Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-08-2012, n. 14196

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Svolgimento del processo
Con ricorso dell’11/5/04 R.M.C. adì il giudice del lavoro del Tribunale di Roma per sentir dichiarare l’inefficacia del licenziamento intimatole il 19/7/02 dall’Associazione Italiani Allevatori, assumendo che lo stesso era stato adottato in violazione della L. n. 223 del 1991, art. 24 per mancanza dell’avviamento delle procedure di consultazione sindacale di cui all’art. 4 della stessa legge o in violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, in assenza del giustificato motivo, o per inosservanza dell’obbligo di "repechage", con condanna della convenuta alla reintegra o alla riassunzione o al pagamento dell’indennità sostitutiva, oltre che alle retribuzioni maturate fino alla riassunzione.
Il giudice adito respinse il ricorso.
A seguito di impugnazione da parte della lavoratrice, la Corte d’appello di Roma – sezione lavoro ha accolto il gravame con sentenza del 28/9/09 – 24/2/10, dichiarando l’illegittimità del licenziamento ed ordinando all’associazione convenuta la reintegra della R. nel posto di lavoro, con condanna alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal recesso alla effettiva reintegra, il tutto con gli accessori di legge ed il favore delle spese de doppio grado di giudizio.
Dopo aver escluso che l’ipotesi in esame rientrasse nella previsione di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24 e pur dando atto che era emersa l’effettività del processo riorganizzativo, la Corte di merito ha spiegato che dall’istruttoria era risultato che le mansioni espletate dall’appellante, la cui soppressione era stata indicata come motivo del licenziamento, erano state in realtà affidate alla lavoratrice D.F.N., formalmente dipendente di una società controllata ma di fatto distaccata presso l’A.I.A.. Quest’ultima era stata inserita nell’organizzazione aziendale solo in epoca successiva al contestato recesso e le mansioni prima espletate dalla R. non erano state redistribuite tra il personale preesistente, per cui difettava il necessario nesso causale tra la ragione oggettiva addotta a giustificazione del licenziamento e la soppressione del singolo posto di lavoro; inoltre, la datrice di lavoro non aveva offerto la prova dell’impossibilità di "repechage" dell’appellante e dagli atti di causa erano emersi elementi utili all’applicazione della tutela reale.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’A.I.A – Associazione italiana allevatori che affida l’impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso la R..
La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in riferimento alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3, nonchè il difetto di motivazione circa un fatto controverso e decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5).
La ricorrente muove le proprie censure alla parte della motivazione della decisione impugnata con la quale è stata ritenuta insussistente la causa giustificativa del recesso, facendo osservare che nella stessa sentenza si da atto dell’effettività del processo riorganizzativo dovuto alla diminuzione dell’attività di stoccaggio delle carni bovine, comprovato dall’esodo incentivato di dodici dipendenti, oltre che dell’avvenuto accorpamento delle mansioni della R. a quelle di un altro dipendente.
Per quel che concerne, invece, l’affidamento in concreto delle mansioni svolte dalla R. alla lavoratrice esterna D.F. che operava per la XXX s.r.l., società economicamente collegata alla AIA, e che era stata distaccata presso quest’ultima associazione, rileva la ricorrente che si tratta di circostanza non comprovante, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, un fatto idoneo a porre in dubbio l’effettività della libera scelta imprenditoriale di riorganizzarsi, scelta che si sottrae al controllo giurisdizionale, per cui non era necessario, ai fini della legittimità del licenziamento, che la redistribuzione delle mansioni dovesse avvenire solo tra il personale preesistente.
