Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-02-2013) 14-03-2013, n. 12021

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza dell’11/6/2012, il Tribunale del riesame di Messina rigettava la richiesta di riesame proposta nell’interesse di T. S. avverso l’ordinanza con cui il G.I.P. dello stesso Tribunale aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere per i reati di cui al D.P.R. 309 del 1990, artt. 73 e 74.

Il Tribunale respingeva l’eccezione di incompetenza per territorio sollevata dalla difesa del T., osservando che la fattispecie associativa, reato più grave tra quelli contestati, esercitava la vis actractiva nei confronti dei reati fine e che l’associazione aveva il suo fulcro nel territorio della provincia di Messina, ove risiedono i promotori, S. e C.F., i quali, pur rifornendosi principalmente nella piazza palermitana, distribuivano la merce sul mercato messinese: la competenza era pertanto determinata ai sensi dell’art. 328 cod. proc. pen., comma 1 quater.

Nel merito delle imputazioni, il Tribunale dava ampia motivazione in ordine all’esistenza dell’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74; di essa faceva parte anche T.G., uno dei fornitori palermitani del C. e dello S., che forniva la droga per il tramite di L.G. e anche con l’ausilio di T.S., tutti consapevoli, secondo il Collegio, di approvvigionare la compagine associativa che immetteva la droga nel mercato messinese.

Esisteva una cassa comune dell’organizzazione, tanto che si riscontrava una telefonata in cui T.G. autorizzava S. a prelevare da essa una somma di Euro 300,00. Tale somma era legata all’affitto di un appartamento che era stato acquisito nell’accordo degli associati e che, successivamente, aveva fatto nascere contrasti. Diverse telefonate dimostravano che C. F. e T.G. avevano promosso un incontro generale per discutere dei dissidi sorti all’interno del gruppo, coinvolgendo anche G.G.; riferimenti all’associazione si coglievano anche nell’ultima fase, quella in cui C. aveva rappresentato a T.G. le sue difficoltà nel saldare il debito per le forniture, a seguito degli arresti degli altri associati.

T.G. si dimostrava in grado di reperire grossi quantitativi di stupefacente a C. e S. anche in un brevissimo arco di tempo; il fratello S. fungeva da fattorino per conto del fratello G., che lo retribuiva con 100 Euro ad ogni consegna, come emergeva da un’intercettazione ambientale tra C.F. e G.L.M.; fra l’altro le consegne avvenivano sempre nella primissima mattinata (verso le 4’30), come risultava dagli episodi del 23/2/2008, nel quale T.S. riferiva a G. di avere consegnato la droga al C., del 25/1/2008, quando T.S. effettuava un tentativo di telefonata a C.G. in vista della consegna, del 31/1/2008, nel quale T.G. riferiva a G. della consegna effettuata dal fratello S. al C. e del 25/3/2008, quando la consegna al C. avveniva su disposizione del G. e S. riferiva al fratello l’avvenuta consegna della droga (che poi era stata sequestrata al C. sulla via del ritorno).

Il ruolo di T.S. era rilevante, tenuto conto che era l’unico associato disposto ad alzarsi alle 4’30 per incontrare C.G.; la sua consapevolezza di far parte dell’associazione emergeva dalle ripetute consegne e dalla circostanza che egli non era in contatto solo con il fratello, ma anche con G.G..

2. Ricorre per cassazione T.S., deducendo distinti motivi.

In un primo motivo si deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen. in relazione alle fattispecie incriminatrici e il vizio di motivazione.

Il Tribunale aveva omesso di fornire adeguata risposta alle censure della difesa in punto di mancanza di elementi sintomatici della intraneità del T. nell’associazione criminosa nonchè di riscontri individualizzanti a detta intraneità, atteso che si sosteneva la occasionalità delle condotte poste in essere dal ricorrente e la assoluta neutralità delle intercettazioni telefoniche.

