Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-08-2012, n. 13961

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Svolgimento del processo

M.M. chiedeva al Tribunale di Agrigento che fosse riconosciuto il suo diritto all’indennità di accompagnamento sin dalla domanda. Il Tribunale di Agrigento, con sentenza del 1.10.2003, previo espletamento di una consulenza medica di ufficio, riconosceva tale diritto, ma solo dal 1.2.2003.

Sull’appello del M. la Corte di appello di Messina, previo espletamento di una seconda consulenza, con sentenza del 12.1.2006 confermava la detta decorrenza della prestazione, dal 1.2.2003.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il M., articolando tre motivi; si è costituito con controricorso l’INPS.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si deduce la violazione ed erronea applicazione della L. n. 18 del 1980, art. 1 così come integrato e modificato dalla L. n. 508 del 1990, art. 1, comma 2 in relazione alla L. n. 118 del 1971 e del D.M. 5 febbraio 1992 in relazione a D.Lgs. n. 509 del 1998, nonchè la violazione ed erronea applicazione degli artt. 12 e 116 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo per la controversia. La CTU e la Corte di appello non hanno considerato l’obiettiva difficoltà di deambulare e comunque di provvedere autonomamente agli atti quotidiani della vita del ricorrente risultante da documentazione ASL. Il motivo è inondato in quanto solleva censure di merito, inammissibili in questa sede. Va ricordato l’orientamento di questa Corte secondo cui "in materia di prestazioni previdenziali derivanti da patologie relative allo stato di salute dell’assicurato, il difetto di motivazione, denunciabile in cassazione, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale traducendosi, quindi, in un’inammissibile critica del convincimento del giudice" (cass. n. 9988/2009;

8654/2008; 16223/2003). Nel caso in esame si rinvia ad esami condotti in sede AUSL, mentre la sentenza ha analiticamente riportato gli esiti del secondo accertamento peritale, confermativo del primo, sul punto della decorrenza, mentre non emergono devianze di sorta dalla nozioni correnti della scienza medica. La motivazione appare congrua e logicamente coerente, con riferimento agli accertamenti medici eseguiti da ben due consulenti di ufficio; le censure, come detto, sono di mero fatto.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e il difetto di motivazione. Ci si lamenta della mancata escussione del teste D.S.S..

Il motivo è infondato in quanto rientrava nel potere discrezionale ammettere la chiesta prova (nel motivo peraltro non si deduce neppure che la sua ammissione sia stata espressamente sollecitata in appello): essendo state eseguite ben due consulenze tecniche con identici accertamenti in ordine alla decorrenza della prestazione la Corte territoriale ha (implicitamente) ritenuto che non sussistessero dubbi in ordine al residuo thema decidendum.

Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 18 del 1980, art. 3 nonchè l’omessa motivazione.

Si deduce che la prestazione doveva essere riconosciuta dal 1.1.2003 (momento in cui il ricorrente era risultato in possesso dei requisiti sanitari) e non dal 1.2.2003.

Anche tale motivo appare infondato: la sentenza di appello, ancorchè in essa si parla di una parziale riforma, è meramente confermativa circa la decorrenza della prestazione, rispetto a quanto accertato in primo grado come peraltro si sostiene anche in ricorso. Parte ricorrente non dimostra e comprova, a parte la fondatezza o meno nel merito della richiesta avanzata in questa sede, di avere formulato un motivo di appello sul punto.

Pertanto si deve rigettare il proposto ricorso: le spese del giudizio di legittimità liquidate come al dispositivo della presente sentenza, seguono in favore dell’INPS la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 40,00 per esborsi, nonchè in Euro 1.500,00 per onorari oltre accessori di legge a favore dell’INPS. Nulla a favore del Ministero dell’Economia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2012

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