Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-08-2012, n. 14213

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Riconosciuto, all’esito di un precedente giudizio definito con sentenza passata in giudicato, comproprietario per la quota di 752 millesimi di un androne (denominato anche come "arco") interposto fra l’immobile terraneo di sua proprietà esclusiva sito in (OMISSIS), e quello dell’altro comproprietario, P. S., posto al n. (OMISSIS), P.A., e per lui la sua procuratrice generale P.M., agiva in giudizio innanzi al Tribunale di Bari, sezione distaccata di Bitonto, per ottenere la condanna dello S. a corrispondergli la sua quota parte dei frutti civili del godimento dell’androne, che questi aveva pavimentato e utilizzato in via esclusiva per svariati anni, destinandolo a parcheggio.
Il convenuto resisteva alla domanda, che il Tribunale accoglieva condannando S.P. al pagamento della somma di Euro 9.973,85.
Tale sentenza era riformata dalla Corte d’appello di Bari, adita in via principale dallo S. (e in via incidentale da M. P.).
Respinto il primo motivo di gravame, che lamentava il vizio di ultrapetizione per avere il Tribunale sostituito la domanda di condanna al pagamento dei frutti civili con una domanda di risarcimento dei danni mai proposta, la Corte territoriale riteneva – per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità – che la parte attrice non avesse fornito la prova di aver subito un danno dal mancato utilizzo del bene, destinato unicamente a dare aria e luce ai locali retrostanti, tenuto conto sia delle condizioni concrete dell’androne, privo di portone e di qualsiasi struttura che ne consentisse, prima degli interventi eseguiti su di esso dallo S., l’utilizzo quale garage, sia del fatto che nel precedente giudizio diretto ad accertare la proprietà del bene, non era stato mai stabilito tale impiego dell’androne. Il mero e potenziale utilizzo del bene, osservava la Corte pugliese, non era sufficiente ai fini del risarcimento, che poteva avere funzione reintegrativa, ma non già punitiva.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre P.A., formulando tre motivi d’annullamento.
Resiste con controricorso S.P., che propone, altresì, impugnazione incidentale condizionata, affidata ad un motivo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo del ricorso principale si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt.820, 821, 1102, 2043, 2056, 1223, 1226, 2697, 2697 e 2729 c.c., e degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la difformità della decisione impugnata rispetto alla giurisprudenza di questa Corte in tema di danno da occupazione di immobile.
Richiamate varie pronunce di questa Corte sull’esistenza di un danno in re ipsa da occupazione abusiva di cosa comune da parte di uno solo dei condomini, parte ricorrente formula (pur senza esservi tenuta) il seguente quesito di diritto: "se in materia di condominio negli edifici, ove sia stata dimostrata l’occupazione abusiva, da parte di uno dei condomini, di una parte comune dello stabile, in modo tale da impedirne agli altri l’uso anche solo potenziale, il danno debba ritenersi "in re ipsa" senza necessità di specifica dimostrazione, indipendentemente quindi dalla prova di una determinata utilizzazione praticata in passato o progettata per il futuro, cosicchè il Giudice possa e debba accertare e determinare in via equitativa il relativo risarcimento facendo ricorso alle presunzioni semplici e alla consulenza d’ufficio, con riferimento al cd. danno figurativo e quindi al valore locativo del bene usurpato, tenuto anche conto dell’utilizzo in concreto praticato dall’occupante abusivo".
2. – Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la difformità della decisione impugnata dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di giudicato.
Si lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente interpretato il giudicato della sentenza della stessa Corte d’appello di Bari n. 729/99, non considerando che quest’ultima ebbe ad accertare che l’androne era oggettivamente destinato, per ubicazione e struttura, a dare aria, luce e accesso non soltanto all’immobile dello S., ma anche a quello di proprietà P., e a condannare lo S. a rimuovere il portone in ferro e le altre opere che non consentivano al P. il libero e comodo passaggio ed accesso all’androne. La preclusione di ogni ulteriore accertamento sul punto impediva alla Corte territoriale, nell’ambito della presente causa, di non considerare il danno consistito nella soppressione di tutte le utilità che l’androne oggettivamente forniva al locale del P., ossia l’accesso, l’aria, la luce e ogni altra attività indipendentemente dal fatto che l’androne stesso fosse o meno utilizzato come garage.
3. – Il terzo motivo lamenta l’insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella negazione di qualsiasi risarcimento per l’illegittima privazione della disponibilità dell’androne comune sul presupposto della mancanza di prova di un determinato precedente utilizzo come garage. Sostiene parte ricorrente che è ininfluente il fatto che prima dell’abusiva chiusura da parte dello S. l’androne non fosse adibito a garage, essendo rilevante tale successivo utilizzo ai fini della quantificazione dell’utilità conseguita dallo S. e del corrispettivo depauperamento subito dal P. in termini di valore locativo.
4. – I tre motivi, da esaminare congiuntamente per la loro comune inerenza alla medesima quaestio iuris avente ad oggetto le condizioni di risarcibilità del danno da privazione del godimento di bene comune, sono fondati.
4.1. – La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di affermare più volte che le facoltà di godimento e di disposizione del bene costituiscono contenuto del diritto di proprietà, sicchè tale situazione giuridica viene ad essere pregiudicata per effetto della compressione che quelle facoltà subiscono per effetto di iniziative altrui, dolose o colpose, ingiuste perchè prive di titolo. Ne consegue che, in caso di occupazione senza titolo di un cespite immobiliare altrui, il danno subito dal proprietario è in re ipsa, discendendo dal semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del proprietario medesimo e dall’impossibilità per costui di conseguire l’utilità normalmente ricavabile in relazione alla natura di regola fruttifera di esso (Cass. nn. 1123/98, 1373/99, 649/00, 7692/01, 13630/01, 827/06, 10498/06, 3251/08 e 5568/10).