In pratica, la ricorrente contesta che, a fronte di una comprovata riorganizzazione aziendale, la ritenuta sostituzione di una dipendente con un’altra lavoratrice esterna potesse rappresentare una ipotesi di licenziamento illegittimo alla luce della L. n. 604 del 1966, art. 3, tanto più che nella fattispecie non era stata eseguita una sostituzione, bensì la soppressione della posizione lavorativa della R. attraverso la redistribuzione e l’accorpamento delle mansioni della stessa ex-dipendente, interessate dalla riorganizzazione aziendale, tra una pluralità di dipendenti. Quindi, secondo tale assunto difensivo, l’area coperta dalla insindacabilità della scelta aziendale è comprensiva non solo della soppressione del singolo posto di lavoro, ma anche della scelta del lavoratore cui attribuire le mansioni di quello licenziato.
La ricorrente contesta, altresì, la parte della motivazione della sentenza con la quale le è imputato il mancato adempimento dell’onere probatorio relativo al cosiddetto "repechage" della lavoratrice licenziata, adducendo che era stata dedotta l’impossibilità di reimpiego della R., in quanto le sue mansioni erano state redistribuite tra altri dipendenti, così come era stato spiegato che tale situazione di fatto era causalmente collegata al processo di ridimensionamento dell’organizzazione aziendale e lavorativa nel suo complesso, per cui da tutto ciò si sarebbe potuto agevolmente trarre la prova indiretta dell’impossibilità del cd. "repechage".
Il motivo è infondato.
Invero, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di connesso obbligo di "repechage", questa Corte ha di recente avuto modo di precisare (Cass. sez. lav. n. 19616 del 26/9/2011) che "il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. 15 luglio 1996, n. 604. ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento di profitti, e che dimostri, inoltre, l’impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la corte territoriale aveva ritenuto non raggiunta la prova della soppressione del posto di responsabile di laboratorio, emergendo solo una diversa distribuzione delle mansioni in forza di una revisione del pregresso assetto organizzativo; la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio, ha rigettato il ricorso)".
Per quel che concerne in particolare il licenziamento determinato da ragioni organizzative dell’impresa, si è ancor più di recente statuito (Cass. Sez. Lav. n. 7474 del 14/05/2012) che "in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto. (Nella specie, il recesso era stato motivato sul presupposto della soppressione del posto cui era addetta la lavoratrice, le cui mansioni erano però state assegnate ad altra dipendente, assunta con contratto a termine per più volte, ed avente diverso inquadramento; la S.C., nell’escludere l’effettività delle ragioni indicate dal datore in ragione dell’identità delle mansioni delle lavoratrici, ha ritenuto l’illegittimità del recesso)".
Orbene, calando tali principi nella fattispecie in esame può′ affermarsi che la Corte d’appello ne ha fatto corretta applicazione, dal momento che con motivazione congrua ed immune da vizi di natura logico-giuridica ha verificato l’illegittimità dell’impugnato licenziamento alla stregua delle seguenti considerazioni:- Nella memoria di costituzione in appello la difesa dell’Associazione non aveva più negato che la D.F. avesse svolto le mansioni della R., ammettendo che le stesse erano state accorpate in parte a quelle svolte dalla stessa D.F. ed in parte alle funzioni disimpegnate dalla D.A., per cui non poteva ritenersi che tali mansioni fossero state soppresse; la D.F., seppur dipendente da altra società controllata, aveva di fatto iniziato a lavorare presso l’A.I.A. quasi contestualmente al licenziamento della R.; il medesimo procuratore speciale dell’Associazione aveva dichiarato che le mansioni inerenti la gestione del personale (delle quali si occupava la R.) erano rimaste all’interno dell’azienda (queste non erano divenute marginali per il solo fatto dell’esodo incentivato di dodici dipendenti); dalle deposizioni dei testi I. e P. si era avuta conferma dello svolgimento delle mansioni della R. da parte della D.F., pur dopo il licenziamento dell’appellante, come ribadito da ultimo pure dalla stessa D.F.; nell’ordine di servizio del 3/10/2002, relativo al nuovo assetto organizzativo dell’A.I.A., non erano stati indicati gli interventi ristrutturativi riguardanti le attività svolte dalla ricorrente; non era stato provata l’esistenza di un nesso causale tra la ragione oggettiva addotta a giustificazione del recesso e la soppressione del singolo posto di lavoro.
