Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-02-2013) 27-02-2013, n. 9398

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. Con sentenza del gup del Tribunale di Bari in data 7.11.2008 P.F. era stato assolto dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, mentre era stato condannato per reati in materia di armi alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ed Euro 300 di multa; in secondo grado, in accoglimento del gravame del P.M., la Corte di appello di Bari riformava in peius la sentenza e condannava l’imputato per entrambi i reati alla pena di anni cinque di reclusione, con pene accessorie e misura di sicurezza della libertà vigilata per due anni.
Nell’ambito di una vasta indagine su gruppi malavitosi operanti sul territorio di (OMISSIS), in posizione contrapposta, l’uno facente capo a Pa.Ag. (assassinato nel 2000) e l’altro alla famiglia XXX – indagine svolta con il fondamentale contributo delle intercettazioni telefoniche – era emersa la figura di P. F. che risultava essersi messo in contatto con C. R., soggetto a capo del sodalizio mafioso, che seppure ristretto in carcere era riuscito a disporre di un telefono cellulare. Attraverso detta utenza appunto il C. fin dal 4.4.2002 aveva ingiunto al cognato L. di intervenire in modo aggressivo contro le famiglie Pesce-Pistillo, mediante le armi che convenzionalmente indicava in dialetto con i termini "bambina" e "bambino" (riferibili alla pistola ed al mitra a disposizione), lamentandosi tra l’altro del fatto che proprio le donne della famiglia Pistillo avessero cacciato dal quartiere (OMISSIS) sua moglie, A.M., senza trovare la minima opposizione. Sempre dalle telefonate intercettate era emerso che la stessa A., nei giorni seguenti, si era compiaciuta con il marito che aveva dato una "strigliata" agli associati. In data 7.4.2002 risultava che era stato il P. ad avere contattato il C. in carcere, su invito del l’ A. e ad aver ricevuto lo stesso pressante invito a rompere ogni indugio e a compiere l’attentato a Pe.
G., che stava per essere scarcerato, nonchè il rimprovero per aver consentito alle donne dei Pistillo di cacciare l’ A. dal quartiere. Sempre in detta occasione, veniva esortato il P. a prendere le armi ("u mninn" e la "mnenn") e lo stesso veniva incaricato di salutare quelli di (OMISSIS). Ancora successivamente, e cioè il (OMISSIS), A. riferì al marito che il P. aveva manifestato timore per quella telefonata e la volontà di non parlare più al telefono, onde evitare rischi, ed infatti non ebbe più a chiamare il C. che se ne lamentò con la moglie invitandola a fare ricordare l’incarico ricevuto al C. medesimo, pel tramite di L.S..
Sulla base di detto materiale investigativo la corte evidenziava che l’imputato aveva perfettamente compreso il linguaggio criptico del capo mafia e aveva recepito l’invito a porre in essere un’azione di fuoco contro Pe.Gi., ma che ebbe a nutrire esitazioni ad agire solo in ragione del sopravvenuto timore di esser stato ascoltato nel corso della compromettente telefonata avuta con il C. ristretto in carcere (non potendo non fare specie il fatto che il detenuto potesse disporre di un telefono cellulare attraverso cui impartire ordini). Il suo coinvolgimento in un ambito associativo era facilmente arguibile secondo la Corte – che dissentiva dal primo giudice – proprio dal fatto che il C. gli aveva dato un incarico di fiducia, anche a tutela del prestigio della moglie, e lo aveva officiato di portare i suoi saluti al clan di Barletta. Sul punto venivano valorizzate le indicazioni di due collaboratori, che avevano indicato il ricorrente come tramite tra il clan di Andria e quello di Barletta. Di qui l’affermazione di colpevolezza non solo per il reato in materia di armi, ma anche per quello di associazione mafiosa la cui sussistenza è stata affermata in via definitiva nell’ambito del processo principale, da cui la posizione del prevenuto venne stralciata.
