Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 06-08-2012, n. 14145

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Svolgimento del processo
F.D. impugnava il licenziamento intimato per giusta causa dalla datrice di lavoro s.pa. A. il 3.9.2002 per essersi impossessato in tre occasioni, nel periodo compreso tra il 30 giugno ed il 26 luglio, di importi sottratti agli automobilisti in transito, corrispondendo un resto inferiore a quello spettante. La spa A. contestava la fondatezza del ricorso, ribadendo la gravità delle contestazioni, tali da rompere il vincolo fiduciario tra le parti. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con sentenza del 28.5.2007 respingeva il ricorso. Sull’appello del F. la Corte di appello di Napoli con sentenza del 16.6.2009 rigettava l’appello.
La Corte territoriale osservava la legittimità dei disposti controlli espletati da parte aziendale con l’ausilio di una società di investigazione alla luce della giurisprudenza di legittimità in materia in quanto diretti all’eventuale accertamento di illeciti esulanti l’ordinaria attività lavorativa, come nel caso in esame.
Le modalità dei controlli erano consistiti solo nella verifica del biglietto dei clienti e di quanto fosse stato corrisposto come pedaggio; i testi avevano puntualmente in sede testimoniale confermato gli addebiti e l’ipotesi di un errore era da escludersi in quanto altamente improbabile anche perchè il saldo di cassa era risultato sempre in pareggio (nel caso di resto non ritirato la relativa somma andava peraltro versata in cassa). Il comportamento andava qualificato come doloso e, stante la gravità dei fatti – reiterati in un breve lasso temporale – e la natura delle mansioni svolte, era stato irrimediabilmente incrinato il rapporto fiduciario.
Ricorre il F. con due motivi; resiste la spa A. con controricorso che ha depositato anche memoria autorizzata.
Motivi della decisione
Con il primo motivasi allega l’erronea interpretazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., nonchè il difetto e l’insufficiente motivazione circa fatti gravi e controversi per il giudizio; illogicità ed incoerenza della motivazione della sentenza impugnata. Mancava la prova (e non sussistevano comunque) gravi elementi in ordine all’esistenza del dolo nel comportamento ascritto a ricorrente. Il F. non era mai stato destinatario di provvedimenti e contestazioni disciplinari.
Il motivo non è fondato. Come accennato in premessa la Corte territoriale ha ritenuto non plausibile la tesi di una involontarietà del fatto addebitato al ricorrente posto che i tre episodi contestati si erano svolti in un breve lasso di tempo e, soprattutto, hanno portato non solo – come neppure nel motivo si contesta – all’erogazione ai clienti di un resto minore di quello dovuto, ma anche alla mancata contabilizzazione del fatto (che si assume commesso per errore) in quanto era risultato un pareggio del saldo contabile mentre le somme eventualmente incassate in più dovevano essere versate in cassa ( pag. 7 della sentenza impugnata), mentre evidentemente erano state trattenute. La Corte territoriale ha sottolineato come un errore contabile ripetuto per ben tre volte in un breve lasso di tempo era ben difficilmente ipotizzabile e quindi ne ha inferito la prova del dolo nel comportamento tenuto. La motivazione appare congrua e logicamente ineccepibile in quanto l’inferenza è stata condotta sulla base di elementi obiettivi di notevole consistenza e senza salti argomentativi, secondo massime di esperienza altamente plausibili. Per contro le censure appaiono di merito, inammissibili in questa sede in quanto il provvedimento impugnato è congruamente e logicamente motivato.
Con il secondo motivo si allega la violazione dell’alt. 2106 c.c. Sussisteva una evidente sproporzione tra fatti addebitati e sanzione irrogata: il rapporto era di lunga durata, non vi erano precedenti disciplinari.
Anche il secondo motivo appare infondato in quanto già la Corte territoriale ha evidenziato la gravità dei fatti addebitati tenuto conto anche delle specifiche mansioni svolte dal ricorrente addetto a ricevere pagamenti direttamente da parte della clientela e quindi investito di compiti particolari che concernevano anche l’affidamento non solo del datore di lavoro, ma anche del pubblico sull’onestà e correttezza del lavoratore (cass. n. 11675/2005) ed ha ritenuto i fatti prima ricordati idonei a rompere il legame fiduciario tra le parti; l’assenza di precedenti disciplinari, ha osservato la Corte territoriale, non può da sola attenuare la gravità della condotta.
Tali considerazioni, se si considera che i comportamenti addebitati costituiscono una radicale negazione dei compiti riservati ad un esattore in quanto non solo risultano appropriate dolosamente somme di non spettanza, ma anche si è fatto comunque "quadrare" il saldo contabile, appaiono assolutamente condivisibili: la motivazione appare congrua, logicamente coerente e certamente rispettosa dei principi enucleati da questa Corte in materia di proporzionalità della sanzione, mentre le censure tendono a rivalutare nel merito la gravità del fatto, già idoneamente e persuasivamente esaminata dai Giudici di merito, peraltro con le medesime conclusioni.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite del giudizio di legittimità – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 40,00 per esborsi, nonchè in Euro 2.000,00 per onorari di avvocato, oltre Iva, CPA e spese generali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2012

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