Cass. civ. Sez. II, Sent., 07-08-2012, n. 14210

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Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Firenze, con decreto reso pubblico mediante deposito in cancelleria il 23 marzo 2006, ha rigettato l’opposizione promossa da XXX s.p.a. avverso il provvedimento emesso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 11 febbraio 2005, con cui era stato ingiunto sia alla XXX s.p.a. che alla XXX s.p.a. – nella loro qualità di obbligate in solido al pagamento delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate a carico degli esponenti della vecchia XXX s.p.a., per la violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, comma 1, lett. i), art. 56, art. 26, comma 1, art. 28, comma 2, e art. 27 del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998 – il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria complessiva di Euro 634.600,00.
La Corte d’appello ha innanzitutto disatteso il motivo di opposizione con il quale la Banca aveva dedotto l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio per la mancata identificazione dell’ente cui appartenevano gli autori delle violazioni, rilevando che la circostanza dell’avvenuta estinzione della XXX a seguito della incorporazione nella XXX compiutasi il 31 marzo 2003, non poteva avere l’effetto di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 7 operando tale disposizione unicamente con riferimento alle persone fisiche e non anche alle persone giuridiche nè agli obbligati in solido. Doveva, pertanto ritenersi che l’opponente fosse succeduta alla XXX nella responsabilità solidale di quest’ultima.
Il giudice dell’opposizione ha poi rigettato il motivo avente ad oggetto la dedotta violazione della L. n. 689 del 1981, art. 14, ritenendo che il dies a quo del termine di cui al citato art. 14 cominciasse a decorrere solo dal momento in cui la CONSOB aveva avuto a disposizione la relazione ispettiva finale, e rilevando che, comunque, dalla documentazione prodotta dalla Commissione emergeva che essa aveva ritenuto necessario chiedere alla Banca d’Italia specifiche informazioni circa il merito del credito che i singoli intermediari assegnavano alle società coinvolte nelle emissioni; e tale richiesta, ragionevole e opportuna, aveva avuto riscontro il 10 marzo 2004, sicchè era da tale data, coincidente con la conclusione dell’accertamento, che doveva essere fatto decorrere il termine di 90 giorni di cui all’art. 14 citato, nel caso di specie rispettato, atteso che le contestazioni erano state notificate tra l’8 e il 21 maggio 2004.
La Corte d’ appello ha disatteso anche il motivo con il quale l’opponente chiedeva venisse disapplicato il regolamento CONSOB n. 12697 del 2000, nella parte in cui prevedeva che il termine per la conclusione del procedimento decorresse dalla data di scadenza del termine di trenta giorni previsto dalla legge per la presentazione delle deduzioni. In proposito la Corte ha osservato che la norma regolamentare deve rispettare non solo la L. n. 241 del 1990, art. 2, comma 2 ma anche le altre norme giuridiche che disciplinano il procedimento sanzionatorio nel D.Lgs. n. 58 del 1998.
Il giudice dell’opposizione ha disatteso poi al motivo con il quale veniva sostanzialmente denunciato il difetto di motivazione del provvedimento sanzionatorio, essendosi il Ministro limitato a prendere pedissequamente atto e a recepire la proposta della Commissione, ribadendo la legittimità della motivazione del provvedimento per relationem.
La Corte territoriale ha ritenuto infondato anche il motivo con il quale era stata denunciata la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7 per mancata comunicazione dell’avvio di procedimento, osservando che il detto obbligo doveva ritenersi adempiuto con la comunicazione da parte della CONSOB, e che comunque la invalidità del provvedimento sanzionatorio doveva ritenersi insussistente a seguito della entrata in vigore della L. n. 241 del 1990, art. 21- octies introdotto dalla L. 22 febbraio 2005, n. 15, a tenore del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, non essendo dubitabile, nel caso di specie, la natura vincolata del provvedimento sanzionatorio.
La Corte d’appello ha quindi rigettato anche i motivi di opposizione concernenti la asserita illegittimità delle disposizioni violate dagli esponenti aziendali, escludendo che nel caso di specie si fosse verificata violazione del principio di legalità, determinatezza, tipicità e conoscibilità delle fattispecie sanzionate, osservando che in materia di illecito amministrativo non è precluso che i precetti, sufficientemente individuati dalla legge, possano essere eterointegrati da norme regolamentari delegate in virtù del particolare tecnicismo della dimensione in cui le norme secondarie sono destinate ad operare; con l’avvertenza che tanto più deve escludersi la denunciata lesione del principio di determinatezza dell’illecito quanto più si opti per una interpretazione particolarmente rigorosa delle prescrizioni regolamentari integrative.
Nel merito, la Corte ha ritenuto infondate tutte le ragioni fatte valere dalla Banca con l’atto di opposizione con riferimento alle singole contestazioni, nonchè a quella più generale concernente la violazione dei principi in tema di imputazione soggettiva della responsabilità e ai criteri di determinazione delle sanzioni in riferimento ai singoli esponenti aziendali.
In particolare, con riferimento alla violazione dell’art. 21, comma 1, lett. b) del regolamento Consob, la Corte d’appello ha ritenuto irrilevante il fatto che i titoli in questione fossero stati fatti transitare sul portafoglio di proprietà della banca esclusivamente per motivi legati all’impossibilità, per il sistema informatico allora in uso, di gestire la negoziazione per conto terzi per i titoli della specie. In proposito, la Corte toscana ha condiviso l’osservazione della Consob secondo cui l’intermediario che si pone in contropartita diretta con la clientela genera nella medesima l’affidamento circa la propria capacità di attribuire un prezzo al titolo e, quindi, di apprezzare in modo specifico il rischio del relativo investimento; così come era irrilevante l’osservazione che comunque vi era stato un ordine del cliente, il quale doveva quindi aver già maturato la decisione dell’acquisto, atteso che l’affidamento del cliente riguardava la correttezza dell’attribuzione del prezzo. La XXX, poi, non si era dotata delle informazioni disponibili neanche nei giorni immediatamente successivi al alla fase del mercato grigio, ovvero al periodo in cui è stata collocata presso la clientela degli investitori non professionali (retail) la maggior parte dei titoli in questione. Ma era proprio il fatto che le obbligazioni Cirio prive di rating fossero state inserite nel paniere della banca a dimostrare che la procedura consentiva un inserimento di questo tipo.
Con riferimento alla contestazione di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 26, comma 1, lett. e) e dell’art. 56 del regolamento Consob n. 11522 del 1998 (per non avere l’intermediario acquisito una conoscenza degli strumenti finanziari adeguata al tipo di prestazione fornita, ossia alla negoziazione in conto proprio, rendendo così immediatamente disponibili per la clientela emissioni dalle caratteristiche particolari) , la Corte d’appello ha rilevato che i flussi informativi indicati dall’istituto opponente erano del tutto generici e che era dunque mancato ogni serio tentativo di approfondimento specifico sui titoli oggetto di negoziazione, al fine di poter offrire un’adeguata informazione al cliente sulla natura,m sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio.
