Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-08-2012, n. 14147

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Svolgimento del processo
1.- La sentenza attualmente impugnata accoglie l’appello di S.A. avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 13 febbraio 2007 e, in riforma della sentenza impugnata, annulla, perchè ingiustificato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7 il licenziamento intimato all’appellante e, per l’effetto: 1) ordina alla XXXX s.r.l. di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato; 2) condanna la società stessa al risarcimento dei danni conseguenti all’illegittimo recesso, liquidati in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento fino alla scadenza del terzo anno successivo al licenziamento, oltre agli accessori di legge; 3) dichiara il diritto dello S. alla regolarizzazione, per il periodo considerato dalla pronuncia, della posizione previdenziale; 4) condanna la società medesima al pagamento delle spese processuali del doppio grado del giudizio di merito.
La Corte d’appello di Roma, per quel che qui interessa, precisa che:
a) tra i motivi di appello è assorbente e risolutivo, nella sua piena fondatezza, quello relativo all’omessa audizione del lavoratore, chiesta con la lettera di risposta a quella di contestazione degli addebiti – datata 6 ottobre 2003, ma pervenuta il 9 ottobre 2003 – sicuramente tempestiva perchè datata 14 ottobre 2003;
b) la giurisprudenza afferma costantemente che è imprescindibile procedere all’audizione del lavoratore licenziato, se essa sia stata regolarmente richiesta, con conseguente invalidazione del recesso perchè ingiustificato, in caso di mancato rispetto della suddetta regola;
c) segue la applicazione delle conseguenze risarcitorie di cui all’art. 18 St. lav., con la limitazione ad un triennio delle retribuzioni da corrispondere, derivante dai principi generali in tema di obbligazioni e, in particolare, dall’osservanza dell’obbligo di diligenza imposto al creditore (vedi spec. art. 1227 c.c., comma 2).
2.- Il ricorso della XXXX s.r.l. – illustrato da memoria – domanda la cassazione della sentenza per sei motivi; resiste, con controricorso, S.A..
Motivi della decisione
1 – Sintesi dei motivi di ricorso.
1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione degli artt. 112 e 324 cod. proc. civ..
Si contesta la decisione della Corte d’appello di ritenere il licenziamento illegittimo per l’assorbente ragione della mancata audizione del lavoratore.
Si sottolinea che, nella sentenza di primo grado, la richiesta di audizione orale dello S. era stata considerata tardiva e che sul punto non vi era stata una specifica impugnativa (sicchè si era formato il giudicato interno), perchè nell’atto d’appello era stato solo sostenuto che era onere del datore di lavoro di provare la tardività della richiesta di audizione, allegando la ricevuta di ritorno della relativa raccomandata.
La Corte territoriale, anzichè decidere sulla suddetta questione riguardante l’onere probatorio, ha "spostato" la data di ricezione della lettera di contestazione degli addebiti dal 6 al 9 ottobre 2003 e così è giunta a ritenere tempestiva la richiesta di audizione del lavoratore.
In tal modo la Corte romana si sarebbe pronunciata su una domanda che non era stata posta e avrebbe violato il giudicato interno formatosi sulle date delle missive in oggetto, così violando le norme processuali su richiamate e pronunciando una sentenza nulla, per mancato rispetto del principio del contraddittorio.
2.- Con il secondo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa e contraddittoria motivazione in riferimento alla tempestività della richiesta di audizione.
Si sostiene che la statuizione contestata con il primo motivo sia anche priva di qualsiasi motivazione.
3.- Con il terzo e il quarto motivo si denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e vizio di motivazione, sempre con riguardo alla mancata audizione del dipendente.
Si contesta la decisione della Corte territoriale di dichiarare l’illegittimità del licenziamento sul presupposto che la mancata audizione violi il diritto di difesa riconosciuto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
Si sostiene che, in base alla giurisprudenza di legittimità, il diritto di audizione del lavoratore è insussistente rispetto a contestazioni la cui veridicità sia stata ammessa dallo stesso lavoratore, come accade nella specie rispetto ad alcuni degli addebiti.
Conseguentemente, la Corte d’appello avrebbe dovuto vagliare se tali addebiti erano sufficienti a costituire la giusta causa del recesso, cosa che ha omesso di fare. E ciò avrebbe dovuto essere fatto anche per le contestazioni non ammesse.
Infatti, come affermato dal giudice di primo grado, la Corte d’appello, pure per le contestazioni non ammesse, avrebbe dovuto escludere la necessità dell’audizione del dipendente, in considerazione della genericità della richiesta di audizione del lavoratore formulata senza l’indicazione di ulteriori specifiche esigenze di difesa.
4.- Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e della L. n. 604 del 1966, degli artt. 1, 2 e 8 in riferimento alla disposta reintegrazione e alla condanna al risarcimento del danno, in mancanza del prescritto requisito dimensionale dell’impresa datrice di lavoro.
Si sostiene che alle dipendenze della società XXXX, alla data del licenziamento (23 ottobre 2003), erano occupati "un totale di 12 dipendenti", come risulta dal libro matricola allegato in atti, ne consegue che non avrebbe dovuto essere disposta la reintegrazione in quanto, al di fuori della sfera di applicazione della c.d. tutela reale, la mancata osservanza delle garanzie procedimentali stabilite dall’art. 7 St. lav. rende il licenziamento disciplinare ingiustificato, esponendo il datore di lavoro all’alternativa tra la riassunzione o il risarcimento del danno.
5.- Con il sesto motivo, sempre in riferimento alla disposta reintegrazione e alla condanna al risarcimento del danno in mancanza del prescritto requisito dimensionale dell’impresa datrice di lavoro, si denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., omessa pronuncia e mancanza di motivazione.
Si rileva che la Corte d’appello non si è pronunciata sull’eccezione, ritualmente proposta dalla società sia in primo sia in secondo grado, di mancanza del requisito dimensionale richiesto per l’applicazione della c.d. tutela reale.
Si ricorda che, in appello, la società aveva precisato che, nel periodo di riferimento "aveva solo 10 dipendenti, incluso il ricorrente" come si desumeva dal libro matricola allegato, senza che le relative indicazioni potessero essere smentite da "fantasiosi riferimenti a strutture di gruppo" del lavoratore.
La Corte romana, non essendosi pronunciata sull’indicato punto fondamentale della controversia, non consente di comprendere se, a suo avviso, il requisito dimensionale esiste ovvero sia irrilevante.
2 – Esame delle censure.
6.- I primi due motivi – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere.
6.1.- Dal punto di vista della formulazione va osservato che i suddetti motivi non sono rispettosi del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale, come di recente precisato dalle Sezioni unite di questa Corte, comporta che l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7 di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" possa considerarsi soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726), specifica indicazione nella specie mancante.
6.2.- Comunque, anche nel merito, le censure sono destituite di fondamento.
Va, infatti, ricordato che, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass. 23 agosto 2007, n. 17935; Cass. 17 novembre 2008, n. 23747), non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass. 30 ottobre 2007, n. 22863);
b) costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verte in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (vedi, per tutte: Cass. 16 gennaio 2006, n. 726);
c) ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (Cass. 2 marzo 2010, n. 4934);
d) il giudice d’appello, in relazione al dovere, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., di non pronunciarsi oltre i limiti della domanda ed all’onere dell’appellante, di cui all’art. 434 cod. proc. civ., di proporre specifici motivi di appello, non può ritenere non provati fatti accertati nella sentenza impugnata, quando la loro sussistenza non abbia formato oggetto dell’appello, trattandosi di questione non devoluta al giudice di secondo grado ed essendosi conseguentemente formato sull’accertamento dei predetti fatti il giudicato interno (Cass. 2 gennaio 2001, n. 6; Cass. 9 gennaio 2002, n. 191; Cass. 29 settembre 2003, n. 14507);
d) il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) – come il principio del tantum devolutimi quantum appellatum (artt. 434 e 437 cod. proc. civ.) – non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonchè in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, diversa da quella invocata dall’istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita -diverso da quello richiesto ("petìtum mediato") – oppure di emettere qualsiasi pronuncia – su domanda nuova, quanto a causa petendi che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo – anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte – ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio. Non configurano una inammissibile domanda nuova le deduzioni di parte rese in appello, ove non comportino il mutamento del fatto costitutivo oppure del fatto impeditivo, estintivo o modificativo sul quale di fonda la domanda oppure l’eccezione, ma si limitino ad invocarne a sostegno norme giuridiche diverse (Cass. 11 luglio 2007, n. 15496; Cass. 12 maggio 2006, n. 11039);
e) in sede di legittimità, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui venga lamentato l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia in base ad una considerazione non condivisa dalla parte: mentre nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiestale, nell’altro caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, alla Corte è devoluto soltanto il compito di effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass. 26 aprile 2001, n. 6066; Cass. 9 giugno 2003, n. 9202; Cass. 20 agosto 2003, n. 12255; Cass. 22 gennaio 2004, n. 1079;
Cass. 14 marzo 2006, n. 5491; Cass. 26 giugno 2007, n. 14751; Cass. 30 giugno 1986, n. 6367).
