Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 31-01-2013) 04-03-2013, n. 10192

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. M.S. è stato condannato dal tribunale di T. I. alla pena di Euro 1200 di multa, oltre al risarcimento dei danni, per il reato di diffamazione commesso ai danni di T. G..
2. Su appello dell’imputato, la Corte territoriale di Palermo riformava parzialmente la sentenza di primo grado, riducendo ad Euro 4000 la somma liquidata a titolo di risarcimento dei danni, confermando nel resto.
3. M.S. propone oggi ricorso per cassazione per i seguenti due motivi:
a. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 595 e 51 c.p.; secondo la difesa rimpianto motivazionale sarebbe affetto da un grave errore genetico e cioè l’aver esaminato e valutato il comportamento dell’imputato sotto il profilo delle iniziative dallo stesso assunte, omettendo invece di giudicare l’imputato sulla base degli scritti comunicativi, per valutare se l’uso di determinate espressioni o di singoli lemmi avessero leso la reputazione dell’ispettore T.G.. In sintesi, la difesa afferma che le note redatte dal M. e dirette prima al sindaco e poi al medico del lavoro dell’ente sarebbero estrinsecazione del suo potere dovere di gestione del personale, in qualità di comandante della polizia municipale del Comune di T. I.. Lamenta poi illogicità della motivazione con riferimento alla comunicazione a più soggetti, nella parte in cui la Corte d’appello afferma che la richiesta sarebbe stata portata immediatamente a conoscenza di altre persone ed afferma che la sentenza non indica alcuna argomentazione a sostegno della volontà e coscienza che avrebbero sorretto la condotta ascritta all’odierno ricorrente.
b. Violazione dell’art. 133 c.p., per mancanza di motivazione con riferimento alla pena irrogata.
Motivi della decisione
4. Il primo motivo di ricorso è infondato; la Corte d’appello, invero, spiega in modo adeguato i motivi per cui ha ritenuto oggettivamente diffamatorie non solo le condotte del M., quanto piuttosto le parole concretamente utilizzate nelle note inviate al sindaco ed al medico del lavoro. La ricostruzione dei rapporti tra le parti è servita unicamente a contestualizzare i fatti di reato, rafforzando la convinzione dei giudici di merito che l’operato del comandante fosse volontariamente diretto a mettere in cattiva luce l’ispettore T., insinuando persino il dubbio di problemi psichici. Problemi che non avevano ragion d’essere, nemmeno a titolo di dubbio, posto che il T. era stato da poco sottoposto a visita medica, come gli altri suoi colleghi (cfr. pag. 7 sentenza), e considerato che non era possibile operare alcun logico collegamento tra la denuncia effettuata dal T. ad autorità diversa da quella di appartenenza (fatto qualificato come deplorevole dall’imputato) ed eventuali problemi psichici o di inidoneità al servizio.
5. D’altronde, l’utilizzo del termine "deplorevole" per qualificare una condotta del T.G. (che denotava invece senso civico, segnalando l’assenza ingiustificata dal servizio del collega) manifesta non solo la natura oggettivamente diffamatorie dello scritto, ma altresì la consapevole volontà di denigrare il proprio sottoposto, anche, come si è detto, attraverso l’insinuazione di una sua sopravvenuta inidoneità al servizio per instabilità psicologica. Va poi ricordato che l’utilizzo del termine "deplorevole" non evoca solamente un comportamento non confacente alla buona organizzazione dell’ufficio, come sostenuto dalla difesa, ma individua piuttosto una condotta che merita oggettiva disapprovazione anche sotto il profilo morale, in quanto riprovata da parte dei consociati.
6. Consegue a quanto esposto al punto precedente che sono manifestamente infondate anche le, peraltro generiche, censure relative all’elemento soggettivo. Quanto, invece, alla diffusione degli scritti, la censura è del tutto irrilevante e pertanto inammissibile, essendo indubbio che le note sono state inviate sia al sindaco che al medico del lavoro e quindi risulta già integrata la pluralità di persone richiesta dall’art. 595 (cfr. ex multis Sez. 5^, n. 36602 del 15/07/2010, Selmi, Rv. 248431).
7. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato, essendo rinvenibile una motivazione specifica sulla pena alla pagina 12 della sentenza, ove vengono valorizzati ai sensi dell’articolo 133 del codice penale la condotta del reo ed il pervicace intento diffamatorio;
8. Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato, con le conseguenti statuizioni in punto spese, anche di parte civile.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2013

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