Quanto all’illecito consistente nella contestata violazione dell’art. 28, comma 2, lett. d), del regolamento Consob n. 11522 del 1998, adottato ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 6 la Corte d’appello ha osservato che la fondatezza della contestazione discendeva, in relazione alle peculiarità della vicenda concreta, dalla fondatezza della precedente contestazione, con la precisazione che doveva escludersi che le due condotte si identificassero, riguardando, l’una, l’omesso apprestamento di una specifica procedura; l’altra, gli specifici comportamenti tenuti nei confronti dei clienti.
Quanto infine alla contestazione concernente la violazione dell’art. 27 del citato regolamento Consob, per non essersi l’intermediario astenuto dall’effettuare operazioni in conflitto di interessi, la Corte ha osservato la circostanza che, in concreto, la violazione delle disposizioni relative al conflitto di interessi non avesse determinato uno specifico pregiudizio alla clientela, era del tutto irrilevante, non avendo peraltro l’opponente contestato, in punto di fatto, il profilo di conflitto derivante dalla partecipazione, da parte di altre società del gruppo, ai consorzi di collocamento.
La Corte d’appello ha poi disatteso anche i motivi con i quali venivano denunciate la violazione dei principi generali in materia di imputazione soggettiva della responsabilità per illecito amministrativo e la inadeguatezza della motivazione in ordine alla determinazione della sanzione con riferimento alla carica sociale rivestita dai singoli esponenti e dipendenti aziendali. In proposito, la Corte territoriale ha osservato che nella nota tecnica allegata alla proposta risultavano esplicitate le ragioni per cui erano state determinate le sanzioni in concreto.
Per la cassazione del decreto della Corte d’appello XXX ha proposto ricorso sulla base di quattordici motivi;
il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la CONSOB hanno resistito con distinti controricorsi.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 190-195;
difetto di motivazione, particolarmente sotto il profilo del travisamento dei fatti, della contraddittorietà e della perplessità; violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 1, 6 e 7 del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 58, nonchè omessa considerazione di circostanze decisive e violazione dei principi in tema di riparto della giurisdizione e separazione dei poteri. La complessa censura si riferisce al mancato accoglimento del motivo di opposizione con il quale il decreto della Corte d’appello era stato impugnato per avere individuato due istituti bancari quali destinatari della ingiunzione di pagamento, laddove gli esponenti aziendali con riferimento alla condotta dei quali la sanzione era stata determinata non rivestivano incarichi, all’epoca dei fatti, nè nella XXX s.p.a., nè nella Nuova XXX s.p.a..
A conclusione del motivo, la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: "Il giudizio di opposizione avverso le ordinanze ingiunzioni per il pagamento delle sanzioni amministrative concerne, innanzitutto, la legittimità formale e sostanziale del provvedimento, con la precisazione che al giudizio di merito dell’infrazione non è dato pervenire quando ricorrano vizi di legittimità in presenza dei quali il giudice deve arrestarsi all’invalidazione del provvedimento: in linea di principio l’ingiunzione non può essere emessa nei confronti di enti diversi da quello cui apparteneva l’autore della violazione al momento della commissione dell’illecito. L’amministrazione deve quindi indicare le ragioni per le quali l’ente solidalmente responsabile per il pagamento della sanzione amministrativa venga identificato in più soggetti, tutti diversi dall’ente cui gli autori dell’illecito appartenevano al momento della violazione. In difetto, il provvedimento è viziato e deve essere annullato. Il Giudice non può sostituirsi all’Amministrazione ed identificare l’ente tenuto al pagamento in solido con i responsabili dell’illecito – nei confronti dei quali è tenuto ad esercitare l’azione di regresso – ed indicare le ragioni per le quali l’ingiunzione si giustifichi nei confronti di coloro verso i quali è stata emessa.
1.2. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha adeguatamente ricostruito le vicende soggettive relative alla successione tra XXX e XXX, rilevando come fosse non controverso che gli esponenti aziendali, le cui condotte erano state oggetto di accertamento e di sanzione, della quale la Banca di appartenenza era solidalmente responsabile, "appartenevano" alla vecchia XXX, alla quale l’opponente era succeduta. Ha quindi escluso che nei rapporti tra persone giuridiche potesse operare la disposizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 7 a norma della quale l’obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione non si trasmette agli eredi.
Tale valutazione è pienamente conforme alla lettera della legge, producendosi l’estinzione della sanzione solo allorquando destinatario della stessa sia una persona fisica, e non anche nel caso in l’effetto estintivo riguardi una società per effetto di incorporazione in altra, come si è reputato avvenisse prima della entrata in vigore della riforma del diritto societario recata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, in vigore dal 1 gennaio 2004.
Il motivo muove quindi dalla erronea premessa che la estinzione dell’istituto bancario al quale appartenevano gli esponenti aziendali cui erano stati contestati gli illeciti, con conseguente responsabilità solidale dell’istituto, abbia determinato l’estinzione di tale obbligazione solidale. Al contrario, la obbligazione solidale non si estingue con la estinzione dell’istituto, ma si trasferisce, come esattamente ritenuto dalla Corte d’appello, all’istituto di credito che succede nei rapporti giuridici di quello estinto.
Del resto, l’obbligazione solidale degli istituti di credito, come affermato da questa Corte, rientra a pieno titolo nelle passività dell’istituto nelle quali subentra il cessionario ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58 (Cass. n. 22199 del 2010).
Nè la responsabilità solidale della opponente può ritenersi esclusa per il fatto che nel provvedimento impugnato fosse indicato anche un diverso istituto quale obbligato in solido, atteso che, sulle base degli elementi di fatto accertati dalla Corte d’appello, e sostanzialmente ammessi dalla opponente (condotte di esponenti aziendali appartenenti alla Vecchia XXX tenute tra il 1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2002; incorporazione, con decorrenza dal 31 marzo 2003, della XXX in XXX; contestazioni effettuate nel periodo successivo alla incorporazione), correttamente si è affermata la riconducibilità della condotta degli esponenti aziendali appartenenti all’istituto incorporato all’istituto incorporante.
Alcuna violazione o compressione del diritto di difesa dell’opponente è poi ravvisabile nella specie, atteso che alla stessa sono state effettuate le contestazioni e le notificazioni prescritte e che è stata proposta tempestiva opposizione. Così come la indicazione di un altro soggetto nell’ordinanza ingiunzione non appare idonea ad arrecare alcun pregiudizio all’esercizio dell’azione di regresso, una volta che l’obbligato solidale abbia pagato la sanzione.
Da ultimo, risulta conforme alla giurisprudenza di questa Corte l’affermazione secondo cui il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice (in tal senso, v. Cass., S.U., n. 1786 del 2010).
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 14 dell’art. 24 Cost., del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, del giusto procedimento e del contraddittorio, nonchè omessa considerazione di circostanze decisive, censurando il decreto impugnato laddove ha ritenuto non violato il termine entro il quale avrebbe dovuto essere effettuata la contestazione al trasgressore, escludendo che si potesse fare riferimento a tali fini alla semplice conclusione dell’attività degli ispettori, in considerazione della complessità della vicenda, dell’ampiezza dell’indagine compiuta nei confronti di tutte le banche interessate alla distribuzione sul mercato dei titoli Cirio, dello svolgimento di ulteriori accertamenti per il completamento dell’istruttoria.
In proposito la ricorrente osserva che la stessa difesa delle amministrazioni intimate aveva ammesso il superamento del termine di cui all’art. 14 citato, essendo l’accertamento completo alla data del 12 gennaio 2004 ed essendo la contestazione stata formulata solo il 30 aprile 2004, oltre il termine di 90 giorni di cui all’art. 14.
Prosegue la ricorrente, la necessità di richiedere ulteriori accertamenti alla Banca d’Italia riguardava solo alcune delle fattispecie di illecito oggetto dell’accertamento.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: "Il termine di decadenza per la contestazione della violazione decorre dal momento in cui la notizia dei fatti costitutivi dell’illecito entra obiettivamente nella sfera della disponibilità degli organi accertatori, indipendentemente dal fatto che questi vi riscontrino o meno immediatamente gli estremi dell’illiceità; quando la contestazione riguardi più illeciti, il termine decorre, per ciascun illecito in modo autonomo, e non può essere identificato in un momento del quale l’autore dell’illecito non possa avere preventivamente conoscenza: la decorrenza del termine di decadenza del potere sanzionatorio amministrativo non può essere rimessa ad un accertamento a posteriori caso per caso".
2.1. Il motivo è infondato.
In tema di sanzioni amministrative, il giudice dell’opposizione, dinanzi al quale sia stata eccepita la tardività della notificazione degli estremi della violazione, nell’individuare la data dell’esito del procedimento di accertamento di più violazioni connesse dalla quale decorre – ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, secondo 2, – il termine di novanta o trecentosessanta giorni, deve valutare il complesso degli accertamenti compiuti dalla amministrazione procedente e la congruità del tempo complessivamente impiegato in relazione alla complessità degli accertamenti compiuti, anche in vista dell’emissione di un’unica ordinanza ingiunzione per violazioni connesse, ma non può sostituirsi alla stessa amministrazione nel valutare l’opportunità di atti istruttori collegati ad altri e compiuti senza apprezzabile intervallo temporale (Cass. n. 16642 del 2005).
Dalla normativa applicabile nel caso di specie risulta, chiaramente ed univocamente, che il termine prescritto – per la notifica degli estremi della violazione, che non sia stata contestata immediatamente – decorre "dall’accertamento" e che questo non coincide (come si ricava agevolmente dalla stessa L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 13 cit.) nè con la data di consumazione della violazione (che, segna, invece, il dies a quo della prescrizione del credito sanzionatorio ai sensi dell’art. 28 della stessa legge), nè con la mera percezione del fatto, ma – secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine per tutte, le sentenze n. 7346, n. 7710, n. 3115 del 2004, n. 18347, n. 12654 del 2003, n. 10355, n. 6531 del 2000) – con il compimento di tutte le indagini volte ad acquisire la piena conoscenza dei fatti e della determinazione della sanzione – che siano ritenute necessarie – da parte degli "organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa" – inflitta nel caso concreto – oppure degli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria.
La valutazione circa la tempestività della notifica degli estremi della violazione – in relazione all’"accertamento" dell’organo addetto al controllo – è riservata al giudice di merito (vedi, per tutte, Cass. n. 7710 del 2004, cit.) e, come tale, può essere sindacata, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5).
Orbene, nel caso di specie, la Corte d’appello ha adeguatamente dato conto delle ragioni che la hanno indotta a ritenere tempestiva la contestazione dell’illecito, evidenziando come il termine di novanta giorni dovesse decorrere non dalla data indicata dall’opponente, ma dal momento in cui la CONSOB aveva avuto la risposta alla richiesta di accertamenti integrativi alla Banca d’Italia e di specifiche informazioni circa il merito del credito che i singoli intermediari assegnavano alle società coinvolte nelle emissioni. Nè, come già rilevato, è ipotizzatile un sindacato di legittimità in ordine alla opportunità o meno dello svolgimento di accertamenti integrativi.
3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 13 nonchè omesso esame di una circostanza decisiva, rilevando che la Corte d’appello avrebbe errato nel non dichiarare la illegittimità del procedimento sanzionatorio per non essere stato rispettato il termine stabilito per il suo compimento dal regolamento CONSOB n. 12697 del 2000, in attuazione di quanto stabilito dalla L. n. 241 del 1990, art. 2;
disciplina regolamentare che peraltro avrebbe dovuto essere disapplicata atteso che prevede la decorrenza del termine per la contestazione da un momento diverso da quello indicato dalla norma primaria.
A conclusione del motivo, la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: Il momento iniziale del procedimento, ai sensi della L. n. 241 del 1990, non può essere determinato dalle singole amministrazioni in un momento diverso dall’inizio effettivo: nel procedimento sanzionatorio ex art. 195 TUF, il procedimento inizia d’ufficio con l’avvio della fase di valutazione del materiale acquisito in istruttoria, per la formulazione delle contestazioni: il superamento del termine finale fissato dalla legge, o dai regolamenti delle singole amministrazioni, determina l’illegittimità del provvedimento amministrativo".
3.1. Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, nel procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative previste in tema di intermediazione finanziaria, disciplinato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 195 il termine di centottanta giorni per la formulazione da parte della Consob della proposta sanzionatoria, stabilito dal regolamento Consob n. 12697 del 2000, non ha natura perentoria nè l’emissione della proposta sanzionatoria oltre il predetto termine presenta per questo solo fatto, profili di illegittimità, attesa la inidoneità del regolamento interno a modificare le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla L. n. 689 del 1981 (Cass. n. 4873 del 2007; Cass. n. 22199 del 2010).
D’altra parte, le Sezioni Unite di questa Corte hanno anche avuto modo di chiarire che la previsione dei termini di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2 non è compatibile con le disposizioni sul procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative dettate dalla L. 24 novembre 1981, n. 689 (Cass. n. 9591 del 2006). Di recente si è poi affermato che in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, per effetto dell’entrata in vigore della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies, comma 2, gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 25 che si svolge innanzi alla Commissione nazionale per le società e la borsa o al Ministero, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto; tale disposizione, introdotta dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14 ha carattere processuale, ed è pertanto applicabile con effetto retroattivo anche ai giudizi di opposizione in corso, ancorchè promossi in epoca successiva alla sua emanazione (Cass., S.U., n. 20929 del 2009, nella quale si è anche precisato che la delicata questione del mancato rispetto dei termini di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2 oggetto di contrasto nella giurisprudenza di legittimità, deve essere risolta – al di là ed a prescindere dalla questione della natura perentoria, ordinatoria, acceleratoria ovvero sollecitatoria del termine in parola – sulla base di quanto disposto dall’art. 21- octies, inserito nel corpus normativo della L. n. 241 del 1990, così come introdotto dalla legge n. 15 del 2005).
Per effetto di tale innovativa disposizione, gli eventuali vizi del procedimento non sono, nella specie, rilevanti, in quanto risulta palese tanto la natura vincolata del provvedimento impugnato quanto la immodificabilità del relativo contenuto (cfr. Cass. n. 24784 del 2010, anche sulla portata retroattiva dello ius superveniens e Cass. n. 7777 del 2011.
4. Con il quarto motivo, XXX deduce violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3 in combinato disposto con l’art. 195 del TUF; difetto di motivazione autonoma del decreto ministeriale opposto e conseguente ingiustizia del procedimento. Sul rilievo che il decreto ministeriale si sarebbe limitato a prendere atto della proposta di irrogazione della sanzione senza svolgere alcuna autonoma motivazione, come del resto dimostrato dalla mancata individuazione dell’ente responsabile in solido, la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: Non può essere considerato correttamente motivato per relationem il provvedimento che non risolva o problemi lasciati aperti negli atti cui fa rinvio (nella specie, l’identificazione delle ragioni dell’identificazione dell’ente responsabile in solido per il pagamento.
4.1. Il motivo è infondato, alla luce del duplice rilievo che, da un lato, è pienamente legittima la motivazione per relationem e, dall’altro, che nel giudizio di opposizione nessuna concreta rilevanza sono destinati ad assumere gli eventuali vizi inerenti la sola motivazione dei provvedimenti ex art. 195 TUF alla luce della natura e dell’oggetto del giudizio di opposizione, in seno al quale il sindacato del giudice (destinato ad estendersi all’intero rapporto sanzionatorio) abbraccia la stessa validità sostanziale del provvedimento impugnato attraverso un autonomo esame dei presupposti di fatto e di diritto dell’illecito contestato (Cass. S.U., n. 20930 del 2009; in generale, con riferimento all’ordinanza-ingiunzione L. n. 689 del 1981, ex art. 18 Cass., S.U., n. 1786 del 2010).
5. Con il quinto motivo la Banca ricorrente denuncia violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7 e del D.M. 23 marzo 1992, n. 304, artt. 2, 4 e 5 per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento relativo alla fase decidente da parte del Ministero dell’Economia, che deve escludersi possa essere sostituita dalla contestazione effettuata dalla CONSOB, stante la indiscussa autonomia delle due fasi procedimentali.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: La violazione delle norme sul procedimento amministrativo dinnanzi al Ministero e/o la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento della fase di valutazione della proposta sanzionatoria della CONSOB da parte del Ministero comportano l’illegittimità del decreto emesso?.
5.1. Il motivo è infondato, trovando applicazione il principio per cui nei procedimenti per la irrogazione di sanzioni amministrative, disciplinati dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, non trovano applicazione le disposizioni sulla partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo di cui alla L. 7 agosto 1990, n. 241, artt. 7 e 8 le quali configurano una normativa generale su cui prevale la legge speciale, in quanto idonea ad assicurare garanzie di partecipazione non inferiori al minimum prescritto dall’anzidetta normativa generale (Cass. n. 14104 del 2010).
6. Con il sesto motivo la Banca deduce violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies e omesso esame di circostanze decisive, sostenendo che nel procedimento sanzionatorio in questione la citata disposizione non sarebbe applicabile, difettandone i presupposti che i vizi sussistano; che il provvedimento abbia natura vincolata; che sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso.
In particolare la ricorrente contesta che il provvedimento emesso all’esito del procedimento sanzionatorio abbia natura vincolata e formula il seguente quesito di diritto: la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21 octies non può essere applicato nel procedimento sanzionatorio sia perchè il provvedimento di applicazione delle sanzioni non ha "natura vincolata" (sia nell’an che nel quantum), sia perchè il provvedimento adottato esaurisce il potere dell’amministrazione, che non potrebbe nuovamente esercitarlo dopo l’annullamento, per decorrenza dei termini decadenziali.
6.1. Il motivo è infondato per le medesime ragioni già illustrare in relazione al secondo motivo, e trovando applicazione il già richiamato principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20929 del 2009.
7. Con il settimo motivo, la ricorrente denuncia violazione del principio di legalità, determinatezza e tipicità, conoscibilità delle fattispecie sanzionatorie (anche amministrative); violazione della L. n. 689 del 1981, art. 1 e dell’art. 56 del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998, nonchè contraddittorietà della motivazione.
La ricorrente rileva che il rispetto del principio di legalità può essere assicurato soltanto se ai concetti elastici si accompagna una interpretazione della normativa, primaria e secondaria, coerente con la possibilità di consentire al singolo imprenditore di valutare preventivamente la rispondenza del suo comportamento al dettato normativo; risultato questo che si può ottenere soltanto se la valutazione di idoneità o adeguatezza delle procedure viene ancorata a dati concreti e cioè al raggiungimento dell’obiettivo perseguito dal legislatore, sicchè se lo scopo è stato conseguito, non sarebbe possibile negare l’idoneità o l’adeguatezza dell’organizzazione dell’impresa.
La ricorrente formula quindi il seguente quesito di diritto: La verifica della rispondenza delle scelte dell’imprenditore a precetti normativi che rinviino a clausole generali deve essere ancorata alla verifica del raggiungimento dell’obiettivo perseguito dal legislatore: nella specie, l’idoneità o l’adeguatezza delle procedure adottate deve essere verificata con riferimento agli effetti concreti nei confronti della clientela: il parametro normativo costituito dalla clausola generale intanto può essere applicato in modo coerente con i principi costituzionali, in quanto l’indeterminatezza connaturale ad ogni clausola generale venga mitigata da un parametro applicativo saldamente ancorato al caso concreto : alla verifica cioè sperimentale degli effetti delle procedure adottate sulla clientela della banca: non può essere considerata inidonea una procedura la cui applicazione non abbia dato luogo ad inconvenienti verificati in concreto.
7.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha fatto applicazione del principio secondo cui la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 nel sancire per le sanzioni amministrative una riserva di legge analoga, ma non del tutto corrispondente, a quella di cui all’art. 25 Cost., impedisce che tali sanzioni siano comminate direttamente mediante disposizioni di fonti normative secondarie, ma non esclude, viceversa, che i precetti sufficientemente individuati dalla legge siano eterointegrati da norme regolamentari delegate, in virtù del particolare tecnicismo della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare. A tale modello si uniformano tanto il D.Lgs. 23 luglio 1996, n. 415, art. 43 quanto il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 190 i quali, in tema di servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari e di intermediazione finanziaria, prevedono, nei confronti di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione presso imprese d’investimento, banche o altri soggetti abilitati nonchè nei confronti dei relativi dipendenti, la comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria (da lire un milione a lire cinquanta milioni) per l’inosservanza, tra l’altro, delle "disposizioni generali o particolari impartite dalla CONSOB o dalla Banca d’Italia", una tale previsione non essendo qualificabile come norma punitiva "in bianco", nè comportando alcuna indeterminatezza del precetto. Relativamente alle disposizioni dei citati decreti delegati, è pertanto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli artt. 23 e 25 Cost., essendo tra l’altro questo secondo parametro non conferente in materia di illecito amministrativo (Cass. n. 17602 del 2003).
Deve comunque rilevarsi, quanto alla denunciata violazione del principio di legalità, come nessuna violazione risulti, nella specie, seriamente predicabile in relazione alla vicenda sanzionatoria oggetto del giudizio (essendo riconducibili le sanzioni amministrative non alle norme di cui agli artt. 25 e 27 Cost., afferenti alle sanzioni penali, quanto piuttosto a quelle di cui agli artt. 23 e 97 della Carta fondamentale: Corte cost. n. 245 del 2003;
n. 250 del 1992; n. 447 del 1988), atteso che la tipicità dei procedimenti amministrativi sanziona tori (sancita, in linea generale, per tutti gli illeciti amministrativi, dalla legge fondamentale del 1981) deve ritenersi del tutto legittimamente derogabile in presenza di disposizioni di pari forza e grado, quali certamente risultano le norme dettate in tema di intermediazione finanziaria, creditizia e bancaria, segnatamente il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 190 contenente una evidente (sia pur parziale), legittima, motivata deroga alla lex generalis di cui all’art. 1, della normativa del 1981, attribuendo all’autorità di vigilanza la facoltà di integrare la disciplina sanzionatoria legale con l’adozione di provvedimenti di natura regolamentare.
Come hanno in proposito rilevato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 20933 del 2009), al di là ed a prescindere dalla questione se, attraverso il meccanismo del regolamento "delegato" o "autorizzato" si realizzi un fenomeno di delegificazione della materia, ovvero si possa (più propriamente) opinare che la disposizione regolamentare assurga a rango di norma primaria per effetto del "trascinamento di forza" operato dalla legge delega, è indubitabile come la fonte incriminatrice punitiva possa e debba essere ricercata, nella specie, anche nelle disposizioni regolamentari per essere ciò consentito da espressa disposizione di una legge speciale la quale, ratione temporis atque materiae, risulta evidentemente (quanto legittimamente) derogatoria (a far tempo già dal procedimento di contestazione delle violazioni) rispetto alla lex (prior) generalis.
Quanto al principio di tassatività (del quale si assume la violazione per presunta illegittimità di una contestazione di inosservanza di disposizioni limitate a dettare linee di indirizzo secondo principi generali e di massima, così lasciando – nella sostanza – affatto indeterminate le condotte prescritte o vietate), nel decreto impugnato si è rilevato come la genericità della previsione normativa risulti, nella specie, legittimamente integrata dalla motivazione – rigorosa, specifica, esauriente – del provvedimento irrogativo della sanzione; e, deve qui soggiungersi, concorre in tal senso anche la motivazione del decreto del giudice dell’opposizione (restando in tal modo del tutto assicurato e garantito all’incolpato il più ampio e incondizionato diritto di difesa ex art. 24 Cost.). L’invocato principio di tassatività, non riconducibile all’art. 25 Cost., del resto, non è destinato ad operare con la medesima intensità nella sfera dell’illecito amministrativo e in quella del reato penale, specie in una materia contraddistinta da specifiche e per certi versi uniche peculiarità – quale l’intermediazione finanziaria, ove si configurano condotte e comportamenti in i-potesi contrarie all’interesse dei risparmiatori e del mercato, di talchè in alcun modo e sotto alcun profilo è lecito discorrere di norme sanzionatorie "in bianco", essendo i poteri regolamentari della Consob rigorosamente individuati ex ante secondo principi e direttive contenute in fonti primarie, onde la relativa portata precettiva si sostanzia in una analitica specificazione di contenuti già sufficientemente delineati dalla legge (Cass., S.U., n. 20933, cit. e sentenze ivi richiamate).
Esaminando le prescrizioni poste dall’art. 56 del regolamento Consob n. 11522 del 1998, la Corte d’appello ha poi osservato che le indicazioni offerte dal legislatore erano sufficientemente specifiche, e legittimamente affidate a clausole generali, rispetto alle quali deve seguirsi un criterio interpretativo particolarmente rigoroso. E a tale criterio la Corte d’appello di è attenuta, valutando le condotte contestate non in astratto ma con riferimento alle specificità del caso, nel quale venivano in rilievo i profili organizzativi e procedurali adottati dall’Istituto opponente con riferimento alle operazioni oggetto di contestazione. E dal punto di vista della idoneità dell’organizzazione e delle procedure la valutazione correttamente è stata effettuata dalla Corte d’appello avendo riguardo al piano della predisposizione delle regole interne e della loro idoneità ad assicurare il perseguimento delle finalità previste dalla legge e dalle prescrizioni regolamentari.
Appare dunque evidente come le deduzioni della ricorrente, (proposte sotto il profilo della violazione di legge, siano infondate, non avendo la Corte d’appello utilizzato criteri interpretativi diversi da quelli imposti dalla particolare configurazione degli illeciti amministrativi nella materia della intermediazione finanziaria. Così come insussistente si appalesa la dedotta contraddittorietà della motivazione.
8. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia illegittimità dell’art. 56 del regolamento Consob n. 11522 del 1998; illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 per violazione degli artt. 3, 24 e 25 Cost..
Ad avviso della ricorrente, ove non interpretato nel senso prima indicato, l’art. 56 non potrebbe sorreggere una procedura sanzionatoria, difettando in esso i più elementari connotati di tassatività e determinatezza; in ogni caso il potere regolamentare integrativo trova il suo netto limite nel fatto che sia la legge a stabilire criteri idonei e riconoscibili e a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla pubblica amministrazione, dovendosi escludere che possa essere un parametro di raffronto semplicemente l’esito finale negativo di alcune vicende.
