispecie concreta.
La censura sub c) deve ritenersi inammissibile, sia in quanto appare inconferente rispetto al "decisimi" (la CTR non ha affatto applicato il principio di competenza dei fatti economici ma ha piuttosto ritenuto che la mancata inscrizione in bilancio del corretto valore di mercato della partecipazione abbia costituito il presupposto per determinare la sproporzione con il prezzo della cessione di quote realizzata nel 2000, risultando così precostituito il fatto generatore della minusvalenza), sia per carenza di interesse, in quanto volta meramente a sostituire una "ratio decidend" ad altra – ipotetica – "ratio decidendi" senza immutare l’esito finale del giudizio.
4. Con il decimo ed ultimo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 10 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, rilevando che erroneamente la CTR aveva ritenuto legittimo e tempestivo l’avviso di accertamento notificato in data 9.6.2006, atteso che la società per l’anno 2000 aveva presentato "dichiarazione integrativa" ai sensi della L. n. 289 del 2002, art. 8 ed era decorso il termine di decadenza, scaduto il 3 1.12.2005, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’esercizio dei poteri di accertamento, senza che l’Ufficio finanziario avesse contestato tale dichiarazione, non potendo quindi beneficiare l’ufficio impositore della proroga biennale del predetto termine disposta ai sensi dell’art. 10 della medesima legge in quanto applicabile solo al caso in cui il contribuente non si fosse avvalso della definizione agevolata dei rapporti tributari prevista dalle disposizioni di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. 7, 8 e 9, e non anche nel caso in cui – come nella specie – il contribuente si era avvalso di tali norme, presentando la dichiarazione, pur se in presenza di cause ostative al condono (nella specie la intervenuta notifica del PVC).
Il motivo è infondato.
La tesi difensiva sostenuta dalla società secondo cui la proroga biennale per l’esercizio della potestà di accertamento opererebbe esclusivamente nel caso di inerzia del contribuente e non anche nel caso in cui sia stata presentata la dichiarazione integrativa, anche se palesemente inefficace sussistendo – come nel caso di specie, in cui alla società era stato già notificato il PVC – cause ostative alla definizione agevolata del rapporto tributario, contrasta con la interpretazione della L. n. 289 del 2002, art. 10 fornita da questa Corte, secondo cui, in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, opera, "in assenza di deroghe contenute nella legge", sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perchè raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge: da un lato, non potendo desumersi argomenti in contrario della generica locuzione normativa "i contribuenti che non si avvalgono", venendo in ogni caso ad essere circoscritta la iniziativa volontaria del contribuente di avvalersi della dichiarazione integrativa nell’ambito dei limiti legali previsti per il suo esercizio, dovendo quindi ricomprendersi nella indicata espressione anche la ipotesi in cui la legge non consenta di avvalersi di detta integrazione ai fini del condono (cfr.
Corte cass. 5 sez. 23.7.2020 n. 17395); dall’altro apparendo incompatibile con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) la diversa interpretazione, prospettata dalla ricorrente, secondo cui la norma riserverebbe – illogicamente – un trattamento differenziato ai contribuenti che non hanno inteso avvalersi del condono rispetto a quelli (che risulterebbero così avvantaggiati dal più breve termine di decadenza per l’accertamento) nei cui confronti difettano gli stessi presupposti di legge per esercitare la facoltà di integrazione della dichiarazione e fruire del condono.
5. Il ricorso principale proposto dalla società contribuente deve, pertanto, essere rigettato.
6. Con l’unico motivo dedotto a sostegno de ricorso incidentale, la Agenzia delle Entrate impugna la sentenza di appello, denunciando il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, sul capo concernente il riconoscimento della inerenza alla attività di impresa dei costi sostenuti da P. s.p.a. per i lavori di ristrutturazione degli immobili di proprietà della medesima società e dalla stessa appaltati a S. s.r.l. che deteneva la partecipazione di maggioranza nella società committente.
La ricorrente incidentale rileva che la CTR avrebbe omesso di considerare 1 – che i lavori erano stati materialmente organizzati da personale addetto all’ufficio tecnico della stessa P. s.p.a. in quanto la S. s.r.l. risultava carente di un’organizzazione amministrativa e societaria; 2 – che i costi sostenuti dalla S. s.r.l. per la stipula dei contratti di subappalto ammontavano a lire 5.834.425.647. ma erano stati "ribaltati" alla P. s.p.a. per un maggiore ammontare di lire 12.010.400.000 senza alcuna giustificazione.
Secondo la Agenzia pertanto la operazione doveva ritenersi fittizia in quanto volta soltanto ad incrementare artificiosamente i costi di esercizio della P. s.p.a..
Il motivo è inammissibile avendo omesso la Agenzia delle Entrate di indicare specificamente quale prova di carattere decisivo la CTR avrebbe omesso od inesattamente valutato, nonchè di specificare in quale fase processuale detta prova era stata dedotta e ritualmente acquisita al giudizio di merito: la mera allegazione che le indicate circostanze di fatto erano state portate a conoscenza del Giudice di merito con i motivi di gravame, non assolve alla esigenza predetta, in quanto altro è la allegazione de fatto reiterata con l’atto di appello ed altro, invece, la indicazione del mezzo di prova, ritualmente acquisito al giudizio, rappresentativo del fatto stesso.
Qualora poi tale prova dovesse individuarsi negli accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza e riportati nel PVC redatto all’esito della verifica fiscale, bene avrebbe, allora, dovuto la ricorrente incidentale trascrivere integralmente o nelle parti salienti il contenuto del documento (dal quale emergevano gli elementi fattuali rilevato dai verbalizzatiti inerenti la struttura organizzativa – locali, personale, attrezzature, ecc. – delle due società, nonchè la esecuzione dei lavori da parte del personale dell’ufficio tecnico della società contribuente) così da consentire a questa Corte di effettuare la necessaria preliminare verifica in ordine alla decisività e rilevanza della prova rispetto all’impianto motivazionale posto a fondamento della decisione impugnata, tanto più considerato che i Giudici di appello, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, avevano espressamente riconosciuto che la S. s.r.l. era "soggetto effettivamente operante nel settore", risultava dotata "di autonoma organizzazione e di proprio personale" ed aveva stipulato contratti di subappalto per la esecuzione dei lavori edili.
La ricorrente incidentale non ha altresì indicato la prova, la cui valutazione è stata omessa od inesattamente compiuta dai Giudici di appello, attestante la ingente lievitazione dei costi, per oltre il doppio del loro ammontare, venendo in conseguenza meno l’elemento certo che unitamente alla assenza di struttura organizzativa idonea della S. s.r.l. – circostanza, come si è rilevato, indimostrata – avrebbe consentito di integrare la premessa costituita dal fatto noto da cui trarre la conoscenza del fatto ignorato (e cioè la natura Fittizia della operazione conclusa tra P. e S. e la inesistenza dei maggiori costi dedotti dal reddito prodotto da P. s.p.a.).
Pertanto anche il motivo del ricorso incidentale, in presenza delle evidenziate lacune espositive va incontro, per inosservanza del requisito di autosufficienza, alla conseguente pronuncia di inammissibilità.
7. In conclusione il ricorso principale ed il ricorso incidentale debbono essere rigettati. La parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, che, in considerazione della reciproca soccombenza, possono essere parzialmente compensate nella misura di un terzo tra le parti.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale;
– dichiara parzialmente compensate, nella misura di un terzo, le spese di lite, liquidate in Euro 20.000,00 per onorari, e condanna la parte ricorrente alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate del residuo importo oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 febbraio 2012.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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