2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, pel tramite del suo difensore per dedurre:
2.1 Mancanza di motivazione quanto al reato associativo sub 1).
Avendo riformato in senso peggiorativo la sentenza, il giudice di appello era tenuto ad un discorso giustificativo molto più specifico e puntuale sulle linee portanti del ragionamento probatorio, con l’onere di adeguatamente affrontare le argomentazioni di segno contrario offerte dalla difesa. Tale onere non sarebbe stato assolto.
Vien fatto rilevare che come aveva scritto il primo giudice nessun contributo informativo specifico è stato raccolto tra i collaboranti di giustizia, quanto al ruolo rivestito dal P. in senso al sodalizio; i dati provenienti dall’esito delle telefonate non sarebbero indicativi , come sostenuto dal gip, di intraneità, e sul punto la corte non avrebbe offerto alcuna ragione giustificativa della diversa opinione. La differente interpretazione della conversazione telefonica sarebbe frutto di una mera ipotesi, sulla base di un dato probatorio non ancorato a riscontri oggettivi, nè tanto meno a dati fattuali. Mancherebbe quindi un tessuto motivazionale adeguato per poter esercitare un controllo della logicità del discorso giustificativo, posto che detto controllo va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso cui si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato.
2.2 mancanza e manifesta illogicità della motivazione. La dimensione probatoria della partecipazione all’associazione si esaurirebbe nell’analisi delle due telefonate intercettate. La dimostrazione di un effettivo inserimento in un struttura organizzata è, secondo la difesa, cosa diversa dall’accordo per compiere un delitto; i rapporti telefonici durati un giorno con un pregiudicato nulla potrebbero dire sull’esistenza di un vincolo associativo. La stessa telefonata di invito a prendere le armi, peraltro mai rinvenute, nulla poteva dire sulla consapevolezza di partecipare alla vita dell’associazione, mancando l’aspetto dinamico e funzionale del "prendere parte" all’associazione. Si lamenta la difesa che non sia stato dato conto con rigorosa analisi se P. avesse fatto propri gli scopi dell’associazione, se con il suo operato avesse arrecato stabilmente e non occasionalmente un contributo concreto agli scopi associativi e se avesse offerto uno specifico e consapevole apporto al mantenimento in vita del sodalizio. Dovevano essere valorizzati i dati ritenuti significativi nella prima sentenza, secondo cui il ricorrente non risulta aver avuto rapporti con altri esponenti del gruppo e non ebbe a partecipare a discussioni sulle condotte funzionali agli interessi dell’associazione. Non sarebbe stato neppure attribuito un ruolo specifico al prevenuto; nè sarebbe stata indicata un’attività finalisticamente orientata alla realizzazione di uno scopo comune posta in essere da questi. I contributi dei collaboratori sono stati del tutto svalutati dalla sentenza di secondo grado che non li ha neppure menzionati, fatta eccezione per il D. che ebbe a dichiarare che il P. faceva da tramite tra i clan, senza peraltro indicare quali fossero detti clan e senza menzionare alcuna associazione mafiosa della città di (OMISSIS). Vien fatto rilevare che l’unico pentito andriese, il Lo., nulla ebbe a dire sul P., circostanza questa che doveva essere adeguatamente valutata.
2.3 erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità.
Sarebbe mancante nella sentenza impugnata il riferimento ad atti specifici di intimidazione e violenza, volti a dimostrare la capacità attuale dell’associazione di incutere timore, e la corte territoriale avrebbe omesso di dare adeguatamente conto del metodo mafioso, ritenendolo integrato sulla base di considerazioni apodittiche e soggettive. Avendo modificato la sentenza di seconde cure l’assetto originario dell’associazione, si sarebbe dovuto nuovamente analizzare la storia, la struttura e la caratura mafiosa della consorteria. Quanto ai reati fine, vien fatto rilevare che al P. non solo non fu mai contestato il reato in materia di stupefacenti, ma neppure quello in materia di gestione dei rifiuti.