6.3.- Nella specie, è del tutto evidente – come implicitamente riconosce la stessa società ricorrente quando sostiene che la "sola" deduzione effettuata sul punto da parte del lavoratore sia stata quella della mancata produzione in giudizio, da parte della destinataria, della ricevuta di ti ritorno della lettera contenente la richiesta di audizione – che il punto della sentenza del Tribunale (esaminabile in questa sede, dato il tipo di censure prospettate) sul quale si sarebbe formato il giudicato implicito – cioè quello relativo alla intempestività della lettera del lavoratore contenente la richiesta di audizione – essendo strettamente collegato al rigetto della domanda del dipendente, non può essere considerato come un "capo" autonomo della sentenza stessa, perchè non integra una decisione autonoma, richiedente come tale una apposita e specifica impugnazione, ma piuttosto rappresenta un passaggio motivazionale della statuizione complessiva in concreto adottata.
Pertanto è da escludere in radice la configurazione del giudicato interno sul punto, così come è da escludere qualsiasi violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., disposizione che risulta impropriamente invocata per censurare l’interpretazione data alla domanda da parte della Corte d’appello – che l’ha portata a ritenere correttamente in essa compreso anche l’aspetto della controversia relativo alla tempestività della richiesta di audizione del lavoratore, in base ad una ricostruzione dei fatti, non condivisa dalla parte – mentre l’interpretazione della domanda e l’individuazione della sua ampiezza e del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sottratto al sindacato di questa Corte, ove, come nella specie, risulta essere sorretto da una motivazione congrua e corretta dal punto di vista logico-giuridico.
Nè va omesso di sottolineare che la ricorrente non solo sostiene che la Corte d’appello abbia "spostato" indebitamente la decorrenza del termine di ricezione della lettera di contestazione degli addebiti (dal 6 al 9 ottobre 2003), ma anche che non abbia motivato al riguardo. Viceversa: 1) dallo stesso ricorso risulta che il 6 ottobre 2003 la società ha inviato la suddetta lettera (contenente, peraltro, addebiti riferiti anche allo stesso 6 ottobre), invitando il lavoratore a dare le proprie giustificazioni "entro cinque giorni dal ricevimento" della lettera stessa (che non poteva certamente essere contestuale); 2) nella sentenza è espressamente chiarito che la lettera dello S. è da considerare certamente tempestiva perchè inviata il 14 ottobre 2003, in risposta alle contestazioni ricevute il 9 ottobre 2003.
Va, infine, precisato che – come peraltro, risulta dallo stesso ricorso (ove si riporta il contenuto della lettera di contestazione degli addebiti) – non possono esservi dubbi sul fatto che il termine di cinque giorni previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 in favore del lavoratore, per la presentazione delle proprie giustificazioni, decorre dal momento in cui quest’ultimo ha ricevuto la lettera di contestazione e non dal giorno in cui la stessa è stata inviata, poichè la ratio sottesa alla norma è funzionale alla tutela del diritto di difesa dell’incolpato (Cass. 3 ottobre 2007, n. 20724;
Cass. SU 7 maggio 2003, n. 6900; Cass. 9 febbraio 2012, n. 1884) e quindi al suddetto termine si applicano i principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 477 del 2002 (Cass. SU 14 aprile 2010, n. 8830).
7.- Pure il terzo e il quarto motivo – anch’essi da esaminare insieme, per intima connessione – non vanno accolti.
7.1.- la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 prevede tra le garanzie procedimentali poste a tutela del lavoratore cui il datore di lavoro intenda irrogare una sanzione disciplinare – garanzie cui si attribuisce applicazione generale, in base ai principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 204 del 1982 e n. 427 del 1989 (vedi per tutte: Cass. SU 1 giugno 1987, n. 4823; Cass. 13 agosto 2007, n. 17652, la giurisprudenza intermedia è conforme) – che il provvedimento disciplinare non possa essere adottato, non soltanto senza una preventiva contestazione degli addebiti al lavoratore, ma anche senza che l’incolpato sia stato "sentito a sua difesa".