In particolare, sostiene la ricorrente, la novità del fenomeno del mancato rimborso di obbligazioni di importanti aziende avrebbe messo in evidenza insufficienze obbiettive complessive del sistema, mai rilevate prima dall’organo di vigilanza, e avrebbe portato la Consob ad elaborare successivamente una serie di meccanismi procedurali e di regole di comportamento di fatto in precedenza mai richiesti o definiti nella lettura attuativa e interpretativa degli artt. 21 e 56 del regolamento.
Nè, prosegue la ricorrente, potrebbe sostenersi che l’indeterminatezza del precetto contenuto nella clausola generale sarebbe temperata dalla possibilità di fare riferimento a modi di comportamento condivisi dagli operatori e dal mercato, essendo sufficiente rilevare che proprio la vicenda dei bond Cirio ha visto contestare a tutte le banche le stesse violazioni: segno questo che il modulo organizzativo cui la Consob ha fatto riferimento non poteva essere in alcun modo considerato come un modulo consapevolmente condiviso da tutti gli operatori del settore.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito:
il tema interpretativo ed il principio di diritto, formulati nei quesiti a conclusione dei motivi che precedono, devono essere affermati occorrendo, previa questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21 per violazione degli artt. 3, 24 e 25 Cost..
8.1. Le argomentazioni svolte in relazione al motivo che precede consentono di ritenere manifestamente infondata la eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dalla ricorrente con l’ottavo motivo di ricorso.
9. Con il nono motivo – rubricato violazione del principio di legalità, determinatezza e tipicità, conoscibilità, delle fattispecie sanzionatorie (anche amministrative); violazione della L. n. 689 del 1981, art. 1; violazione falsa applicazione dell’art. 56 del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998 – la ricorrente lamenta che nè la Corte d’appello nè la Consob abbiano tenuto conto delle modifiche apportate al citato art. 56 nel quale, solo dall’agosto del 2002, l’espressione "assicurare l’ordinata e corretta prestazione dei servizi", da elemento definitorio del concetto di "procedura interna", è diventato un obiettivo prescrittivamente imposto dalla norma all’attività organizzativa delle società di intermediazione, sicchè solo con le modificazioni successive è stata impostata la possibilità di sanzionare gli effetti negativi sull’ordinata e corretta prestazione dei servizi, e dunque sulla clientela, della rilevata assenza di alcune procedure interne.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: il provvedimento sanzionatorio non può fondarsi su norme regolamentari emanate dopo i fatti e comunque carenti di determinatezza e tassativita, tanto da tradursi in aperta violazione della L. 689 del 1981, art. 1 oltre che dei principi costituzionali richiamati nel motivo precedente.
9.1. Il motivo è infondato.
Valgono in proposito le ragioni già esposte in sede di esame del settimo motivo, per i profili attinenti alla denunciata violazione dei principi di legalità, determinatezza e tipicità, conoscibilità, delle fattispecie sanzionatorie. Quanto alla interpretazione della modifica introdotta nell’art. 56 del regolamento n. 11522 del 1998 ad opera della Delib. n. 13710 del 2002, approvata nell’agosto 2002, occorre rilevare che la Corte d’appello ha ritenuto che la previsione sanzionatoria contenuta nell’art. 56 prima della sua modificazione fosse del tutto immune da profili di illegittimità quanto ai divisati profili di indeterminatezza del precetto; ha quindi ritenuto sostanzialmente irrilevante, ai fini della integrazione dell’illecito contestato, la modificazione apportata nell’agosto 2002. La censura proposta dalla ricorrente non coglie dunque la ratio decidendi sottostante alla decisione impugnata.
Si deve solo aggiungere che la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 29033 del 2009, esaminando la questione della incidenza retroattiva della modifica introdotta dalla delibera del 2002 nel testo dell’art. 56, ha ritenuto che le motivazioni in quella occasione addotte dalla Corte d’appello di Milano resistessero ad una censura analoga a quella oggi proposta dalla ricorrente. Si legge invero che del tutto condivisibilmente, pertanto, la Corte territoriale ha escluso che le modifiche apportate dalla Consob nel 2002 con riferimento "agli strumenti" oltre che "all’insieme di disposizioni interne" abbia in alcun modo innovato, modificandoli nella tipologia e nella connotazione, i requisiti necessari al raggiungimento dell’obbiettivo di un "efficiente svolgimento dei servizi" volto ad assicurarne la relativa "ordinata e corretta prestazione".
10. Con il decimo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 114, 115 e 116 cod. proc. civ., omesso esame di punti di fatto e circostanze decisive, violazione dell’art. 56 del regolamento e travisamento dei fatti, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto l’inadeguatezza delle procedure sul presupposto che la XXX avesse venduto alla propria clientela i titoli Cirio, privi di rating, nell’esercizio di un’attività di negoziazione in conto proprio, laddove la circostanza che la Banca fosse in contropartita diretta con gli investitori non era di per sè indice inequivoco del fatto che l’operazione fosse stata svolta nell’esercizio dell’attività di negoziazione per conto proprio.
Del resto, prosegue la ricorrente, il paniere dei titoli offerti dalla Banca alla clientela, nell’esercizio dell’attività di negoziazione impropria, non comprendeva i titoli Cirio, che erano stati acquistati solo per soddisfare quella clientela, particolarmente qualificata, che ne aveva fatto esplicita richiesta.
Sottolinea ancora la ricorrente che la valutazione di adeguatezza delle procedure organizzative deve essere fatta con riferimento all’organizzazione dell’azienda bancaria, sicchè il provvedimento impugnato sarebbe carente per non aver effettuato un raffronto quantitativo tra i titoli Cirio intermediati e l’insieme dell’attività di intermediazione titoli della Banca: accertamento questo che avrebbe consentito di comprendere che il fenomeno aveva caratteristiche del tutto marginali e tali da non giustificare l’impostazione di procedure specifiche.
Con specifico riferimento al conflitto di interesse la ricorrente sostiene che detto conflitto non esisteva e formula conclusivamente il seguente quesito: il giudice di merito deve pronunciarsi al fine di verificare, sulla base delle effettive circostanze di fatto che emergono dal materiale istruttorio acquisito agli atti, la sussistenza, nel merito, delle violazioni contestate alla ricorrente particolarmente in punto di differenza fra le procedure previste per l’attività di negoziazione in conto proprio e l’attività di negoziazione in conto terzi, sotto il profilo della adeguatezza dell’informazione fornita alla clientela, in punto di valutazione concreta dei conflitti di interesse ed in punto d’idoneità delle procedure per la tutela degli interessi della clientela.