Quanto al controllo del territorio, non poteva certo essere desunto dalle due telefonate suindicate, dovendosi intendere per controllo del territorio la pressione nei settori economici, onde creare condizioni di gestione in monopolio di settore di attività economica.
2.4 vizi di legittimità ex art. 606 c.p.p., lett. c), d) e) in relazione al ritenuto addebito in materia di armi, sub capo 3.
Vien fatto rilevare che le armi non vennero mai trovate, cosicchè nessun elemento e nessun atto investigativo provano, al di là di ogni ragionevole dubbio, la detenzione illegale di armi. La corte avrebbe taciuto sulla impossibilità di riconoscere l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. Per parlarsi di condotta agevolatrice occorre una condotta che offra un contributo fattivo e concreto al perseguimento del fine dell’associazione, laddove nel caso di specie, anche ammesso che vi fosse disponibilità di armi, la detenzione non sarebbe stata orientata finalisticamente ad agevolare l’associazione.
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Alla luce del costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte di legittimità, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, deve essere sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza (Sez. 6, 3.11.2011, n. 40159). E’ stato aggiunto che non può essere ritenuto sufficiente per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva maggiore e tale da dissolvere "ogni ragionevole dubbio", in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. Si deve ritenere che nel caso di specie il ribaltamento operato dalla Corte d’appello ha rispettato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, i criteri testè evidenziati. Intanto si deve evidenziare che vanno considerati come incontestabili la sussistenza dell’associazione criminosa di cui l’imputato è stato ritenuto partecipe, la disponibilità delle armi in contestazione in capo ai coimputati C.R. e L. A. e l’uso del metodo mafioso, attesa la definitività della sentenza del processo principale intervenuta il 1.6.2012.
Detto ciò occorre aggiungere che il ruolo del P. come uomo di fiducia del C. non poteva essere negato alla luce delle indicazioni raccolte con l’ascolto a distanza dei colloqui telefonici intercorsi tra il C. (ristretto in carcere) ed il L. e tra C. ed il P., dialoghi in cui C. ebbe ad intimare al primo di agire con aggressività fidare lo spavento") contro i Pesce-Pistillo e con cui invitò il secondo ad intervenire con le armi, visto che il Pe. stava per essere scarcerato, aggiungendo poi di salutare quelli di Barletta. Nè poteva essere messo in discussione il dato che il P. avesse la disponibilità delle armi unitamente al L., se vero è che a loro due il C. fece ricorso per stimolarli all’attacco del clan avverso. Ora, a fronte di questa piattaforma indiziaria, il ragionamento seguito dal primo giudice secondo cui la disponibilità delle armi non significava disponibilità di servizio all’attuazione del metodo mafioso tipico del sodalizio, non poteva che essere bollato come irragionevole, tanto più considerato che lo stesso primo giudice aveva dovuto riconoscere che la disponibilità delle armi così come era conclamata nella conversazione registrata era idonea ad agevolare il sodalizio mafioso di cui C. era a capo.
La considerazione secondo cui doveva ritenersi del tutto implausibile che il C. ordinasse all’Imputato di prendere la pistola ed il mitra per colpire i Pe. senza avere contezza della reale disponibilità, non presta il fianco ad alcun appunto in termini di logicità, tanto più che venne usato l’articolo determinativo per indicarli, segno di un preciso riferimento a dati di realtà ben conosciuti a lui ed all’imputato. Parimenti non poteva essere sottovalutato, come osservato dai giudici di seconde cure, che al C. fu assegnato non solo l’incarico di spaventare i componenti del clan avverso, ma di scortare e tutelare la moglie del prevenuto stesso, che aveva dovuto subire l’onta dell’allontanamento dal quartiere: detto incarico non poteva essere sottovalutato al punto da ritenere che un capo mafia l’avrebbe assegnato ad un quisque de populo, dovendo per contro ritenersi che la delicatezza del mandato richiedeva per forza di cose la scelta del designato nella cerchia dei sodali di maggiore fiducia. Tale ragionamento appare conducente e lineare, privo di forzature o derive congetturali e si rafforza se solo si consideri – come hanno suggerito i giudici di secondo grado – che il C. non solo ebbe a richiedere all’uomo di fiducia di intervenire con tempestività, ma addirittura ebbe a lamentarsi dell’operato di altri partecipi ritenuti troppo fiacchi nella risposta da dare al clan avversario. E’ oltremodo lineare l’aver ritenuto che un uomo di mafia difficilmente si abbandona a simili confidenze con soggetti esterni all’associazione, ma che anzi intrattenga questo tipo di conversazione con soggetti intranei da tempo risalente. L’incedere logico dell’argomentare dei giudici dell’appello è assolutamente privo di cadute. Non poteva portare ad opinare diversamente, per dimostrare l’estraneità dell’imputato al sodalizio e la sua indipendenza nel decidere se dare corso o meno alle disposizioni ricevute, il dato che il P. ebbe a disattendere all’ordine del capo bastone, poichè è di tutta evidenza – come correttamente evidenziato dalla corte territoriale – che il P. esitò ad eseguire l’ordine non per indisciplina all’ordine gerarchico (inammissibile nella logica mafiosa), ma perchè assalito dal presentimento di essere stato ascoltato a distanza, avendo tutto ad un tratto realizzato che era cosa ben strana che un detenuto potesse liberamente telefonare dalla sua cella del carcere, verso l’esterno, senza essere ascoltato a distanza.
Dunque il comportamento tenuto dall’imputato non poteva essere letto in chiave di autonomia decisionale, ma piuttosto in chiave di prudenza. Sul punto non può non essere stigmatizzata l’irragionevolezza della valutazione operata in primo grado.
Nè poteva essere sottaciuto che il P. era stato indicato da diversi collaboratori come soggetto vicino al clan Pastore, con ruolo di collegamento con il clan di Barletta: infatti sia nella sentenza di primo che in quella di secondo grado si è dato conto che i collaboratori di giustizia F. e D. lo indicarono come l’anello di congiunzione tra i clan di Andria e quello di Barletta, cosicchè doveva essere valorizzato in chiave di riscontro proprio il saluto "a quelli di Barletta" che il C. chiese al P. di recapitare; in particolare l’imputato venne indicato come colui che mediò tra i gruppi criminali di (OMISSIS) quando venne costruita l’Ipercoop di (OMISSIS) ed i relativi scavi vennero assegnati agli andrianesi, che avevano chiesto il nulla osta alla malavita di (OMISSIS); nè poteva essere dimenticato che il C. era stato indicato come uomo della squadra del Pa.
da parte di Z.A. o come affiliato in grado di sparare da parte di F.S.. Dunque ai dati oggettivi emersi dalle intercettazioni si sono aggiunti contributi rappresentativi assolutamente compatibili che hanno rafforzato il peso probante del compendio. A ben poco può rilevare nell’economia della valutazione il fatto che il collaboratore di giustizia andrianese Lo. non abbia parlato del P., considerato che il silenzio su di lui potrebbe essere riconducibile a valutazioni del tutto personali del collaborante, che non possono depotenziare l’attitudine dimostrativa degli elementi acquisiti.
Il discorso giustificativo della sentenza di seconde cure è stato adeguatamente argomentato, nel senso che è stato dato conto di un percorso valutativo di maggiore forza persuasiva, così da superare senza esitazioni il ragionevole dubbio che si annida in una vicenda processuale connotata da due opposte conclusioni, assunte nei due gradi di giudizio di merito. Il percorso argomentativo seguito in secondo grado, non solo più aderente ai dati di fatto, ma confacente a criteri inferenziali di maggiore rigore logico e di maggiore affidabilità, consente di addivenire a conclusioni di certezza.
Al rigetto del ricorso deve seguire la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2013

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