A quest’ultimo riguardo è opportuno considerare che tra la soppressione del posto ed il riassetto organizzativo dell’azienda mediante l’utilizzazione di altri dipendenti in servizio non c’è un nesso di diretta ed automatica consequenzialità, nel senso che la valutazione del giustificato motivo oggettivo non si esaurisce nel riconoscimento dell’autenticità, e non pretestuosità, della soppressione parziale, implicando, quest’ultima, una maggiore o minore attività residuale che il lavoratore licenziato potrebbe svolgere per il solo fatto che già la espletava in precedenza. Nè appare superabile il rilievo del mancato assolvimento del tentativo di "repechage" alla luce della dedotta esistenza di elementi semplicemente presuntivi che la difesa dell’odierna ricorrente pretende di far discendere dall’affermazione della necessità della redistribuzione delle mansioni in precedenza svolte dalla R. e dalla dedotta concatenazione causale di tale redistribuzione col processo di ridimensionamento complessivo dell’azienda, non potendosi riversare sulla lavoratrice l’onere di fornire indicazioni di possibilità alternative di reimpiego, la cui dimostrazione poteva provenire solo dalla parte datoriale nella sua veste di organizzatrice del sistema di lavoro.
Al riguardo si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 12514 del 7/7/2004) che "il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, L. 15 luglio 1966, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; il lavoratore ha quindi il diritto a che il datore di lavoro (su cui incombe il relativo onere) dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo – organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, la impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, con motivazione insufficiente e incompleta, aveva ritenuto sussistente il giustificato motivo oggettivo desumendolo dall’avvenuta riorganizzazione delle mansioni affidate al lavoratore licenziato, nell’ambito dell’ufficio cui questi era addetto, attraverso una redistribuzione delle stesse tra il personale occupato nel medesimo ufficio, e comunque da un generale programma di riduzione dei costi aziendali), (in senso conforme v. anche Cass. sez. lav. n. 21282 del 2/10/2006, nonchè Cass. sez. lav. n. 19616 del 26/9/2011).
Nè va sottaciuto che "in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per ragioni inerenti l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, se il motivo consiste nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, – in relazione al quale non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere, nè il criterio dalla impossibilità di "repechage" – il datore di lavoro deve pur sempre improntare l’individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell’art. 1175 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di esse". (Cass. sez. lav. n. 7046 del 28/3/2011).
2. Col secondo motivo è dedotto l’errore di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) per violazione e falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 e della L. 12 maggio 1990, n. 108, art. 4, oltre che la nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) in riferimento all’art. 112 c.p.c., in quanto si sostiene che il giudice d’appello ha omesso di pronunziarsi sull’appello incidentale condizionato attraverso il quale era stata denunziata la mancata decisione del giudice di primo grado sull’eccezione preliminare diretta a sostenere l’esclusione dei datori di lavoro non imprenditori, i quali svolgono attività senza fine di lucro, dall’ambito di applicazione della tutela reale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, alla stregua di quanto previsto dalla L. 12 maggio 1990, n. 108, art. 4, comma 2.
Il motivo è inammissibile.
Invero, già nel controricorso della R. è chiaramente spiegato che all’udienza di discussione del 28 settembre 2009 il procuratore dell’AIA aveva rinunziato all’appello incidentale condizionato e la difesa della lavoratrice aveva accettato tale rinunzia.
In ogni caso si osserva che con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. la stessa difesa dell’odierna ricorrente si duole dell’errore in cui è incorsa nel proporre il secondo motivo di censura, imputandolo al fatto che nell’impugnata sentenza la Corte d’appello non aveva dato atto dell’intervenuta rinunzia, seppur verbalizzata.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3500,00 per onorario e di Euro 60,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.
Così deciso in Roma, il 12 aprile 2012.
Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2012

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