10.1. Il motivo è infondato.
Il motivo, così come articolato, pur lamentando formalmente una violazione di legge sotto profili comunque motivazionali, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. I ricorrenti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza gravata rilevante sotto il profilo di cui all’art. 111 Cost., e all’art. 360 c.p.c., n. 4, si volgono in realtà ad invocare, puntigliosamente, una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte di merito, muovendo così all’impugnato provvedimento censure invero irricevibili in questa sede perchè la valutazione delle risultanze probatorie (non meno che il giudizio sul contenuto di atti e documenti), al pari della scelta, fra esse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e ipoteticamente verosimili), non incontra altro limite (ampiamente rispettato, nel caso di specie) che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare ogni e qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 cod. proc. civ. , non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla Corte di cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico/formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice del merito, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove ed. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).
La ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione del decreto impugnato, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita una nuova valutazione delle risultanze fattuali del processo ad opera di questa Corte, onde trasformare surrettiziamente il giudizio di cassazione in un nuovo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata (quasi che la fungibilità nella ricostruzione di un fatto fosse ancora legittimamente predicabile in seno al giudizio di cassazione).
11. Con l’undicesimo motivo la ricorrente, lamentando violazione di legge e del principio di specialità delle sanzioni amministrative, travisamento dei fatti, omesso esame di circostanze decisive, si duole dell’applicazione della sanzione per una condotta con riferimento a due diverse disposizioni, essendo evidente che il non aver acquisito una conoscenza degli strumenti finanziari adeguati al tipo di prestazione da fornire e non aver effettuato le operazioni se non dopo aver fornito agli investitori informazioni adeguate, non costituiscono condotte diverse ma solo l’effetto, se provato, della medesima carenza procedurale.
La ricorrente chiede di affermare il principio che il giudice di merito deve pronunciarsi al fine di verificare se le violazioni contestate siano in realtà tutte comprese nella pretesa violazione dell’art. 56 del regolamento (i difetti nella circolazione dell’informazione all’interno dell’azienda e nei confronti della clientela costituiscono conseguenza dell’idoneità generale delle procedure).
11.1. Il motivo è infondato.
Esso muove da una premessa – quella secondo cui la contestazione di non aver effettuato le operazioni se non dopo aver fornito agli investitori informazioni adeguate implichi necessariamente la contestazione della omessa acquisizione di una conoscenza degli strumenti finanziari adeguata al tipo di prestazione da fornire – non condivisibile, essendo evidente che le due disposizioni hanno finalità diverse e che la inadeguata informazione all’investitore ben può, come comportamento concreto, dipendere da una condotta specifica del singolo operatore. Si tratta, in sostanza, di precetti concettualmente distinti, volti a tutelare il bene della consapevolezza dell’investitore sulle scelte di investimento in diverse proiezioni, prescrivendo distinti obblighi, alla violazione dei quali consegue l’applicazione della sanzione.
Correttamente, dunque, la Corte d’appello ha escluso che le condotte contestate ai punti 2 e 3 della ingiunzione si identifichino, riguardando, l’una, l’omesso apprestamento di una specifica procedura e, l’altra, gli specifici comportamenti tenuti nei confronti dei clienti.
Non appare dunque invocato in modo pertinente il principio di specialità di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 9 – a tenore del quale quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica in ogni caso la disposizione penale -, dovendosi qui ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte si è chiarito che in tema di sanzioni amministrative, la L. 689 del 1981, art. 9 prevede come presupposto esplicito di applicazione del principio di specialità che le disposizioni punitive si riferiscano allo "stesso fatto", nel senso che la fattispecie prevista nella disciplina generale deve essere compresa in quella speciale (che contiene un elemento ulteriore rispetto alla prima, così che, ove non fosse prevista la disposizione speciale, la fattispecie rientrerebbe nella disposizione generale) (Cass. n. 1299 del 2008).
Il principio di specialità, peraltro, in tanto opera in quanto le norme sanzionanti un medesimo fatto si trovino fra loro in rapporto di specialità, che deve essere escluso quando sia diversa l’obiettività giuridica degli interessi protetti dalle due norme.
12. Con il dodicesimo motivo – rubricato violazione dei principi generali in tema di imputazione soggettiva della responsabilità per illecito amministrativo; difetto di motivazione delle determinazioni sanzionatorie nella parte in cui riconducono la quantificazione delle sanzioni alla carica sociale rivestita, non distinguendo sufficientemente in rapporto alle funzioni effettivamente svolte e al periodo di permanenza in carica di ciascun esponente aziendale – la ricorrente sostiene che la Corte d’appello si sarebbe sul punto totalmente rimessa alle valutazioni della Consob, anche se il provvedimento sanzionatorio era viziato proprio nella parte in cui non specificava adeguatamente il criterio di imputabilità delle violazioni ascritte, e dunque la responsabilità, che la legge vuole strettamente personale, dei diversi soggetti.
Ad avviso della ricorrente, la formula tenuto conto della carica rivestita dall’esponente in esame e della sua permanenza in carica sarebbe troppo generica e quindi inidonea a soddisfare il canone del carattere strettamente personale delle responsabilità contestate; e ciò tanto più che agli organi di vertice è stato imputato il mancato intervento per eliminare quelle che, ove esistenti, non sarebbero altro che carenze di dettaglio, ad elevato tasso di tecnicismo, rilevabili solo ed esclusivamente da soggetti dotati di particolari cognizioni tecniche, ed essendo pacifico che gli organi di vertice non avevano mai adottato delibere o altri provvedimenti relativi ai bond Cirio; non avevano attuato politiche gestionali per la promozione diretta o indiretta delle emissioni di tali titoli; e non avevano neanche fatto partecipare la Banca a consorzi di collocamento, nè si erano in qualsiasi modo interessati dei titoli obbligazionari Cirio.
A conclusione del motivo, la ricorrente formula quindi il seguente quesito di diritto: il giudice di merito deve pronunciarsi al fine di verificare la correttezza del procedimento di determinazione della misura della sanzione, in relazione non solo alla carica sociale rivestita, ma distinguendo in relazione alla funzione in concreto svolta da ciascuno degli incolpati e al periodo di permanenza in carica di ciascuno di loro.
12.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha rilevato che nella nota tecnica della Consob, della quale ovviamente la ricorrente è stata posta a conoscenza, risultavano espresse le condivisibili ragioni che hanno indotto a formulare per ogni esponente una determinata misura della sanzione.
La Corte territoriale ha altresì precisato che le deduzioni dell’opponente – assai simili a quelle svolte nel presente motivo (v.
pagg. 23-26 del provvedimento impugnato) – non potevano essere accolte in quanto nella nota tecnica si faceva notare che le lacune riscontrate avevano carattere procedurale o dipendevano, comunque, in concreto, da lacune di carattere procedurale e che pertanto esse erano state imputate anche ai vertici della Banca.