A conclusioni non diverse deve pervenirsi nell’ipotesi, affatto simile, in cui uno solo dei comproprietari sottragga la cosa comune al godimento degli altri, sì da impedirne l’uso, anche potenziale, agli altri comunisti (cfr. Cass. n. 11486/10).
4.1.1. – Nell’un caso come nell’altro, infatti, le facoltà domenicali risultano compromesse sia per il venir meno di un pregresso godimento del bene, sia per l’impossibilità di trarre dalla res le utilità che la stessa è idonea a produrre in base a calcoli di tipo figurativo, atteso che è risarcibile come "cessante" non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito, ancorchè derivabile da un uso del bene diverso da quello tipico. Tale danno, da ritenersi in re ipsa, ben può essere quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente.
4.2. – L’errore in cui mostra di essere incorsa la Corte territoriale, risiede, appunto, nell’aver escluso, in violazione dell’art. 1223 c.c., il risarcimento dell’uso potenziale, quantunque proprio il caso specifico avesse dimostrato come l’androne fosse stato impiegato dallo S. in maniera oggettivamente lucrativa e diversa da quella originaria, ossia non solo per dare aria e luce ai locali retrostanti, ma anche per consentire il parcheggio di un’autovettura. Ed appare anche intrinsecamente contraddittorio – concretando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – affermare tale irrisarcibilità quando i medesimi fatti accertati dalla Corte barese, con motivazione non censurata (in via incidentale) nel suo iter formativo, predicano che il convenuto ha tratto dal bene proprio quell’utilità aggiuntiva ed economicamente valutabile che è stata negata all’attore.
5. – Con l’unico motivo di ricorso incidentale (da equipararsi, nello specifico, ad un ricorso incidentale condizionato, in base all’orientamento di Cass. S.U. n. 5456/09 e successive conformi) è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 1362 c.c., e segg., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Sostiene il controricorrente che la motivazione della sentenza impugnata, secondo cui nell’interpretare e qualificare la domanda occorre tener conto della situazione dedotta in causa e del provvedimento chiesto in concreto, piuttosto che della formula impiegata dalla parte, violerebbe le norme citate, perchè nella citazione introduttiva del giudizio di primo grado non compaiono le parole "risarcimento del danno" (se non con riferimento ad una domanda subordinata non riproposta in appello), mentre dal medesimo atto emerge testualmente che l’attore agiva per la restituzione (o il pagamento) dei frutti civili dal novembre 1986 (epoca di chiusura dell’androne da parte dello S.) fino all’esecuzione della sentenza. E sempre di frutti civili si parla nella comparsa conclusionale e nella memoria di replica di parte attrice, di guisa che non possono sorgere perplessità in ordine alla natura dell’azione proposta, ai sensi degli artt. 820 e 821 c.c., che doveva essere rigettata non essendovi – come lo stesso giudice di primo grado aveva ritenuto – nessun rapporto di mandato fra le parti che imponesse allo S. di rendere al P. il conto dei frutti percepiti o da percepire.
5.1. – Il motivo è infondato.
E’ fermo indirizzo di questa Corte che in sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziali, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. nn. 20373/08, 14784/07, 14487/07, 16596/05 e 15603/05).
5.1.1. – Nel caso di specie, la Corte territoriale ha affermato, aderendo in parte qua alla soluzione fornita dal giudice di primo grado, che "il potere di interpretazione e qualificazione della domanda da parte del giudice di merito gli (sic!) consente di tenere conto della situazione dedotta in causa e del provvedimento richiesto in concreto, piuttosto che della formula utilizzata dalla parte".
Prosegue la Corte d’appello che nella situazione in esame "la P., quale procuratrice generale del fratello P.A., ha chiesto il risarcimento per la "mancata utilizzazione pro quota dell’androne comune o – in subordine – mancato esercizio del diritto di passaggio pedonale".
E’ evidente, dunque, che nella specie il giudice d’appello ha interpretato ampiezza e contenuto della domanda e che la relativa questione è venuta in rilievo per stabilire se incanalare la decisione di merito in termini risarcitori, indennitari o restitutori. Il relativo accertamento di fatto della Corte territoriale, che ha optato per la prima ipotesi, è sorretto da una motivazione sufficiente, non scalfita nella sua logicità dalla censura della parte controricorrente, se solo si considera che, per le ragioni anzi dette, nulla esclude il ricorso alla categoria dei frutti civili quale tecnica di liquidazione del danno da lucro cessante.
6. – Sulla base delle considerazioni svolte va dunque accolto il ricorso principale, respinto quello incidentale e cassata la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bari, che deciderà il merito attenendosi al seguente principio di diritto:
"in tema di risarcimento del danno da sottrazione delle facoltà dominicali di godimento e disposizione della cosa comune, è risarcibile sotto l’aspetto del lucro cessante non solo il lucro interrotto, ma anche quello impedito nel suo potenziale esplicarsi, ancorchè derivabile da un uso del bene diverso da quello tipico.
Tale danno, da ritenersi in re ipsa, ben può essere quantificato in base ai frutti civili che l’autore della violazione abbia tratto dall’uso esclusivo del bene, imprimendo ad esso una destinazione diversa da quella precedente".
7. – Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta quello incidentale, cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bari, che provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *