Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 31-01-2013) 12-02-2013, n. 6807

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 11/10/2011, la Corte di appello di Lecce sez. dist. di Taranto confermava la sentenza del Tribunale di Taranto del 19/5/2010, che aveva condannato T.T. alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa per i reati di cui agli artt. 81, 644 e 486 c.p..

1.1. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di riconosciuta responsabilità dell’imputato in ordine ai reati allo stesso ascritti ed in punto di trattamento sanzionatorio.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando il seguente motivo di gravame: vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alla carenza di qualsiasi motivazione in ordine alle censure mosse alla decisione di primo grado con i motivi di appello con particolare riferimento alla valutazione dell’attendibilità della persona offesa ed alla natura usuraria del tasso d’interesse praticato dal T.. Eccepisce poi l’illogicità della motivazione nella parte in cui ha ritenuto di potere trarre un giudizio di responsabilità dell’imputato sulla base della constatazione della tenuta da parte dello stesso della contabilità in modo incompleto.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su un motivo manifestamente infondato. Difatti tutte le questioni proposte attengono a valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie. (Sez. U. n. 24 del 24/11/1999, Rv.

214794; Sez. U. n. 12 del 31.5.2000, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Rv. 226074 ).

Ed inoltre, nel caso di specie, ci si trova dinanzi ad una "doppia conforme" e cioè doppia pronuncia di eguale segno, nel caso di specie di condanna, per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (sez. 2 n. 5223 del 24/1/2007, Rv. 236130). Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunto alla medesima conclusione in ordine alla responsabilità dell’imputato per i fatti allo stesso ascritti.

Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regge al vaglio di legittimità, non palesandosi assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione, ovvero travisamento del fatto o della prova. In particolare la Corte territoriale da, adeguatamente, atto, del vaglio di credibilità al quale è stata sottoposta la deposizione della persona offesa con motivazione in fatto immune da vizi di legittimità (sez. 3 n. 8382 del 22/1/2008, Rv. 239342); in tal senso si è fatto riferimento alle dichiarazioni rese dall’imputato, il quale ha confermato quanto riferito dalla persona offesa con riferimento all’esistenza ed alle modalità di gestione del rapporto creditorio, con esclusione della quantificazione del tasso d’interesse ed al contenuto dei documenti acquisiti al fascicolo per il dibattimento, quali elementi di riscontro alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, aggiungendo che le lievi imprecisioni nella quale la stessa può essere incorsa non attengono ad elementi essenziali ai fini della ricostruzione dei fatti e non incidono su tale giudizio. Ed anche con riferimento alla determinazione dell’ammontare del tasso di interesse ritenuto usurario, la Corte territoriale fornisce adeguata spiegazione, priva di illogicità, in ordine all’inattendibilità della tesi difensiva che vorrebbe che il tasso pattuito del 20% fosse annuale e non mensile. In particolare non appare assolutamente irragionevole la conclusione cui è pervenuta sullo specifico punto la sentenza impugnata, laddove ritiene di ravvisare un elemento di riscontro indiretto alle dichiarazioni rese dalla persona offesa nel fatto che, in relazione agli ultimi prestiti concessi alla persona offesa, la contabilità era tenuta in maniera tale da non consentire in maniera trasparente le operazioni poste in essere, mentre in altre circostanze risultava che lo stesso aveva con precisione annotato il capitale dato in prestito, il tasso d’interesse pratico ed il periodo di riferimento, consentendo un agevole ricostruzione del rapporti intercorso con il debitore. Difatti ciò viene ragionevolmente interpretato, alla luce degli altri elementi emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, come elemento idoneo a dimostrare una volontà di occultare le prove documentali di un rapporto di natura usuraria intrattenuta dall’imputato con la persona offesa.

4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dell’imputato che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 ciascuno alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2013
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