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che questa specifica garanzia (la previa audizione a difesa) opera non già indistintamente, ma solo se il lavoratore abbia chiesto di essere sentito, in modo espresso e in termini univoci, a tutela dell’affidamento del datore di lavoro (Cass. 26 ottobre 2010, n. 21899; Cass. 4 marzo 2004, n. 4435).
Tuttavia, una volta che l’espressa richiesta sia stata formulata dal lavoratore, la sua previa audizione costituisce in ogni caso indefettibile presupposto procedurale che legittima l’adozione della sanzione disciplinare anche nell’ipotesi in cui il lavoratore, contestualmente alla richiesta di audizione a difesa, abbia comunicato al datore di lavoro giustificazioni scritte; le quali per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni che il lavoratore stesso eventualmente aggiunga o precisi in sede di audizione.
In altre parole, il datore di lavoro, il quale intenda adottare una sanzione disciplinare, non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato ove quest’ultimo ne abbia fatto richiesta espressa contestualmente alla comunicazione, nel termine di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 5 di giustificazioni scritte, anche se queste siano ampie e potenzialmente esaustive (Cass. 22 marzo 2010, n. 6845;
Cass. 6 luglio 1999, n. 7006).
Infatti, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2 si interpreta nel senso che il lavoratore è libero di discolparsi nelle forme da lui prescelte, oralmente o per iscritto, con l’assistenza o meno di un rappresentante sindacale, sicchè, ove il lavoratore eserciti il proprio diritto chiedendo espressamente di essere "sentito a difesa" nel termine previsto dallo stesso art. 7, comma 5, dello Statuto dei lavoratori, il datore di lavoro ha l’obbligo della sua audizione, senza che tale istanza – fuori dai casi in cui la richiesta appaia ambigua ed incerta – sia sindacabile dal datore di lavoro in ordine all’effettiva idoneità difensiva, rispondendo tale esito all’esigenza di consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio tra le parti e all’espressa previsione dell’impossibilità di applicare qualsiasi sanzione più grave del rimprovero verbale senza che il lavoratore, che ne abbia fatto richiesta, sia sentito a sua discolpa (Cass. 11 marzo 2010, n. 5864; Cass. 14 giugno 2011, n. 12978).
7.2- Nella specie la sentenza impugnata appare conforme ai suddetti principi, di cui viceversa non tengono conto le censure della ricorrente.
Non vi sono dubbi, infatti, sulla ricostruzione dei fatti – che, peraltro, è di competenza del Giudice del merito e non è censurabile in questa sede ove, come nella specie, sia sorretta da congrua e logica motivazione e, quindi, sia sull’avvenuta richiesta di audizione da parte del lavoratore, non accolta dalla datrice di lavoro, sia sulla chiarezza e univocità delle espressioni usate dal richiedente.
Tanto basta per ritenere – come ha fatto la Corte romana – che sia stato violato l’art. 7 St. lav. e che, pertanto, il licenziamento sia da considerare illegittimo per questo motivo, ossia ingiustificato, nel senso che il comportamento addebitato al dipendente ma non fatto valere attraverso il procedimento previsto dalla suddetta norma (e, in particolare, senza l’audizione richiesta ritualmente dal lavoratore) non può, quand’anche effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa o giustificato motivo, essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività della tutela apprestata al lavoratore dall’ordinamento, dovendosi parificare il vizio formale del mancato rispetto delle garanzie procedimentali al vizio sostanziale dell’assenza di giusta causa o giustificato motivo (vedi, per tutte: Cass. 11 gennaio 2011, n. 459).
8.- Anche gli ultimi due motivi – tra loro connessi e, quindi, da esaminare congiuntamente -non sono fondati.