Orbene, trattasi di affermazioni che non risultano validamente contrastate dal motivo di ricorso in esame, atteso che con esso la ricorrente non dimostra che la nota tecnica allegata alla proposta non contenesse in realtà specificazioni riguardanti le singole posizioni prese in considerazione ai fini dell’accertamento della violazione e della commisurazione della sanzione; nè può revocarsi in dubbio che le lacune riscontrate avessero carattere procedurale.
Con particolare riferimento alla posizione di componenti del consiglio di amministrazione, si deve poi ricordare che nella citata sentenza n. 20933 del 2009, le Sezioni Unite di questa Corte hanno disatteso censure analoghe, osservando che in tema di obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione di una società di capitali, questo non viene meno neppure nell’ipotesi di attribuzioni assegnate espressamente al comitato esecutivo o ad uno (ovvero ad alcuni soltanto) dei componenti del consiglio di amministrazione:
poichè la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 6 prevede la responsabilità solidale di chi viola il dovere di vigilanza, salvo che non provi di non aver potuto impedire il fatto, il componente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, chiamato a rispondere come coobbligato solidale per omissione di vigilanza, non può sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da altro soggetto che aveva agito per conto della società.
Quanto ai componenti del collegio sindacale, nella coeva decisione delle stesse Sezioni Unite n. 20934 del 2009, si è affermato che ®in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, la complessa articolazione della struttura organizzativa della banca non può comportare l’esclusione od anche il semplice affievolimento del potere-dovere di controllo riconducibile a ciascuno dei componenti del collegio sindacale, i quali, in caso di accertate carenze delle procedure aziendali predisposte per la prestazione del servizio di negoziazione, sono sanzionabili a titolo di concorso omissivo quoad functione, gravando sui sindaci, da un lato, l’obbligo di vigilanza – in funzione non soltanto della salvaguardia degli interessi degli azionisti nei confronti di atti di abuso di gestione da parte degli amministratori, ma anche del controllo del corretto operato della banca intermediatrice, secondo parametri procedimentali dettati dalla normativa regolamentare Consob ed a garanzia degli investitori – e, dall’altro lato, l’obbligo legale di denuncia immediata alla Banca d’Italia e alla Consob, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 8 delle violazioni delle norme dettate in tema di intermediazione mobiliare.
13. Con il tredicesimo motivo, denunciando violazione falsa applicazione degli artt. 114, 115 e 116 cod. proc. civ., omesso esame di circostanze decisive, omesso esame di censure svolte, la ricorrente si duole del mancato esame delle ragioni di illegittimità del decreto svolte nel settimo motivo di opposizione che riguardava la violazione del principio ne bis in idem, e di quelle svolte nel nono motivo, che riguardava la consistenza delle informazioni disponibili offerte alla clientela, i rapporti e le informazioni disponibili alla circolazione delle medesime nella clientela e la mancata considerazione delle effettive caratteristiche in punto di fatto delle violazioni riscontrate.
La ricorrente chiede quindi di affermare che il giudice di merito deve pronunciarsi al fine di verificare la fondatezza delle censure non esaminate relative alla violazione del principio del ne bis in idem e alle effettive caratteristiche in punto di fatto delle violazioni riscontrate.
13.1. Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha infatti escluso espressamente che le condotte contestate ai punti 2 e 3 della ingiunzione si identifichino, riguardando, l’una, l’omesso apprestamento di una specifica procedura e, l’altra, gli specifici comportamenti tenuti nei confronti dei clienti.
Quanto al dedotto omesso esame delle censure svolte con il nono motivo di opposizione, la censura è del pari infondata, atteso che la Corte d’appello ha affermato che il 9 motivo di opposizione ripercorre argomenti che si sono già esaminati sub f e, per i motivi già detti, risulta, quindi, infondato. Come esattamente rileva la controricorrente Consob, peraltro, i motivi di opposizione attinenti al merito delle contestazioni hanno formato oggetto di esame da parte della Corte d’appello in sede di esame dell’ottavo motivo, sub i).
Appare dunque evidente che l’indicazione della lettera f) come sede di trattazione delle censure di merito altro non costituisce che un errore materiale, chiaramente riconoscibile dal tenore del testo del provvedimento impugnato, dovendosi il rinvio ritenere effettuato alle argomentazioni svolte sub i).
La specifica considerazione delle censure dalla ricorrente svolte nel nono motivo e la reiezione delle stesse per le medesime ragioni svolte nell’esame di un altro motivo di opposizione rendono poi evidente che la Corte d’appello ha interpretato le censure formulate nel nono motivo e ha ritenuto che le stesse trovassero adeguata risposta nelle argomentazioni già svolte; e una tale interpretazione non ha formato oggetto di censura da parte della ricorrente.
14. Con il 14 motivo, la ricorrente, evidenziando che il 3 giugno 2006 è deceduto il dott. B.S., chiede che venga dichiarata estinta la sanzione irrogata per gli illeciti a lui attribuiti.
14.1. Il motivo è fondato.
Questa Corte ha infatti avuto modo di affermare che la morte di colui che nel provvedimento sanzionatorio adottato dall’Amministrazione è individuato come autore della violazione comporta l’estinzione dell’obbligazione di pagare la relativa sanzione pecuniaria – giacchè essa, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 7 non si trasmette agli eredi – nonchè, in ipotesi di pendenza del giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione, la cessazione della materia del contendere sia in ordine alla sussistenza della responsabilità, che all’entità della sanzione applicata. La dichiarazione di tale cessazione – che fa venir meno la pronuncia sull’opposizione che sia stata impugnata e che determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ordinanza ingiunzione – può essere effettuata anche dalla Corte di cassazione, dinanzi alla quale la documentazione dell’avvenuto decesso può essere depositata ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ. (Cass. n. 22199 del 2010).
In applicazione di questo principio, il motivo di ricorso va accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato, alla quale segue la decisione nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., nel senso della dichiarazione di estinzione della sanzione per decesso dell’esponente aziendale B.S., ferme le altre statuizioni, ivi compresa quella in punto di spese.
15. In conclusione, rigettati i motivi da uno a tredici, va accolto il quattordicesimo motivo, con le statuizioni conseguenti appena enunciate.
In considerazione della sostanziale soccombenza della società ricorrente, la stessa deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta i motivi da uno a tredici del ricorso; accoglie il quattordicesimo; cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito, dichiara estinta la sanzione per decesso dell’esponente aziendale B.S.; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.200,00 in favore della Consob, di cui euro 15.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge, e in euro 15.000,00 per onorari oltre alle spese prenotate e prenotande a debito in favore del Ministero dell’economia e delle finanze.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 16 novembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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