In effetti, in un’attività di indagine che si era protratta per più di tre anni, si riscontravano solo tre telefonate attribuibili al T. che, in nessun modo, erano in grado di attribuirgli un ruolo ben determinato all’interno dell’associazione criminale ma che, al contrario, indicavano la occasionalità dei rapporti.

Il Tribunale, nella motivazione del provvedimento, aveva dimostrato incertezza sul punto, usando una motivazione forzata e artificiosa sia con riferimento all’ora in cui il T. si alzava la mattina, sia quanto al compenso di Euro 100,00 che T.S. riceveva dal fratello o da G.G. per ogni consegna, elemento che, vista la entità assai modesta della somma, dimostrava la estraneità del ricorrente all’associazione.

In un secondo motivo si deduce la violazione ed erronea applicazione dell’art. 9 cod. proc. pen. in relazione al D.P.R. n. 309, artt. 73 e 74 nonchè il vizio di motivazione del provvedimento impugnato: in effetti il Tribunale del riesame aveva omesso di rispondere alle censure in punto di incompetenza per territorio, limitandosi ad affermare che la competenza spettava all’A.G. del luogo dove si era costituito il reato associativo, con ciò violando la regola giurisprudenziale secondo cui, quando è ignoto il luogo dove ha avuto inizio l’azione criminosa nel reato permanente, il giudice competente per territorio deve essere individuato in relazione al luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione.

Il ricorrente conclude per l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Motivi della decisione

Il ricorso è palesemente infondato e deve essere dichiarato inammissibile.

1. Quanto al motivo di ricorso attinente la eccepita incompetenza per territorio del Tribunale di Messina, l’ordinanza impugnata motiva ampiamente sulla circostanza che l’associazione per delinquere diretta da C.F. e S. sia stata costituita, abbia avuto il proprio fulcro e la propria attività nella provincia di Messina, dove è situata anche l’abitazione utilizzata dal gruppo per custodire lo stupefacente. Nella provincia di Palermo avveniva solo l’approvvigionamento della droga, che veniva subito trasportata nel messinese e ivi commercializzata.

Il ricorrente richiama una giurisprudenza di questa Corte che risolve la fattispecie in cui è ignoto il luogo dove ha avuto inizio il reato permanente associativo: ma, appunto, il Tribunale del Riesame motiva ampiamente che quel luogo è conosciuto.

2. Non sussiste, poi, il difetto di motivazione lamentato nel primo motivo di ricorso.

Si deve ricordare che il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia "effettiva", ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", perchè sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Gli atti del processo invocati dal ricorrente a sostegno del dedotto vizio di motivazione non devono semplicemente porsi in contrasto con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante, ma devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione risulti in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante, determinando al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.

Non è sufficiente, quindi, che il ricorrente proponga una ricostruzione semplicemente contrastante con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, nemmeno se essa possa apparire più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi "atti del processo" e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. (Sez. 1, n. 41738 del 19/10/2011 – dep. 15/11/2011, Pmt in proc. Longo, Rv. 251516).

Ciò premesso, si coglie la portata del tutto insufficiente delle censure mosse dal ricorrente alla motivazione: la portata delle intercettazioni telefoniche e il loro numero sono dati passibili di differenti interpretazioni e valutazioni, nè quella proposta dal ricorrente dimostra la manifesta illogicità o la contraddittorietà di quella adottata dal Tribunale; così vale per la circostanza del compenso di Euro 100,00 per ogni consegna che il ricorrente riceveva dal fratello o da G.G., dato che può essere letto, come fa il Tribunale, all’interno di un rapporto associativo, rispetto al quale si valorizza il numero delle consegne, la conoscenza da parte di T.S. degli affari del fratello e di G.G., la sua disponibilità all’occorrenza, la conoscenza dei soggetti provenienti da Messina cui la droga veniva consegnata, oppure può essere valorizzato come indice di una collaborazione occasionale, come propone il ricorrente: ma tale seconda ricostruzione, ancora una volta, non dimostra affatto la manifesta illogicità di quella opposta accolta nell’ordinanza impugnata, nè sono indicati atti che evidenzino una sua contraddittorietà.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2013
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