8.1.- Per quel che riguarda il requisito dimensionale dell’impresa, va ricordato che, in base all’indirizzo interpretativo affermato in Cass. SU 10 gennaio 2006, n. 141 e ormai consolidatosi (vedi, per tutte: Cass. 16 marzo 2009, n. 6344; Cass. 14 ottobre 2011, n. 21279 e n. 21280):
a) in tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 costituiscono un fatto impeditivo del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività, che deve, perciò, essere provato dal datore di lavoro; infatti, con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra – ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. – che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo diffìcile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della "disponibilità" dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa;
b) d’altra parte, al suddetto fine, i libri contabili (in particolare il libro paga e matricola) dell’impresa rappresentano una prova indispensabile, per determinare il numero dei dipendenti e occupati nel periodo di tempo antecedente al licenziamento, che è quello da prendere in considerazione nella specie (arg. ex Cass. 27 gennaio 2011, n. 1925; Cass. 1 settembre 2003, n. 12747; Cass. 10 settembre 2003, n. 13274).
8.2.- Va, però, considerato che i libri contabili che il datore di lavoro privato è obbligato a tenere (cioè il libro paga e il libro matricola previsti dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 20 e 21 sostituiti, con decorrenza 10 febbraio 2012, dal libro unico del lavoro, di cui al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 39 convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133) sono formati dallo stesso datore di lavoro.
Ciò implica che i dati in essi contenuti hanno una diversa efficacia probatoria a seconda del contesto in cui si utilizzano, cioè in particolare se a favore o contro il datore di lavoro (Cass. 26 aprile 2012, n. 6501).
Se la loro utilizzazione avviene in favore del datore di lavoro, non solo la tenuta dei libri deve risultare regolare e completa, ma le registrazioni in essi contenute (di cui, ad esempio, si voglia giovare il datore di lavoro per dimostrare il numero complessivo e la qualifica dei dipendenti occupati) possono essere validamente contestate dalla controparte, con eventuali contrari mezzi di difesa o semplicemente con specifiche deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, che ne dimostrino l’inesattezza e la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (arg. ex Cass. 18 luglio 1985, n. 4243; Cass. 29 maggio 1998, n. 5361; Cass. 1 ottobre 2003, n. 14658).
Nel libro matricola, in particolare, devono essere iscritti, nell’ordine cronologico della loro assunzione in servizio e prima dell’ammissione al lavoro, tutti i prestatori d’opera (vedi D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 20 cit.).
Nella specie, la società ricorrente non riferisce che le registrazioni contenute nel libro matricola esibito siano risultate regolari e complete nè che non siano state oggetto di contestazione da parte del lavoratore, ma si limita a sostenere apoditticamente che la Corte d’appello non abbia preso in considerazione le relative indicazioni che, peraltro, nello stesso ricorso non sono riportate in modo univoco (visto che a p. 21 si sostiene che, nel periodo considerato, i dipendenti erano 12, mentre a p. 25 si parla di 10 dipendenti).
In tal modo però la ricorrente – senza oltretutto rispettare il principio di autosufficienza del ricorso – non offre elementi utili a contrastare l’implicita statuizione della Corte territoriale sulla sussistenza del requisito dimensionale richiesto per l’applicazione della c.d. tutela reale.
8.3.- D’altra parte, è da escludere la configurabilità del vizio di omessa pronuncia da parte del Giudice d’appello che presuppone la totale mancanza dell’esame di una censura mossa al giudice di primo grado e che, quindi, non ricorre nel caso in cui il Giudice d’appello fondi la decisione su un argomento che totalmente prescinda dalla censura o necessariamente ne presupponga l’accoglimento o il rigetto:
infatti nel primo caso l’esame della censura è inutile, mentre nel secondo essa è stata implicitamente considerata (Cass. 19 maggio 2006, n. 11756; Cass. 19 luglio 2007, n. 15882).
Ne consegue che essendo stata nella specie implicitamente considerata la questione del requisito dimensionale, si esula dall’ambito di applicabilità dell’art. 112 cod. proc. civ. e la censura appare inammissibilmente diretta a contestare la valutazione del materiale probatorio effettuata dalla Corte d’appello, mentre è jus receptum che la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (vedi, per tutte: Cass. 6 giugno 2011, n. 12204; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412; Cass. 24 luglio 2007, n. 16346; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3785).
A fronte di questa situazione, le censure della ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto, già valutate dal Giudice del merito, in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.
Tanto basta per respingere anche il quinto e il sesto motivo.
4 – Conclusioni.
9.- Il ricorso deve essere, quindi respinto, per le suesposte considerazioni. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 30,00 (trenta/00) per esborsi, Euro 3000,00 (tremila/00) per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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